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Great Eastern: megalomania portami via

Great Eastern

“I have never embarked on any one thing to which I have so entirely devoted myself, and to which I have devoted so much time, thought and labour, on the success of which I have staked so much reputation.”

che per i non anglofoni sarebbe

“Non ho mai intrapreso nulla a cui mi sia dedicato in questo modo, e a cui abbia dedicato così tanto tempo, pensieri e lavoro, e sul cui successo ho scommesso tanta reputazione.”

 

La follia secondo Freud è il risultato della prevalenza della parte più istintuale e selvaggia della mente umana, l’Es, su quella razionale, il Super-io. Noi non siamo psicanalisti, ma ci azzardiamo ad enunciare le definizione di follia ingegneristica: è la realizzazione della volontà dell’istinto stesso effettuata, però, tramite l’uso della ragione, e quindi della matematica e della fisica.

Le migliori e più memorabili macchine costruite dall’uomo per dimensioni o velocità rientrano tranquillamente nella definizione. Volgiamo ora il nostro sguardo a ciò che sguazza in mezzo ai flutti. La storia dei trasporti via nave è purtroppo “annebbiata” dalla leggenda del Titanic, e viene anche da chiedersi perché. Non è la nave più grande mai naufragata (Costa Concordia, 13 gennaio 2012), non è quella che ha fatto più morti (MV Wilhelm Gustloff, silurata da un sottomarino sovietico il 30 gennaio 1945, 9400 vittime (!)), e il suo naufragio non è stato neppure l’incidente più evitabile di tutta la storia della navigazione (si pensi alla Moby Prince, alla cui collisione con la petroliera Agip Abruzzo, con la morte di 140 delle 141 persone a bordo, non è mai stata trovata una causa precisa, che probabilmente è abbastanza simile a quella del disastro aereo di Ustica. Americans.).

Forse il motivo di tanta fama è Leonardo Di Caprio, fatto sta che delle navi della classe Olympic abbiamo già parlato e quindi oggi ne trattiamo una un po’ più antica e anche, per i tempi, un po’ più fuori dagli schemi e che nonostante i mille problemi e incidenti (talvolta letali) che l’hanno afflitta in trent’anni di esercizio, tutto sommato ha seguito una carriera dignitosa con qualche momento di gloria.

Stiamo parlando del Great Eastern, un ferraccio costruito con lo stesso materiale delle palle del suo progettista, tale Isambard Kingdom Brunel, ovvero l’acciaio. Il secondo nome gli spetta di diritto, perché con la nascita del trasporto ferroviario egli aveva costruito letteralmente un regno fatto di viadotti e infrastrutture ferroviarie in tutta Inghilterra, compresa la prima galleria sotto a un corso d’acqua, ovvero il Tamigi. Era insomma uno con le mani in pasta che, non contento, aveva deciso di costruire navi, e di farlo in grande. Prima di questa folle impresa aveva ottenuto un certo successo costruendo le navi a vapore “Great Western” e “Great Britain” (primo transatlantico in ferraccio, tutt’ora esistente a Bristol e restaurato, da visitare).

Il Great Britain verso la fine dell’Ottocento venne demotorizzato e riconvertito a vela (perché?) e lo scafo foderato di legno (Perché? Perché?)
L’elica esapala ricostruita come in origine. Purtroppo venne progettata in un’epoca in cui nessuno sapeva come si costruisce l’elica di una nave e si rivelò un disastro; poco dopo le prime prove fu sostituita da una tradizionale.

Erano navi grandi, ma per tale Isambard Kingdom Brunel non abbastanza: un giorno si mise in testa che ne andava costruita una grande il doppio di qualsiasi altro oggetto galleggiante mai esistito. Se avesse voluto solo far vedere che ce l’aveva più lungo, non solo lo scafo, sarebbe bastata una decina di metri di sopravanzo rispetto allo standard. Ma dietro a tanta megalomania c’era una ragione ben precisa.

tale Isambard Kingdom Brunel

Quando Brunel cominciò a scervellarsi al riguardo, la propulsione a vapore in ambito marittimo esisteva solo da pochissimi anni. Era comoda su vaporetti e bagnarole varie dove serviva manovrabilità, ma malvista per le traversate oceaniche, e le preoccupazioni della gente non erano infondate. Intanto diverse navi venivano ancora in parte costruite col legno, che col fuoco non va tanto d’accordo.

