Ventuno anni fa tra le città di Roma e di Napoli iniziava a funzionare una nuova ferrovia, la terza a collegare la capitale e il capoluogo campano. Due binari elettrificati a 25 kV percorrevano perlopiù in rettilineo quei 211 km. Gli ETR 500 n. 31, 59 e 60 andavano avanti e indietro a vuoto lungo le rotaie raccogliendo dati preziosi, facendo prove su prove a velocità crescenti, per più di un anno, per sondare le potenzialità della nuova opera.
A bordo, decine di tecnici e ingegneri cercavano di farsi un’idea della bontà del loro operato. In cabina il display del nuovissimo sistema di sicurezza ERTMS/ETCS di livello 2 europeo, alla sua prima apparizione assoluta, affiancava i macchinisti nel compito di controllare la corsa di quello che era allora lo stato dell’arte del treno italiano. Era arrivata in Italia l’Alta Velocità, quella con la A e la V maiuscole, quella vera. Quella sul modello francese o giapponese, con le curve quasi inesistenti perché gli ostacoli naturali come vallate e montagne venivano “spianate” da chilometri e chilometri di viadotti e gallerie, frutto di investimenti immani.
Però fermiamoci un attimo, perché sono sicuro che dopo queste poche righe qualcuno starà già borbottando e obiettando “Ma in Italia l’alta velocità esiste da molto più tempo, siamo sempre stati all’avanguardia al riguardo!”. Certo, è vero e infatti la nascita del concetto di AV è sempre un dibattito infinto, di quelli da osservare con i popcorn.
Quindi facciamo una premessa.
Il concetto di Alta Velocità non è mai nato, bensì è sempre esistito. Pensate alle automobili: le auto sportive sono sempre esistite fin dall’epoca pionieristica. Con i treni è la stessa cosa. Spesso su Rollingsteel avete letto il nome di tale Isambard Kingdom Brunel, un tizio (un ingegnere, a dirla tutta) matto come un cavallo che costruì di tutto e di più, fra cui un mostro galleggiante lungo due volte e mezza le navi contemporanee. Il padre di questo, Sir Marc Isambard Brunel, non era da meno; fu quello che costruì il tunnel sotto il Tamigi a Londra, che fece da apripista alla costruzione della metropolitana. E vale la pena ricordare che Londra fu la prima città al mondo a esserne dotata (inizialmente a vapore, pensate che arietta).
Ma a noi interessa un terzo tizio suo dipendente, ing. Thomas Russell Crampton: questo gentiluomo ideò e fece costruire a partire dal 1846 delle signore locomotive dotate di ruote motrici di grande diametro, che raggiungevano l’incredibile velocità di 120 km/h, quando le macchine della concorrenza erano delle moke da 3 con le ruote e non solo non esistevano le auto, ma nemmeno le bici! Quindi, chiedersi se l’Alta Velocità l’abbiano inventata i francesi, i giapponesi o gli italiani e quando, è come discutere del sesso degli angeli. Semplicemente sono sempre esistiti i treni veloci e quelli lenti.
Tornado al presente, chi vuole viaggiare da Bologna a Firenze può farlo in soli 38 minuti, a patto di non perdersi nella stazione sotterranea di partenza. Questo nonostante le due città siano divise da 78 chilometri e da una catena montuosa. La linea AV, su cui torneremo dopo, è stata aperta nel dicembre 2009. Prima cosa c’era?
Nel 1845 viene presentato al Granduca di Toscana il progetto per la prima ferrovia per collegare Bologna a Pistoia. Nota con il nome di Porrettana, incrocia al capolinea la Firenze-Lucca permettendo un primo collegamento “transappenninico”. Si inerpica per 99 chilometri, 47 ponti e 35 gallerie scavate tutte a picconate e cattiveria, perché nemmeno la dinamite era diventata d’uso comune. Le statistiche dei morti sul lavoro sono dei bollettini di guerra. La più lunga di queste, nota come Galleria dell’Appennino, misura 2,7 chilometri, con un dislivello di 75 metri e un tracciato interamente rettilineo e in leggera pendenza (praticamente l’unico tratto dritto di tutta la ferrovia); ciò è voluto per garantire la miglior circolazione possibile dei fumi e del vapore delle locomotive, che rendevano ogni galleria una potenziale trappola mortale.
