La linea tra genio e idiozia è spesso molto labile e a volte si confonde. Nel campo motoristico ne abbiamo avuti innumerevoli esempi e questa volta vogliamo proporvene un paio praticamente sconosciuti ai più. A noi di Rollingsteel le cose strane e bizzarre ci piacciono assai e soprattutto ci piace raccontarvele. Nello specifico si tratta di due personaggi che hanno preso parte a quel fantastico campionato chiamato CAN-AM di cui vi abbiamo narrato la storia qualche tempo fa.
Cominciamo con il genio citandovi un nome: Peter E. Bryant. Nato in Inghilterra nel 1938 da subito si appassiona alle corse automobilistiche e nel 1957 già lo troviamo a lavorare presso il team Lotus. Nel 1964 emigra negli States ed è capo meccanico della Ferrari 250 P di John Surtees. Poi passa alle 500 miglia con Mickey Thompson e lavora anche con Shelby per i progetti Gt-350 e Gt40. Possiamo tranquillamente dire che non difettava di esperienza.
una splendida GT40-Mk1
Nel 1966 volle tentare l’avventura in Can-Am con il team Dana Chevrolet e poi nel 1967 passò alla Lola di Carl Haas che però per il 1969 ridimensionò il team e lo lasciò a piedi.
Bryant non rimase di certo con le mani in mano, anzi. Grazie alla sua esperienza si convinse che con un’auto “clienti”, che vuoi o non vuoi è sempre castrata nelle componenti e specialmente negli aggiornamenti, non avrebbe mai potuto imporsi e stare non dico avanti ma almeno al passo di un’auto “ufficiale”. In più gli frullavano in testa parecchie ideuzze strambe che poco andavano d’accordo con chi doveva far quadrare il bilancio e portare risultati a chi spendeva fior di quattrini per far correre una squadra, quindi l’unica soluzione possibile per metterle in pratica era creare una vettura e una squadra tutta sua.
Facile a dirsi, meno a farsi. Innanzitutto, cosa non da poco, il Bryant difettava di pecunia. Ebbe però la fortuna di essere presentato a Ernie Kanzler, proprietario del cantiere navale Autocoast, specializzato in offshore e imbarcazioni da diporto, un tipo molto sui generis, tra l’altro appassionato di battelli a vapore, sempre aperto ad ascoltare chi aveva delle idee fuori dagli schemi. Sentite le proposte di Bryant fu ben felice di aprire il suo capiente borsellino.
Quando lavorava presso Mikey Thompson, Bryant utilizzò per la prima volta il titanio per alcune parti strutturali e anche se i risultati all’epoca non furono quelli sperati, ne apprezzò moltissimo la leggerezza e la robustezza. Le caratteristiche di questo fantastico metallo gli rimasero talmente impresse che una delle sue fissazioni consisteva proprio nel fare un’auto completamente in titanio (o per lo meno per la maggior parte), per renderla il più leggera possibile.
Ora non è che all’epoca il Titanio crescesse sugli alberi o si trovasse facilmente al Brico, se è per questo nemmeno oggi. Però non era neanche più quel materiale top secret che richiedeva di organizzare una fitta rete di acquirenti fantasma per andare a prenderlo fino in Russia, inventandosi parecchi giri di frottole come fece qualcuno qualche tempo prima. Costava sempre una fucilata rispetto ad alluminio e acciaio e per lavorarlo ci voleva gente con le palle degna della fucina di Efesto che non si trovava certo alla voce saldatori/lattonieri nell’elenco telefonico. Ma se uno aveva i contatti giusti, con un po’ di tempo e pazienza qualcuno bravo lo si riusciva a rimediare.
Bryant si ricordò quindi dei suoi agganci con la Timet che era (ed è) una di quelle aziende che il governo USA allevava a suon di fondi neri “contributi per la ricerca” e che era leader nel mercato del titanio. Tra l’altro forniva già all’aviazione le gondole per i motori del B-52 oltre che avergli rimediato tutto il materiale necessario allo sviluppo dell’A-12, il precursore dell’SR-71 precipitato QUI. Avendo i magazzini pieni del prezioso metallo e volendo pubblicizzare al massimo il suo prodotto, il management decise di fornirne un bel po’ al buon Peter praticamente a costo zero (chissà forse erano gli scarti di lavorazione del Blackbird). Bryant fatti due conti veloci a mente non credeva alle sue orecchie e a momenti gli prende un coccolone.