Poi c’era il problema del costo e dello stivaggio del combustibile, che in un veliero non sussiste visto che va ad aria. Un altro problema piuttosto serio è che le navi a vapore pescano l’acqua da scaldare direttamente dal mare, per cui possiamo immaginare dopo qualche ora di funzionamento che dito di sale e calcare si fosse fermato sul fondo delle caldaie.

Non esistendo ancora il curalavatrice, le caldaie andavano spente e pulite ogni tot ore di lavoro, cosicché le poche navi provviste di propulsione mista effettuavano gran parte delle traversate oceaniche viaggiando a vela. Gli incidenti non erano nemmeno così rari: a causa di una manutenzione sommaria, il 27 aprile 1865 il piroscafo Sultana saltò semplicemente per aria sul fiume Mississippi, mandando al creatore un numero di persone stimato tra le 1800 e le 2400 (fu così che nacque il film Mississippi Burning. Minchiata del giorno: detta)

In mare, poi, non esisteva la possibilità di ottenere soccorso in nessun modo in caso di avaria: telegrafi senza fili come appunto quello famoso del Titanic non ne esistevano. Quando una nave partiva nessuno sapeva un bel niente finché non arrivava dall’altra parte e l’informazione non tornava indietro, ci volevano venti giorni minimo, sicché nessuno si allarmava sotto ai 4 giorni di ritardo. Se per strada succedeva qualcosa l’unica era il santino di Padre Pio (non era ancora nato? Come non detto).

È stato il triste destino della SS Naronic, scomparsa dopo la partenza in data 11 febbraio 1893 da Liverpool, che con tutta probabilità, se si escludono le teorie del complotto, è colata a picco con tutto il suo equipaggio e il suo carico di bestiame e in questo preciso istante sta prendendo ruggine in un punto imprecisato dell’Oceano Atlantico, che è bello grande. Non sapremo mai che fine ha fatto. Stessa sorte toccò alla SS Pacific nel 1856 con 186 persone a bordo, pare sia stata affondata da un iceberg (fonte: messaggio in bottiglia lasciato da un passeggero). Insomma, chiunque avesse avuto l’idea di produrre una nave lunga 210 metri sicuramente sarebbe stato preso per scemo.

Ma Brunel tanto scemo non era. Fu un promotore del concetto di “economia di scala”. Nel caso delle navi, esso si traduceva in una semplice proporzione matematica: la resistenza all’avanzamento dello scafo di una nave aumenta, a grandi linee, in maniera direttamente proporzionale al quadrato della sua lunghezza. Ma la sua capacità di carico, pagante e non, aumenta col CUBO della lunghezza stessa.

Ergo, più una nave è gigante più conveniente diventa per il trasporto di qualsiasi bene. Se ci pensiamo, questa è una costante ricorrente nel mondo dei trasporti. Consuma (e inquina) meno uno Scania 730 di 15 furgoni Iveco Daily. Il costruttore navale John Scott Russell, che ancora non correva in Mercedes, diede ragione al buon Brunel, autorizzando nel 1854 la posa della chiglia del più folle e gigante bastimento che avrebbe solcato gli oceani per i successivi trent’anni.

Il Great Eastern era un mostro lungo 210 metri, solo 60 in meno del Titanic (aridaje), che utilizzava, novità non scontata, il vapore come principale fonte di propulsione, grazie alla grande capacità di carico e a condensatori che permettevano di riciclare l’acqua delle caldaie riducendo i depositi di sale e calcare, tecnologia che comunque negli anni ’50 dell’Ottocento era diventata piuttosto comune.

Era provvisto di quattro macchine a vapore che muovevano a coppie le due ruote a pale ai lati dello scafo e di una quinta che trasmetteva la sua potenza a un’elica posizionata direttamente prima del timone. Detta potenza, così snoccioliamo qualche numero, era di 8500 kw circa, che per un mostro che dislocava 30mila tonnellate, chilo più chilo meno, non era neanche tanto, ma gli consentivano comunque la dignitosa velocità di 14 nodi, 30 km/h scarsi.

Negli anni l’adozione di eliche multiple e di turbine a vapore migliorerà “un po’” (date un’occhiata a questo coso) le prestazioni dei transatlantici, comunque per essere questa nave progettata nel 1852 non ci lamentiamo. Prudenzialmente venne dotata di un po’ di vele distribuite su 6 (sei) alberi, in realtà usate di rado, anche perché andavano dispiegate obbligatoriamente a caldaie spente, altrimenti i 4 fumaioli le avrebbero incendiate in un attimo.

