Ma poi, ce lo siamo chiesti tante volte: come nacque il treno?
Con un concorso svoltosi nel 1829 in un paesino chiamato Rainhill, a metà tra Liverpool e Manchester, città tra le quali si stava costruendo quella che era praticamente la prima ferrovia seria al mondo. Le rotaie erano un’invenzione già conosciuta, usate nelle miniere, nei tram a cavalli, nelle piste di Mario Kart, ma mancava sempre un qualcosa, un’invenzione in grado di cambiare le carte in tavola, capace di spostare tonnellate di carico senza far faticare qualche bestia, con tutti i limiti e i disagi del caso. Da qualche annetto di bestia ne esisteva una di artificiale, potente, veloce, che non aveva bisogno di mangiare e non si ammalava: si chiamava motore a vapore, e i primi tentativi di infilarlo a bordo di un mezzo di trasporto quasi coincidevano con la sua invenzione. Il primo in questo senso fu tale ing. Richard Trevithick, che nell’A.D. 1804 ebbe l’idea di ficcare il motore di una pompa da miniera su un carretto, altrettanto da miniera. Il risultato era una macchinetta con una velocità massima di 4 chilometri orari, che andava guidata seguendola a piedi o abbarbicati su un carro a mo’ di motofalciatrice BCS, e che con tutti i limiti del caso risultava comunque la prima pietra miliare di una storia ultracentenaria, e ancora oggi, nonostante mille altre invenzioni più entusiasmanti, attuale e in continua evoluzione.
Ai pioneristici tentativi come quello dell’ingegner Trevithick ne fecero seguito altri più o meno strampalati di realizzare dei prototipi di locomotive, fino a che, appunto, qualcuno non pensò di indire un appalto per costruire locomotive in maniera seria, a cui un altro tale Robert Stephenson partecipò e stravinse con la sua Rocket, una locomotiva inusualmente agile, potente e veloce rispetto agli altri accrocchi che giravano, quando il motore a vapore muoveva sì e no i telai delle fabbriche e le pompe delle miniere.
Quel tizio non si accontentò di vincere il consistente premio del concorso, ma fondò un’azienda di tutto rispetto, che per qualche decennio comanderà il settore e detterà le basi per la costruzione non solo delle locomotive, ma anche di ferrovie, ponti, viadotti, stazioni e ogni cosa possibile e immaginabile collegata alla ferrovia. Fino al 1860 qualsiasi cosa circolasse sui binari, o i binari stessi, erano un prodotto Stephenson o su licenza Stephenson. Le locomotive, coperte da una consistente pila di brevetti, erano costruite ovunque in Europa, Italia compresa.
Ma dove vogliamo arrivare?
Fra le tante responsabilità che il tizio che ha inventato il treno si trovava a dover affrontare, c’era da decidere quanto distanti fare le due rotaie. Niente di più semplice: 4 piedi e 8,5 pollici. Gli inglesi, si sa, pur di non usare le unità di misura della gente normale misurerebbero le cose con una certa altra parte del corpo che non possiamo menzionare. Ma perché un valore così balordo? Non poteva fare direttamente 5 piedi numero 42 taglia europea? Così per montare correttamente le rotaie bastava assumere operai con quel numero di scarpe ed era fatta?
In realtà, l’origine di tale misura si perde nella notte dei tempi. Perché quella misura, detta scartamento e corrispondente a 1435 millimetri nostrani, era quella con cui sino ad allora si erano costruite gran parte delle ferrovie e ferrotramvie a trazione animale esistenti.
E le ferrovie a propulsione equina perché usavano quella misura?
Perché era la larghezza delle carreggiate di buona parte delle carrozze e carretti in circolazione all’epoca.
E perché i carretti di una volta usavano quella misura lì?
La questione è un attimo più controversa. Gran parte delle strade in Europa era stata costruita durante il Medioevo, se non durante l’Impero Romano. In tale epoca storica, pare che i carri da guerra dell’esercito imperiale venissero costruiti tutti secondo la normativa dell’epoca (non c’erano le ISO, ma qualcosa del genere) con una carreggiata ben definita, magari misurata in braccia o a spanne, ma sempre di quel valore lì; questi carri finivano per scavare dei solchi sulle strade (visibili per esempio a Pompei) a furia di percorrerle, cosicché anche i costruttori di veicoli civili avrebbero dovuto un po’ adattarsi a questa misura, perché avere una carreggiata più stretta o più larga di 10 cm era un po’ un suicidio, come prendere un marciapiede in macchina. Quella sulla larghezza dei carri romani secondo alcuni sarebbe una notizia fake, noi non c’eravamo per dirlo: fatto sta che sulle ferrovie a trazione animale del ‘7-800 e sui carri stradali contemporanei ci sono pochi dubbi; per sincerarvene, andate a cercare la larghezza della carreggiata della Ford T: 1422 millimetri.