Dobbiamo immaginarci gli equipaggi con le pezze bagnate sul naso che alla fine del tunnel zompavano giù dalla macchina mezzi asfissiati e si facevano dare il cambio. Qualche volta si aggiungeva una seconda locomotiva in spinta i cui macchinisti si respiravano i fumi di entrambe, mentre la condensa rendeva scivolose le rotaie in modo che un arresto in galleria, per qualsiasi motivo, fosse una condanna a morte. Non stupisce il passaggio alla trazione elettrica trifase nel 1927.
(foto: marklinfan.com)
Il punto del nostro discorso è che l’allora unico collegamento disponibile tra Firenze e Bologna era una tortuosa linea a binario singolo il cui limite di velocità raggiungeva i 75 km/h. Metteteci in mezzo 12 stazioni e fate presto a impiegare tre ore e mezza. Nel 1914, venuti a galla i limiti oggettivi di una linea non più in grado di star dietro al traffico merci e passeggeri sempre in aumento, cominciano i lavori per la Direttissima.
Ispirandosi a un progetto del 1871, la nuova linea permette di superare gli Appennini con un dislivello praticamente dimezzato, 300 metri contro 600, con un tracciato relativamente rettilineo già a doppio binario elettrificato. Se avete viaggiato su questa linea vi sarete accorti che le stazioni sono disposte in maniera incredibilmente regolare e ben distanziata, a circa 15 minuti l’una dall’altra, tant’è che non c’è nemmeno distinzione fra i regionali normali e veloci.
Superato lo scoglio della sopravvivenza in galleria, scompariva qualsiasi vincolo riguardo alla lunghezza delle stesse: ecco nascere la Grande Galleria degli Appennini, lo stato dell’arte dell’epoca in fatto di infrastrutture. Cinquanta anni di progressi in fatto di edilizia si fanno sentire e il nuovo traforo è lungo quasi 19 chilometri; i convogli più moderni (rango C) lo percorrono a 200 km/h. Quasi orizzontale (o meglio, con un leggero andamento a “schiena d’asino” per motivi strutturali), ha la particolarità di una stazione sotterranea, esattamente in mezzo, dov’erano ricavati altri due binari per permettere ai treni più lenti di scansarsi e far passare quelli veloci senza che dovessero starci dietro per tutto il tunnel. Fino alla fine degli anni Sessanta, quando venne scoperta la parola “sicurezza”, questa stazione, denominata “Precedenze”, effettuava anche servizio viaggiatori e alcuni treni si fermavano: potevate scendere e, previa percorrenza di un’ora di scale, sbucare nel centro “abitato” di Ca’ di Landino.
Questa linea era all’atto del suo completamento, nel 1934, lo stato dell’arte; oggi, percorsa su Intercity, permette di raggiungere Firenze da Bologna in un’ora e 18 minuti, meno di metà rispetto alla vecchia e cara Porrettana. Fino ai primi anni Duemila è rimasto il principale collegamento fra i due capoluoghi ed è frequentata da ogni tipo di treno, dall’Espresso, all’Accelerato, al Direttissimo, fino al Rapido e ai merci.
Questo fino al dicembre 2009, quando dalla nuova stazione sotterranea di Bologna partì il primo ETR 500 con passeggeri al seguito in servizio regolare sulla nuova linea AV (e siamo a tre). Dritta come un fuso, costata quattordici anni di lavori ma soprattutto 5 miliardi di euro, sotterranea per 73 dei 78 chilometri totali della sua lunghezza e con un limite di velocità di 300 km/h, permette il collegamento in 38 minuti, senza alcuna stazione intermedia. A permettere qualcosa che non sarebbe stato pensabile né nel 1914 né tantomeno nel 1864 sono le fresatrici meccaniche TBM, le cosiddette “talpe”, che consentono di velocizzare e rendere più sicuro e preciso il lavoro di scavo che un tempo mieteva vittime a nastro, tra crolli improvvisi e rischi naturalmente connessi all’uso degli esplosivi (per quanto quest’ultima tecnica fosse senz’altro più divertente).