Ma ciò che colpisce di più, forse, è il suo doppio scafo. In un’epoca in cui la parola “saldatura” non esisteva in nautica e tutti gli scafi navali metallici erano pazientemente assemblati con i vecchi sistemi, cioè rivetti, mazzate e bestemmie, una soluzione come la doppia parete era quantomai avveniristica. Bisognerà attendere addirittura gli anni ’40 o ’50 per vederla applicata in larga scala alle navi di ogni tipo. Neppure le navi della classe Olympic come… sì, quella, ne erano dotate: infatti il Titanic era provvisto solo di un doppio fondo che ospitava le cisterne per l’acqua. Chiedersi se il Great Eastern sarebbe sopravvissuto a un incidente analogo al suo è una domanda che lascia un po’ il tempo che trova, anche perché era molto più lento, ma la risposta potrebbe essere affermativa.

Nella sua carriera rimase infatti vittima di innumerevoli toccatine più o meno gravi, all’ordine del giorno in navigazione quando non esisteva niente che assomigliasse lontanamente a radar e sonar, ma la lattina rimase sempre a galla nonostante gli acciai dell’epoca, più simili alla ghisa odierna, fossero meno resistenti e con un’alta temperatura di transizione duttile-fragile.

Lo scafo era diviso in diciannove compartimenti stagni totali, contando la presenza di paratie sia in senso trasversale che longitudinale. Col senno del poi, dopo il naufragio dell’SS Lusitania si realizzò che le paratie longitudinali potevano essere controproducenti, poiché in caso di allagamento di più compartimenti di una sola fiancata la nave poteva sbilanciarsi seriamente. Ma questo per fortuna chi lavorava sulla Great Eastern non lo seppe mai.

Illustrazione da orgas molto curata dell’interno dello scafo. Credits: Simon Edwards
La sala macchine di una delle due ruote laterali

La nave doveva chiamarsi in origine Leviathan, ma dopo il fallimento della compagnia acquirente, la Eastern Steam Navigation Company, venne venduta alla Great Eastern Ship Company che optò per il nome con cui è nota. Va detto che questa nave passò di mano un bel po’ di volte, per tutta una serie di complicazioni finanziarie e per ragioni di costi di esercizio. Esaminare tutti i passaggi di proprietà renderebbe l’articolo noiosetto, oltre che chilometrico, e poi su RollingSteel si parla di acciaio e non di economia, grazie al cielo, per cui ci limiteremo a trattare la sostanza.

La costruzione del più grande coso semovente mai realizzato ad allora richiese tre anni, non senza intoppi. Viene da dire che questa nave riuscì nel record di ammazzare gente ancora prima del varo, poiché morirono 6 operai del cantiere navale, ma si sa che le norme di sicurezza allora erano un optional.

Comunque il record venne battuto molti anni dopo ai Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire, nel 2003, quando durante la costruzione della Queen Mary 2 (ufficialmente l’unico Transatlantico oggi in servizio, tutte le altre sono banali navi da crociera, due cose COMPLETAMENTE diverse) una passerella precipitò portandosi dietro 19 persone, prevalentemente parenti degli addetti ai lavori.

“Minchia, ho chiuso il cellulare nel doppiofondo”
“è un euro 4?”

Circola anche una leggenda attorno alla costruzione del Great Eastern. Si narra che durante la costruzione della parete esterna del doppio scafo due battitori, addetti a martellare rivetti nelle placche d’acciaio, siano rimasti imprigionati al suo interno, e che i loro scheletri vennero rinvenuti durante la demolizione della nave. RollingSteel non si sente di confermare o smentire questa voce poiché non siamo riusciti a trovare materiale a sufficienza, ma secondo chi scrive l’odore di cazzata è abbastanza evidente. Anche perché lo scafo, che pescava 8 metri, venne appunto rappezzato a più riprese.

Il varo, programmato per il 3 novembre 1852, fu il più tribolato della storia della navigazione dopo quello del film di Fantozzi. Probabilmente avevano deciso che farlo il 2 portava sfiga, ma non è che le cose siano andate poi tanto meglio. Vi sarà capitato di dover spostare un mobile, un’auto non funzionante, un tronco di legno, una stufa o un qualunque oggetto molto pesante da una posizione particolarmente schifosa, mettendovi direttamente in comunicazione con la Sacra Famiglia.