Orbene, finora abbiamo però dato per scontata una cosa non di poco conto: abbiamo fatto finta che i binari fossero tutti dritti e non ci siamo posti il problema di cosa succede in curva.
Perché gli assali ferroviari (se volete tirarvela potete chiamarle anche sale montate), tanto nel ferrovecchio di Stephenson quanto nei TGV, sono in effetti costituiti da un unico blocco, un asse, detto assile, su cui sono calettate le ruote su apposite sedi dette portate. Ne consegue che le due ruote girano alla stessa velocità angolare, che sul dritto ancora non è un problema, ma in curva… meh.
E, purtroppo, la massa dei mezzi su rotaia è eccessivo per potersi permettere di realizzare degli assi a ruote “indipendenti”: il peso assiale nelle ferrovie può arrivare a 25 tonnellate e all’occorrenza superarle, troppe per due mozzi come quelli delle automobili. Come diretta conseguenza, non è possibile utilizzare un differenziale del genere. Che fare?
Beh, se vogliamo variare la velocità lineare di una ruota senza modificarne quella angolare c’è solo una cosa che possiamo fare: cambiarne il diametro. E no, non c’era la svendita sulle birre del discount per farci dire una cosa del genere. Molto più banalmente, qualcuno pensò bene di realizzare le ruote con una forma troncoconica, col diametro inferiore verso l’esterno.
Come si può osservare da questi tre disegni (Politecnico di Torino), il profilo delle ruote oggi in realtà non è esattamente troncoconico, ma varia leggermente a seconda di normative ed esigenze varie.
In questa maniera, quando il treno entra in curva e viene naturalmente spinto verso l’esterno dalla forza centrifuga, il punto di contatto tra ruota e rotaia si sposta verso una sezione a diametro maggiore nel caso della ruota esterna, e minore nel caso di quella interna, permettendo così la percorrenza della curva in maniera fluida, senza sfregamenti degni di nota.
Accade ogni tanto che la flessibilità garantita da questo sistema non sia sufficiente a percorrere curve particolarmente strette. È il caso di linee locali di montagna, dove il percorso, per forza di cosa, è condizionato dall’orografia del luogo, e un binario tradizionale sarebbe difficilmente utilizzabile non tanto perché ingombrante in larghezza, ma perché le curve sarebbero troppo strette per dei treni normali; allora si può fare come nel caso della ferrovia del Bernina, o della Circimvesuviana, o della rete delle ex Ferrovie Calabro-Lucane (o, volendo, dell’intera rete ferroviaria del Sudafrica): si adotta lo scartamento ridotto, ovvero le rotaie distano 950-1000 mm tra di loro, in maniera che a parità di profilo delle ruote si riescano ad ottenere curve più strette. Chiaramente se riduco la “carreggiata”, come nelle auto, devo anche ridurre la velocità in curva; di conseguenza uno scartamento più largo mi dà qualche libertà velocistica in più.
A un tizio pazzo da legare di nome Isambard Kingdom Brunel, di cui abbiamo già ampiamente parlato, questa cosa non parve vera: nel mentre che di notte sognava di costruire il transatlantico più grande del mondo, di giorno progettava una ferrovia, la Great Eastern Railway, con uno scartamento di 2140 mm, praticamente una volta e mezzo le ferrovie che conosciamo oggi, sopra cui dovevano chiaramente circolare delle macchine apposite; forti del binario largo che consentiva, fra le altre cose, molto più spazio libero per caldaie e cilindri più grandi, mentre le locomotive di Stephenson rantolavano a 40 all’ora quelle di Brunel raggiungevano e superavano, maledizione, i 120; e rimasero tecnicamente le macchine più veloci al mondo fino alla fine del secolo, quando anche quelle a scartamento tradizionale diventarono in grado di competere come prestazioni, e dunque, soprattutto per un discorso di compatibilità, i binari vennero portati alla distanza normale.