Il nostro buon Peter oltretutto era anche un grande sperimentatore e credeva molto nell’aereodinamica. Sapeva che dalla stagione 1970 sarebbero stati vietati gli alettoni alti e decise quindi di giocare d’anticipo disegnando una vettura con disegno ad ala integrata che sfruttasse l’effetto suolo (ben prima della famosa Lotus 78). Per pilotare la sua creatura si rivolse ad un pilota che aveva voglia di scommettere su una squadra sconosciuta e con un auto mai vista prima. Il suo nome era: Jackie Oliver.
Costruire l’auto non fu affatto facile, innanzitutto per via del materiale scelto. Il titanio necessita di essere saldato con gas Argon ed è talmente rigido che si spezza prima di piegarsi, i saldatori capaci di metterci le mani erano assai rari e calcolate inoltre che questo metallo si mangia i normali utensili in men che non si dica. Insomma fu una bella sfida ingegneristica. L’auto di Bryant fu la prima auto Can-Am a non avere un telaio tubolare, ma presentava una vasca monoscocca divisa da paratie dove alloggiare i vari componenti. Anche le sospensioni, a prima vista convenzionali, erano invece fatte nel nobile metallo.
Per la forma dell’auto non potendo usufruire di una galleria del vento, Bryant si affidò ai pur sempre validi filetti di lana. Modellò un muso a scalpello con dei profili laterali che servivano a canalizzare i flussi d’aria. Questi profili incuriosirono molto Bruce Mclaren che poi li adottò proficuamente anche sulle sue creature (ecco dove li avevo visti!). Il fondo dell’auto era studiato in modo da aspirare più aria possibile creando un effetto suolo fortissimo, paragonabile a quello di una F1 di 10 anni più tardi. Convenzionale invece il motore: un grosso V8 Chevrolet da 7000cc e poco più di 600 cv.
Alla fine l’auto, chiamata Autocoast Ti-22 in onore del materiale utilizzato (22 è il numero atomico del titanio), anche se non era proprio composta al 100% del prezioso metallo (c’era qualche pezzo in alluminio) pesava ben 60/70 kg in meno degli avversari e costò, grazie alla TIMET, la strabiliante cifra di 16000 dollari (spiccio più spiccio meno) a fronte di un costo ipotetico di almeno mezzo milione dell’epoca. Un bel risparmio non c’è che dire.
Molti erano incuriositi dal nuovo materiale, addirittura Colin Chapman durante un viaggio negli States per informarsi sul campionato Can-Am un giorno andò a far visita al suo ex-dipendente per saperne di più. Peter volle fargli uno scherzo e invitò il patron della Lotus a prendere in mano un roll-bar. Colin a momenti non cadde in terra sbilanciato perché non se lo aspettava così leggero.
La Ti-22 nella stagione 1969 pur promettendo bene e qualificandosi onorevolmente raccattò poco o nulla a causa di problemi di affidabilità al motore ed una certa fragilità delle sospensioni. Per la stagione 1970 Bryant rivide marginalmente il progetto, il motore passò da 7 a 8 litri, fu adottato un sistema di bilanciamento aerodinamico inserendo un nuovo spoiler a cucchiaio anteriore e furono fatte migliorie alle sospensioni.
Pare che addirittura Paul Newman, che oltre che attore si è sempre distinto come pilota, si offrì di correre con la Ti-22 ma Peter rifiutò. Una scelta di cui si pentirà molto in seguito perché essendo quasi sempre alla canna del gas con i soldi e in perenne ricerca di sponsor e fondi, un pilota come Paul “occhi di ghiaccio” Newman avrebbe portato sicuramente un grande ritorno d’immagine e quattrini a palate.
Comunque nel 1970 i tempi sul giro della Ti-22 si avvicinavano molto a quelli delle Mclaren M8 ufficiali ma persisteva una scarsa affidabilità dei propulsori. Inoltre altri problemi venivano dall’aereodinamica: l’auto alle alte velocità era talmente spinta a terra che il muso raschiava l’asfalto e quando si trovava in coda ad un’altra vettura la mancanza di flusso faceva alleggerire così tanto l’avantreno che il pilota cominciava ad invocare molte antiche divinità dalle forme animali. Alla gara di St Jovite in Canada, tutto ciò si palesò in un pauroso incidente per Jackie Oliver, che miracolosamente uscì più o meno illeso da un mucchio di rottami di titanio (notare nel filmato i ridicoli, visti con gli occhi di oggi, standard di sicurezza dell’epoca). L’auto era distrutta e le casse erano vuote, ma in soccorso della Autocoast arrivò la Ecurie Vickie, un piccolo team con alle spalle sponsor importanti e munifici, che propose a Bryant una fusione. Questo accettò di buon grado non immaginando lo scherzo che gli faranno di li a poco.