Successe esattamente la stessa cosa. La nave non volle saperne di schiodarsi dalle rotaie, dopotutto il dislocamento era quello di 6 navi normali contemporanee messe insieme (32.160 tons, cioè 29.175 tonnellate nel sistema delle unità di misura della gente civile. Sicuramente all’atto del varo con la nave incompleta qualcosa in meno). Altri due operai ci lasciarono la pelle senza che la lattina si muovesse per poco più di qualche metro. Intanto una tribuna abusiva di spettatori crollò mandando all’ospedale un po’ di gente.

Trascorsero tre mesi in cui Brunel recuperò ogni sorta di rimorchiatore, martinetto, cricco, bestemmia e catena possibile e immaginabile per rosicchiare qualche centimetro. Pare che una delle chiatte che trasportavano martinetti idraulici affondò, le catene si spezzavano a ogni tentativo, i martinetti idraulici scoppiavano dallo sforzo. Un fornitore di questo tipo di materiali, tale Sir Richard Tange, riuscì a lanciare la propria impresa emergente proprio grazie a questo varo, il cui conto economico si alzava a vista d’occhio per ogni centimetro di avanzamento dello scafo.

Il 31 gennaio finalmente il ferro era a mollo, ma durante le operazioni di rimorchio si impigliò sui cavi di altre piccole navi che vennero cortesemente affondate. Il secondo giorno delle prove in mare avvenne un altro piccolo imprevisto: una valvola di sicurezza di una caldaia, “dimenticata” chiusa, ne provocò l’esplosione, facendo salire di altre 5 unità il conto di anime spedite al creatore. Una delle ciminiere schizzò in aria: curiosamente è quasi tutto ciò che resta della nave; riciclata per anni come dispositivo di filtrazione dell’acqua, è oggi visibile allo SS Great Britain Museum.

Caldaie ne abbiamo?

Nel complesso, i primi anni di servizio della nave furono un successo ingegneristico e un mezzo disastro finanziario. Si trattava di una nave semplicemente troppo avanti coi tempi. I suoi costi di gestione erano importanti anche per una grossa compagnia di navigazione, con navi più piccole che dietro a una capacità di carico sufficiente erano in grado di raggiungere velocità simili senza bruciare centinaia di tonnellate di carbone.

Lo stesso cantiere che la costruì era in difficoltà economiche, che tutti gli imprevisti non avevano fatto altro che aumentare. Buona parte dei proventi veniva ricavata facendo visitare la nave al pubblico quando era ormeggiata in porto: i biglietti venivano fatti pagare bene, nessuno aveva mai visto un arnese del genere in vita sua, neanche a New York, e in molti si concedevano una visita guidata. Era di gran lunga la nave più grande mai costruita al momento del suo varo nel 1858 e aveva la capacità di trasportare 4.000 passeggeri dall’Inghilterra all’Australia senza fare rifornimento

La prima classe era anche bellina

Il viaggio inaugurale procedette senza grossi intoppi, fatta eccezione la manovra di attracco, durante la quale una delle ruote laterali ridusse in briciole un metro e mezzo di molo. Un mozzo venne incaricato di calarsi a controllare lo stato della ruota stessa: cadde e perse la vita. Tredici gatti neri sotto una scala.

Quando vi lagnate che la vostra auto ha i montanti grossi e dietro non c’è visibilità, pensate al povero cristo che doveva accostare alla banchina senza fracassare una ruota.

Al largo di Long Island nel 1862 avvenne il collaudo ufficiale di resistenza agli urti: lo scafo colpì uno scoglio non segnalato sulle mappe, squarciandosi. Qualsiasi altra nave al suo posto sarebbe andata giù come un sasso, ma non lei. A bordo, a parte un fracasso della madonna infernale, nessuno percepì realmente l’entità del danno, tanto che solo in porto a New York si notò che lo scafo era lievemente inclinato a babordo e si decise di spedire qualche palombaro a dare un’occhiata. Probabilmente detto palombaro ci mise un po’ a convincere tutti, di sopra, che c’era una falla lunga 25 metri nella parte immersa. Dopo la scoperta della sorpresa, lo scafo venne rappezzato alla buona, visto che non esistevano bacini di carenaggio in grado di mettere all’asciutto tutta quella roba, e la bestia ritornò in patria.

lo smisurato ponte della Great Estern, si notano gli avvisatori acustici dell’epoca