Fu l’unico caso in cui lo scartamento largo venne adottato per una questione di velocità: in tutti gli altri, come nel caso della Russia, era un sistema, peraltro efficace, per proteggersi dalle invasioni straniere, poiché un ipotetico nemico non avrebbe potuto usufruire liberamente delle ferrovie appartenenti a territori conquistati con le proprie macchine.
Ma torniamo un attimo coi piedi per terra.
Una cosa che un non addetto ai lavori di solito non sa è che per riportare le ruote al profilo di progetto originario vanno tornite ad intervalli che spaziano grosso modo dai 50 ai 150mila chilometri (che un treno percorre in realtà ogni pochi mesi). Ovviamente, asportando materiale il diametro “complessivo” va a ridursi, e ne consegue che sì, anche le ruote dei treni ogni tanto vanno cambiate: al pari delle “tacchette” degli pneumatici delle auto che ne indicano la necessità di sostituirli quando giungono in vista, esiste sul fianco una linea, detta linea di fede, la quale indica il limite minimo di diametro a cui può essere tornita la ruota. A quel punto la ruota è buona solo per il mucchio del ferrovecchio: si prende e si sostituisce con una nuova. Fino al 2002 in Unione Europea era permessa la costruzione di mezzi con ruote dotate di cerchioni smontabili: in pratica si poteva sostituire solo l’anello esterno, risparmiando un po’ sui costi di manutenzione; tuttavia, questa tecnica costruttiva non pagava in termini di affidabilità, poiché soggetta a tutta una serie di problemi. Per esempio, nei treni ad alta velocità la forza centrifuga agente sul cerchione (che è calettato a caldo sul centro ruota) può arrivare a diminuire la forza dell’accoppiamento per attrito, il che potrebbe essere una cosa poco simpatica. Altra eventualità, pure più frequente, è in quei mezzi che presentano i dischi freno in blocco con la ruota stessa: in seguito a lunghe applicazioni del freno continuo, la “scaldata” può essere tale da, di nuovo, provocare spostamenti pericolosi del cerchione e addirittura la rotazione dello stesso rispetto al centro ruota, con il serio rischio di danneggiare entrambi i componenti. È il motivo per cui a volte vedete disegnate sulle ruote dei treni delle grandi “croci” bianche a pennarello: in questa maniera se uno dei due componenti si sposta è più semplice sgamarlo.
C’è da dire che di solito tutte queste accortezze si prendono dopo che qualcosa è andato storto, per evitare di ripetere l’errore. Così come è abbastanza raro vedere due aerei che vengono giù per la stessa causa, a meno che l’aereo non sia un 737 Max, anche i treni, pur essendo forse i mezzi di trasporto più sicuri al mondo, sono costruiti nell’intento di non ripetere le minchiate di chi ci è passato prima. Un esempio lampante risale a quella volta che i tedeschi, come loro firma particolare, si complicarono un po’ troppo la vita nella progettazione delle ruote della prima generazione del treno ad alta velocità ICE. Correva l’anno 1991 quando il nuovo convoglio entrò in servizio con delle normalissime ruote monoblocco, adatte al tipo di treno. Tuttavia, nei primi mesi di servizio i passeggeri e il personale riscontrarono che il treno vibrava come una Panda 900 in autostrada, fatto che portò i produttori (AEG e Siemens) a rivedere il progetto e sostituire le ruote con altre a cerchione separabile, con l’interposizione (e qui arriva il bello) di un elemento elastico in gomma tra lo stesso e il centro ruota. Questa soluzione era stata precedentemente usata nei tram dove già dava rogne, e i tram non devono certo raggiungere i 280 all’ora in normale servizio; fatto sta che non vennero effettuati adeguati test a fatica, ma solo simulazioni e previsioni. Durante le simulazioni la ruota si comportava a meraviglia, dal momento che le stesse non tenevano conto dell’appiattimento ciclico dell’anello in elastomero sotto al peso del treno durante la marcia né della formazione di cricche a fatica anche sull’interno del cerchione (e sull’esterno del centro). A peggiorare la situazione c’era un’usura anomala del bordo ruota, che portava a ridurre la sezione del cerchione. Alla luce di questo appare quantomai sorprendente che prima che qualcuno ci lasciasse le scorze siano passati ben 7 anni, fatto sta che nel 1998 uno di questi treni, l’ICE 884 Monaco di Baviera-Amburgo, divorava la campagna a 200 all’ora quando una ruota del terzo assale della prima vettura si ruppe a fatica, di schianto, con un pezzo del cerchione che si conficcò sul fondo della carrozza, spuntando fuori tra due sedili. Le due immagini che seguono, tratte dal documentario Seconds from Disaster di National Geographic, danno un’idea di cosa sia successo: praticamente il cerchione da rotondo è diventato dritto.