Alcune immagini della costruzione di quest’opera titanica.
In molti sostengono che la prima linea ad alta velocità italiana sia stata la Direttissima Firenze-Roma, costruita “a rate” tra il 1970 e il 1992. Tale linea non era stata pensata fin da subito come AV, semplicemente doveva essere una versione più dritta della preesistente “linea lenta” la quale presentava un tracciato abbastanza tortuoso, tant’è che le varie Vipere, Tartarughe e Settebelli venivano “castrati” a limiti di 90-100 km/h. Basti pensare che la lunghezza totale ammontava a 314 km. La Direttissima è lunga solo 237 chilometri e riduce i tempi di percorrenza da oltre tre ore a circa una e mezza. I limiti di velocità erano tarati sui 200 km/h per gran parte del tracciato (oggi 250) mentre venne sviluppata una versione della RSC (Ripetizione Segnali in Cabina) a 9 codici anziché 4 come nel resto delle linee contemporanee.
Se i sistemi di segnalamento sono stati aggiornati nel tempo con l’introduzione del SCMT e anche dell’ERTMS, da Rovezzano a Orvieto la linea è rimasta elettrificata a 3000V in corrente continua, una soluzione, lo ricordiamo, risalente agli anni Venti ma tutt’ora diffusa su gran parte delle ferrovie italiane. Questo ha fatto sì che vi circolassero, negli anni, treni di tutti i tipi e tutt’altro che veloci, tra Intercity, regionali e addirittura, in passato, le Aln776 (praticamente delle 663 pompate coi motori tarati per regimi più alti e diversi rapporti del cambio).
È questo che ci porta a distinguerla da linee AV moderne come la Roma-Napoli, o la Milano-Bologna o la Bologna-Firenze, dove un treno normale non riuscirebbe nemmeno a muoversi; però il suo lavoro lo fa e oggi da Milano a Napoli si impiegano cinque ore scarse, contro le dodici che servivano una volta. E non certo perché le nostre locomotive fossero lente. Emblematica è stata la scomparsa delle vetture ristorante (non fai manco più in tempo a ordinare) e la riduzione dei treni notturni con cuccette, un tempo più comuni, quando ogni viaggio era praticamente una piccola crociera.
Questo concetto “moderno” di Alta Velocità, con treni lenti su una linea e veloci su un’altra (ovvero diametralmente opposto al principio del Pendolino) nasce in Giappone nei primi anni Sessanta. Col termine Shinkansen non si intendono solo i cosiddetti treni proiettile, bensì tutto il sistema, contrapposto alla rete Zairaisen, quella tradizionale. Questa distinzione fu in verità obbligata, dal momento che la rete “lenta” era costituita quasi interamente da ferrovie a scartamento ridotto, perlopiù non elettrificate, piene di curve che si snodano lungo una Nazione con un andamento orografico, se possibile, più impegnativo del nostro. Impensabile riuscire ad andare forte là in mezzo. Certo è che in pochi anni il Giappone passò da treni a livello “terzo mondo” ad altri “venuti dal futuro”, specie considerando che abbandonarono il vapore relativamente tardi. Tanto di cappello.
Qualcosa del genere venne teorizzato anche dai francesi con l’apertura della LGV Sud-Est nel 1981. Loro avevano le idee ancora meno chiare con mezza rete ferroviaria nazionale ancora elettrificata a 1500 V e le prestazioni che ne conseguivano, tant’è che i prototipi erano alimentati da turbine a gas; alla fine, però, si dovettero rassegnare. Il futuro era una linea dedicata, possibilmente dritta, alimentata in alternata monofase. Noi ci abbiamo messo un tot a capirlo, ma abbiamo recuperato alla grande, e oggi non c’è niente di meglio del treno per viaggiare da una città all’altra.
Poi c’è lui, l’ERTMS/ETCS già citato. Si tratta di un sistema di controllo standardizzato a livello europeo, che permette a un treno svizzero o tedesco di circolare sulla stessa linea senza problemi. Ma questa è solo una delle sue potenzialità. Il cosiddetto ERTMS di livello 1 non è dissimile dal nostro SCMT come funzionamento, basandosi su boe induttive per la comunicazione tra la linea e il convoglio in modo da affiancare il macchinista impedendogli di violare i limiti di velocità e i segnali a via impedita.