Dopo questa riparazione l’esercizio della nave era diventato talmente oneroso che la compagnia proprietaria fallì. Un milionario americano la acquistò dopo vari passaggi di mano e la noleggiò per quello che forse è stato il suo impiego più glorioso e remunerativo. Cominciava infatti a balenare nella mente di qualcuno un’idea che di lì a poco avrebbe rivoluzionato il mondo rendendolo molto più piccolo: tirare un cavo telegrafico subacqueo che unisse il Vecchio Continente col Nuovo Mondo, permettendo di ridurre dai giorni ai secondi l’ordine di grandezza della durata delle comunicazioni transoceaniche più importanti, che fino ad allora erano relegate ai servizi postali delle navi stesse, alla carta e all’inchiostro. Tuttavia c’era una sola nave che potesse accomodare 5.000 chilometri di bobine per affrontare un’impresa così titanica.

“Toni, non è che hai una prolunga?”

“Lunga quanto?”

“Come l’oceano. Ah, dammi anche una bomboletta di WD-40”

Pesantemente modificata negli interni, nel maggio 1865 la Great Eastern lasciò il porto di Sheerness srotolando dietro di sé a passo d’uomo chilometri di cavo di rame rivestito di guttaperca, per la cui sola produzione probabilmente servirono boschi interi. Ora, l’inglese ha il vantaggio di essere una lingua piuttosto semplice, essenziale, ma, per contro, è praticamente priva di imprecazioni, infatti a Londra ti guardano storto tre giorni se dici “bloody hell”: viene da chiedersi quindi se e come chi lavorava sulla nave durante quel lungo e importante viaggio abbia fatto a sfogare la propria ira funesta quando nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico detto cavo decise di spezzarsi.

Il sistema di posatura cavi, per installarlo fu necessario eliminare un fumaiolo

Qui le cose sono tre: o erano tutti veneti/toscani, o arrivavano già allenati dal varo della nave un po’ di anni prima, o scelsero di seguire la tradizione giapponese commettendo harakiri. L’anno successivo, dopo aver cambiato tre religioni perché il calendario dei santi del cristianesimo non bastava, il cavo fu ripescato da 4 chilometri di profondità, non si sa con che calma zen e con che voglia, e soprattutto con che tecniche, e prolungato fino alla destinazione. 27 luglio 1866: il mondo è più piccolo, le notizie arrivano più fresche, l’economia ringrazia. Per la Great Eastern, che fino ad allora era adorata dagli ingegneri ma malvista dalla finanza, inizia una nuova carriera come nave posacavi per conto della Corona inglese stessa.

Gli anni, però, passano per tutti: col tempo venne rimpiazzata da navi attrezzate appositamente per la posa di cavi sottomarini, che incontrarono una diffusione sempre maggiore, tantopiù che rispetto a quelli su terraferma, sospesi o interrati, sono meno soggetti a danni.

La sua sfiga cronica, con tutta una serie di incidenti che per raccontarli tutti occorrerebbero 60 pagine, ne condizionò l’esercizio. Il colpo di grazia fu la costruzione del canale di Suez, allora dimensionato per navi normali dell’epoca, e dove quindi il Great Eastern non passava neanche a morire; per questo navi più piccole risultavano economicamente più competitive. Come fu, come non fu, la bestia finì i suoi ultimi anni come discoteca galleggiante e ingombrante attrazione turistica, finché il peso dell’acciaio con cui era costruita non superò il suo valore di mercato.

Era nata con l’intento di spostare decine di migliaia di persone e morta come versione galleggiante del Nordest di Vicenza. Alla demolizione nel 1889 era ancora la nave più grande del mondo, trent’anni dopo il varo, e manterrà tale primato per altri quindici, finché qualcuno non oserà oltrepassare i suoi numeri. 15 anni durante i quali sarà mera leggenda: qualunque fosse la più lunga bagnarola in circolazione in quel periodo, chi ce l’aveva davanti sapeva che, un tempo, era esistito un mostro dei mari più grande, più potente, e che il suo progettista, che morì pochi giorni dopo la partenza per il viaggio inaugurale, ci aveva visto più lungo ancora una volta.

La ciminiera lanciata in aria dall’esplosione di una caldaia durante le prove in mare.
Il kit della Revell lungo mezzo metro, introvabile: prima edizione a metà anni ’60, ultima nel 2003. Ricercato speciale.

Articolo del 17 Novembre 2022 / a cura di Francesco Menara

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  • Omar

    la citazione del Nordest di Vicenza è pura poesia!

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