La Ti-22 fu di nuovo pronta per l’appuntamento di Laguna Seca ma la concorrenza si era fatta molto più agguerrita. Non solo Lola e Mclaren ma ora in pista bisognava fare i conti anche con March, BRM e quei mostri che erano le Chaparral 2j. Comunque la Ti-22 fece bella figura sia a Laguna che a Riverside, facendo più di qualche record sul giro, ma alla fine Oliver dovette cedere contro Hulme.
la Ti-22 dietro ad una Mclaren M8, notare sul muso i profili copiati dalla Autocoast
Poi la doccia fredda. Quando già Bryant aveva in mente la sua prossima auto, la dirigenza della Ecurie Vickie lo estromise dal team. Peter non aveva più una squadra ne un’auto, ma aveva tante idee per la testa, idee che piacquero a Don Nichols della Shadow che doveva rimpiazzare il suo ingegnere fuori di testa Trevor Harris, ma questa è un’altra storia…
Oggi è possibile ammirare la Ti-22 nelle rievocazioni storiche, infatti un esemplare è stato ricostruito e fa ancora battere il cuore degli appassionati col ruggito del suo V8.
Rimaniamo nell’anno domini 1970 del campionato CAN-AM e affrontiamo l’altro lato della medaglia, quello dell’idiozia. Quando ancora il regolamento permetteva l’impermettibile, tra le varie Lola, McLaren, Chaparral e compagnia bella spuntò ai box una delle auto più assurde che abbiano che abbiano mai calcato l’asfalto di una pista (o che per lo meno ci abbiano provato). La MAC’S IT .
Cosa aveva di assurdo vi chiederete? Cominciamo col dire che aveva la trazione integrale. Fate questo ragionamento mentale: anno 1970 auto da corsa 4wd. Ok di certo era particolare ma niente di che direte, tranquilli siamo appena all’inizio, abbiamo appena sfilato la camicetta…
Ripetete con me: anni 70, auto da corsa 4wd, con trasmissione CVT (come la DAF Variomatic o la Panda Selecta), bene vedo che cominciate ad addrizzare le antennine come quando la spogliarellista lascia cadere la minigonna.
Continuiamo. Ripetete sempre con me: anni 70, auto da corsa 4wd, trasmissione CVT… bicilindrico 2 tempi raffreddato ad aria. Sento che la vostra salivazione si sta azzerando, il battito cardiaco è accelerato e nel naso avete avuto un sentore di miscela bruciata mista a olio di ricino e nelle orecchie un eco lontano di quel suono inconfondibile.
Bene adesso toglieremo anche le mutan metteremo la ciliegina sulla torta e credo che se finora avevo attirato la vostra curiosità, ora avrò tutta la vostra attenzione: anni 70, auto da corsa 4wd, trasmissione CVT, bicilindrico 2 tempi raffreddato ad aria… 4 (quattro) motori!
Ora so che state mentalmente cercando di assemblare il tutto, ognuno a modo suo e ne uscirebbe una prova degna del miglior campionato di Lego master, ma continuate a leggere e scoprirete come tutto ciò si è concretizzato.
Partiamo dall’inizio. C’era una volta in America un ragazzo di nome Bob Isaac, che ha il pallino delle invenzioni. Crescendo si fa strada nel mondo degli affari e fonda la sua azienda, la Mac’s Automotive Chemical Company, produttrice di prodotti chimici e detergenti per le auto.
Diventato ricco e non sapendo come buttare i soldi gli viene voglia di costruire una sua auto per concorrere nel neonato campionato Can-Am. A differenza di Bryant dell’Autocoast, Isaac non aveva mai calcato una pista e l’unica sua idea era che l’auto col suo nome doveva distinguersi dalle altre. Per la serie poche idee e pure confuse. Per questo ingaggia Jack Hoare come Manager, designer, progettista, aereodinamico… tutto! Hoare non è uno qualsiasi, è infatti la persona che presso la Shelby Company si è occupato di sviluppare le Cobra Daytona rendendole quelle auto mitiche su cui sbaviamo ancora oggi.
uno dei culi più belli che abbiano mai morso l’asfalto delle piste
Normalmente per correre in Can-Am la ricetta era semplice: un telaio, 4 ruote, una carrozzeria in fibra e un grosso motore V8 da qualche ettolitro di cilindrata rigorosamente made in USA. Ora non si sa da chi sia partita l’idea, fatto sta che secondo una strana logica per il team della Mac’s erano meglio 4 motori piccoli che uno grande (neanche stessero progettando un quadrimotore a lungo raggio). Evidentemente a qualcuno piaceva farsi le pippe con la carta vetrata…
Tanto il regolamento mica diceva che il motore doveva essere solo uno. Ma che motori utilizzare? Facciamo una cosa semplice, niente raffreddamento a liquido, meno problemi e meno peso, “Daje bella idea!” dissero in coro gli ingegneri. Quindi perché non un bel bicilindrico due tempi bello grezzo ma potente.