Servirebbero una decina di articoli per trattare questi sistemi come si deve, e quindi oggi ci limitiamo a scrivere che l’ERTMS risolve alcune limitazioni del SCMT. Su tutte, impone al macchinista di rallentare sotto la velocità di rilascio (30 km/h o anche 10) prima di un segnale a via impedita, e fin qui tutto bene. Il problema è che il treno non comunica in ogni istante con la linea ma solo durante il passaggio sulle boe, per cui se quel segnale nel frattempo diventa a via libera e si trova fra un chilometro, il treno deve percorrere quel chilometro ai 30 all’ora (o ai 10) senza motivo. Una parte dei ritardi avviene per questo problema che l’ERTMS di primo livello risolve utilizzando punti di comunicazione più frequenti in modo da ottenere una comunicazione quasi continua. Inoltre il treno comunica con i segnali in prossimità degli stessi mediante onde radio in maniera da conoscerne l’aspetto in anticipo; infine ha il vantaggio di essere ancora compatibile con sistemi di segnalamento tradizionali (segnali luminosi verticali); non di rado viene utilizzato anche su linee normali.
Il sistema di blocco a correnti codificate è pressappoco lo stesso: le rotaie vengono utilizzate come mezzo di comunicazione attraverso le quali scorre una corrente ad una determinata frequenza la quale, rilevata dal treno, comunica al macchinista attraverso la RSC (Ripetizione Segnali in Cabina) e al sottosistema di bordo l’aspetto del segnale successivo. Il treno stesso durante il passaggio mette in corto le due rotaie, segnalando alla sala operativa che quella determinata sezione di blocco è impegnata. Tutto questo complesso insieme di dispositivi è volto a garantire il rispetto del principio di distanziamento, il quale prevede che la linea sia divisa in blocchi lunghi da qualche centinaio di metri a diversi chilometri e che due treni non debbano per nessun motivo trovarsi nella stessa sezione (con le conseguenze poco simpatiche del caso) garantendo uno spazio d’arresto sufficiente in ogni condizione.
Se da tale principio deriva anche l’ERTMS di secondo livello, le tecnologie adottate sono completamente diverse. Implementato solo sulle linee AV, realizza una comunicazione continua tra la sala operativa e i treni via onde radio attraverso lo standard GSM-R (la versione ferroviaria del 2G dei cellulari), rendendo inutile il blocco a correnti codificate, ma anche la segnaletica verticale. Su una moderna ferrovia AV non vedrete mai i “semafori”, né i cartelli coi soliti tre limiti di velocità a seconda del rango a cui viaggia il rotabile. Rimangono le sezioni di blocco, ma i segnali che le delimitano non sono luminosi. La terza fase, per il momento esistente solo sulla carta, ne prevede invece l’eliminazione, gestendo il distanziamento in maniera dinamica. Tutto nell’ottica di sfruttare al meglio la capacità di una linea e far transitare più treni possibile; non a caso si parla di linee “AV-AC”, ovvero “Alta Velocità – Alta Capacità”.
Poi ci sono i treni. Il primo progettato con criteri del genere in Italia (ma forse anche nel mondo) è stato l’ETR 200, di cui abbiamo ampiamente parlato a più riprese. Trazione distribuita su più vetture, massa contenuta e le migliori attenzioni nei confronti dell’aerodinamica, che si potessero realizzare con le conoscenze di allora, fra cui le prime gallerie del vento: muso affusolato, sottocassa carenati, mantici a filo con la carrozzeria tra una vettura e l’altra, sono soluzioni ormai standard su qualsiasi convoglio passeggeri, come pure la formula dell’elettrotreno a composizione bloccata e bidirezionale (salvo qualche Eurocity o Intercity Notte ormai i treni monodirezionali, con la coda monca, sono scomparsi). Ma andiamo a vedere qual è stato il vero salto di qualità.