Il passeggero che si vide spuntare un pezzo di ruota vicino, che chissà che faccia doveva aver fatto, si alzò e andò con la moglie e il figlio in cerca del capotreno per avvertirlo del problema, trovandolo alla terza vettura; tutti insieme tornarono alla prima per valutare se azionare il freno di emergenza. Troppo tardi: di lì a poco il treno transitò su un deviatoio, quando l’ex cerchione, passando su uno scambio, ne invertì la direzione. Nel mentre che i quattro di sopra cercavano di realizzare cosa stesse succedendo, tutto il treno dal retro della terza carrozza in poi venne deviato sul binario parallelo, deragliando; la quarta vettura si sganciò dalla terza, tutto questo sotto un cavalcavia (perché quando è sfiga è VERAMENTE sfiga), abbattuto dalle prime vetture sviate e crollato sopra, o davanti, al resto del treno, che si ripiegò su se stesso come un paletto di una tenda igloo. Una puttanata del genere stroncò 101 vittime tra cui due dipendenti delle ferrovie tedesche che lavoravano sui binari trovatisi sul posto sbagliato nel momento sbagliato. Il locomotore con le prime tre carrozze, quelle fortunate, proseguì la sua corsa più o meno indenne, arrestandosi giusto dentro la stazioncina di Eschede a causa dell’azionamento della frenatura d’emergenza dovuta allo sgancio delle condotte dell’impianto. Pare che mentre il povero macchinista armeggiava in cabina per cercare di capire cosa avesse fatto scattare il freno, il capostazione gli abbia bussato sul vetro della cabina per poi renderlo partecipe del fatto di aver perso mezzo convoglio per strada.
Ecco, vi abbiamo spiegato come si costruisce un treno, ma soprattutto, come non si costruisce. Perché in un mezzo di trasporto all’apparenza rozzo, pesante, ignorante ci sono comunque quasi 200 anni di esperienza nella sua progettazione. Un tempo il problema era come farlo curvare, trent’anni fa era come farlo andare a 300 all’ora senza che si ripiegasse contro un viadotto come un metro da muratore. Domani chi lo sa: levitazione magnetica? Hyperloop? Ne vedremo delle belle. Ma le rotaie non scompariranno mai: rimarranno, distanti 1435 millimetri come i carri di Giulio Cesare, e le ruote saranno sempre troncoconiche. Potete starne certi.
gran bell’articolo,bravissimo e grazie:e anche oggi ho imparato qualcosa…
Già, questa cosa dello scartamento dei carri romani, che non si sa se è vera o finta… Appena ho un attimo di tempo passo in via Nomentana, lì c’è un distributore di benzina con un pezzo della Nomentana antica, perfetta, diritta e non rimaneggiata come l’Appia. Mi porto il metro e una matita, poi ti scrivo. C’è anche un tamericio (albero) che fa fiori bellissimi ma di quello credo che non te ne freghi niente.
Che bell’articolo! Grazie
Woow articolo favoloso! Quante cose ho imparato. Congratulazioni
Quindi, per proprietà transitiva, i cavalli russi e spagnoli hanno il sedere più grosso.
Caspita mi complimento del bellissimo articolo. È difficile oggigiorno trovare sulla “stampa” degli articoli così tecnici e nel contempo così pertinenti. Bravo!
Buongiorno, articolo che si fa leggere di un fiato per le persone curiose. Grazie e complimenti
Articolo interessantissimo su un argomento di cui non avevo mai letto nulla da nessuna parte, e inoltre di sorprendente complessità evolutiva. Grazie !
Stupendo, grazie a tutto il team di RS
Articolo interessante e scritto benissimo
ottimi come sempre
ecco in caso di levitazione magnetica? che misura si tiene e perchè?
Ma che belli questi articoli ! Grazie Rollingsteel e grazie Sig. Menara per il racconto e la ” verve ” ironica che non guasta proprio .