Why not?
La scelta cadde sul bicilindrico Rotax da 776 cc e 110cv che a quell’epoca era facile trovare specialmente sulle motoslitte. Lo stesso motore se non vado errato era usato come ausiliario per muovere i ventoloni della Chaparral 2J tanto per rimanere in tema. Comunque i 4 Rotax insieme equivalevano a un 8 cilindri (almeno numericamente) di 3104 cc e 400/440 CV. Già qui uno con un po’ di sale in zucca capisce che la concorrenza viaggia su numeri quasi doppi, ma vabbè continuiamo così, facciamoci del male (cit).
Ora bisognava decidere come sistemarli questi quattro motori. Per ottimizzare i pesi pensarono bene di metterne due davanti e due dietro, anche perché l’intenzione era di avere la trazione sulle quattro ruote. Bisognava ora affrontare il problema di come creare questa trazione integrale. Oggi come oggi gli ingegneri prenderebbero quattro bei motori elettrici (sigh) piazzandoli ognuno in ogni ruota e tanti saluti, ma all’epoca le uniche cose elettriche in giro erano lavatrici, tostapane e frullatori e quindi il discorso non fu così semplice.
due davanti e due dietro… facile no?
All’ufficio complicazioni affari semplici lavoravano alacremente. Per non mettere due cambi, si pensò bene di collegare ogni motore all’albero di trasmissione principale tramite un convertitore di coppia a pulegge variabili, un CVT dell’era preistorica. I 4 convertitori trasmettevano quindi il moto all’albero di trasmissione che tramite 2 differenziali smistava la coppia sulle 4 ruote motrici. Tanto per aggiungere un dettaglio, come nelle motoslitte, la retromarcia non era contemplata, tanto in gara si corre solo in avanti.
All’interno dell’abitacolo il pilota poteva tener sotto controllo i motori grazie a 4 contagiri. Già in gara è fonte di distrazione uno strumento solo figuriamoci doverne guardare quattro…
Sulla carta poteva essere la genialata del secolo ma in pista si rivelò un vero disastro. Sincronizzare le quattro unità era un incubo, per riuscirci era meglio affidarsi a qualche esorcismo piuttosto che mettersi li con chiavi e giravite. I quattro motori andavano d’accordo tra loro come le ruote girevoli di un carrello scassato della Coop. In prova questo si concretizzò nel fatto che la variazione di potenza tra i motori ruppe l’albero di trasmissione dopo appena due giri. Ad ogni accelerata del pilota il rischio di scassare tutto era quasi pari al 100%.
Quasi perfettamente sincronizzati
La Mac’s debuttò a Laguna Seca affidata al pilota giapponese Hiroshi Matsushita, che diventò all’istante un idolo nella terra del Sol Levante. Ma lui non era l’Hiroshi di Jeeg Robot e la macchina era un vero e proprio accrocco, la velocità e i tempi sul giro rispetto alle altre concorrenti erano a dir poco ridicoli.
Riuscì a fare qualche giro con una media di 1 minuto e 29 secondi, a paragone le Chaparral e McLaren M8B giravano di poco sotto il minuto, in pratica era una chicane semovente e in più soffriva di surriscaldamenti cronici. Durante la seconda giornata di prove tentò di nuovo a scendere in pista ma dovette ritirarsi perché uno dei quattro motori cominciò ad avere le caldane rischiando di far fare un falò a tutto l’ambaradam e della MAC’S IT non se ne sentì mai più parlare.
bye bye baby
Ciao ragazzi, e ricordatevi che DI BRUTTO Volume 4 sta arrivando, chi se lo perde è una MAC’s IT
Credo che il caro vecchio e folle Loris Reggiani , fece qualcosa di altrettanto fuori di testa, mettendo 4 motori yamaha 1000 20v di origine fzr1000, in una vecchia scocca di una lancia beta coupè ed il che è già un bel dire, credo incontrarono altrettanti problemi di sincronizzazione dei 4 motori , già di per se scorbutici , ma alla fine ne venne fuori un gran bel ferro….La rosina
Almeno ci provavano a fare delle cose “diverse”