Le E444 erano negli anni ’60-‘70 fra le regine dei binari. Si trattava di macchine molto veloci ma tradizionali come impostazione, con motori a collettori, trasmissione ad albero cavo ad anello danzante e azionamento reostatico, con un avviatore automatico a gestire il disinserimento dei reostati e le combinazioni di marcia serie-parallelo dei motori; unica presenza non scontata la frenatura elettrica. I primi cinque prototipi uscirono limitati a 180 km/h a causa dell’omologazione dei carrelli. Negli esemplari di serie ne vennero adottati svariati, permettendone l’omologazione per i 200 km/h, ma ci si accorse che a tale velocità le “spazzole” (che già si consumano sulle lavatrici, pensate l’attrito e il calore sviluppato in un motore ferroviario) si surriscaldavano, usurandosi precocemente o bruciandosi proprio; un problema risolto dapprima su alcune macchine con un rapporto finale più lungo, a scapito dello sforzo massimo di trazione (già in salita queste macchine non davano il meglio), poi, a partire dalle E444R, con motori diversi.
Gli elettrotreni contemporanei, come i Pendolini 401 e 450 e le Aln601, non avevano più questi problemi ma il “muro” dei 250 km/h in servizio regolare venne superato solo con l’arrivo dei motori asincrono trifase controllati da inverter, consentendo la costruzione di unità più potenti e prive di elementi sottoposti ad attrito che non fossero i cuscinetti. Tolto questo limite, il delirio. I francesi spinsero una versione truzza del TGV Duplex (quello a due piani pure) a 574,8 km/h che per filmarlo dovettero andargli dietro con un aereo.
Da noi un prototipo ETR 500, omologato per i 250 km/h, staccò i 321 km/h sulla Firenze-Roma, tutt’ora il record sotto i 3000 V. La serie successiva, coi locomotori bitensione, è omologata per i 360 km/h, il Frecciarossa 1000 per i 400 km/h; tuttavia nessuna ferrovia italiana ha limiti superiori a 300 km/h, più che altro per ragioni di costi di manutenzione. C’è un tratto della AV Torino-Milano utilizzato per test di omologazione a velocità superiori dove hanno spruzzato la massicciata con una sorta di adesivo per evitare che i sassi, risucchiati dai treni, diventassero proiettili letali distruggendo il sottocassa.
E proprio quella della velocità di servizio è una questione spinosa: tra i 250 e i 300 km/h, velocità alla quale una Formula 1 pesa tre tonnellate solo per effetto della deportanza, i costi di esercizio di un treno aumentano anche del 30%, sia per un discorso di usura che di consumi energetici. I tedeschi forse mancano di inventiva e negli anni sono stati più che altro dei buoni osservatori – a parte qualche cazzata leggerezza tipo le ruote mezze di gomma (vedi disastro di Eschede) – ma i loro ICE sono macchine di tutto rispetto. Per cui, capita la storia dei costi, hanno ordinato i nuovi ICE 4 omologati per i 250 km/h e come loro hanno fatto gli svizzeri con i Giruno e quelli di Italo con gli ETR 675, che sono di fatto dei pendolini che non pendolano.
Questo ci dà un’idea del livello a cui siamo arrivati. Un livello oltre il quale non conviene nemmeno più spingersi perché già rasenta la perfezione. Tutto quello che è più avanti (Mag-Lev, Hyperloop) è in qualche maniera utopistico e sperimentale.
Oggi la situazione è questa, domani chissà. Arriveremo su Marte? Vedremo treni supersonici? Non lo possiamo sapere ora, ma ci possiamo lavorare. Quello che è certo è che se noi siamo su questa Terra di passaggio ma quello che costruiamo rimane qui. Come la galleria degli Appennini, come i treni e le ferrovie.
Bellissimo articolo. Da ingegnere civile vi dico che i problemi iniziano molto prima ovvero dalle fattibilità e dai progetti. Progettare una linea AV nel territorio italiano è un po’ come girare con una scala a pioli messa in orizzontale dentro casa…un vero esercizio di compromesso tra vincoli di ogni tipo (che poi è un po’ il cacio sui maccheroni per noi ingegneri)
mi piace conoscere le nuove tecnologie