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Robe da matti: Lotus 56

C’è stata un’epoca in cui la Formula 1 era diversa. C’è stata un epoca in cui il regolamento della massima serie automobilistica era semplicemente questo:

“regaz, vince il primo che arriva”

Viene quindi da se che c’è stata un epoca in cui gli ingegneri erano senza guinzaglio e museruola ed anzi venivano incitati nel dare sfoggio delle loro fantasie più turbolente. La cosa ancora più incredibile è che c’erano piloti disponibili a mettere il loro prezioso culo su quelle follie a quattro – e spesso più – ruote.

Proprio da questo voglio inaugurare questa nuova rubrica che ha l’obiettivo di andare a raccontare, ognuna con un proprio articolo, le auto da F1 tecnicamente più folli, da pazzi, da TSO immediato. Come al solito su rollingsteel non si premiano le vittorie quanto la follia e la faccia da culo nel presentarsi sulla griglia di partenza con delle vere e proprie robe da matti.

STP Turbocar

La storia della Lotus 56 nasce da un certo Ken Wallis, lontano parente di Barnes Wallis, passato alla storia per aver progettato il bombardiere inglese Vickers Wellington e le bombe Grand Slam, Tallboy (due fra le più grosse bombe a caduta libera mai create dall’uomo) e le famose bombe rimbalzanti con cui distruggere le dighe tedesche.

Il povero Ken, orfano di una guerra e quindi della possibilità di inventarsi chissà quale stranezza, convogliò le manie di grandezza ereditate da Barnes nel mondo della auto da corsa. Probabilmente l’idea di dotare una macchina da corsa di una turbina da elicottero sarebbe caduta nel nulla se Ken non avesse incontrato un paio di americani più folli di lui che decisero non solo di costruire tale follia ma di schierarla pure alla 500 miglia di Indianapolis del 1967.

Dotata di una turbina Pratt & Wythney ST6B, la stessa che si monta regolarmente su questo

e che montavano anche su questo (ecco, il turbotrain, il treno a turbina, dio benedica l’america!)

montata alla sinistra del pilota e denominata STP Paxton Turbocar la macchina segnò il sesto miglior tempo durante le qualifiche per poi portarsi in testa alla gara. Probabilmente avrebbe anche vinto se non si fosse rotto un cuscinetto della trasmissione costringendo l’auto al ritiro.

Nonostante il ritiro non si può negare che il progetto mostrò una certa bontà. Fu  proprio questo a convincere i boss della STP a proseguirne lo sviluppo. Fu poi il fortuito incontro con Colin Chapman a dare la luce a quella che sarebbe diventata la Lotus 56.

Lotus 56

Fu proprio da questa partnership Lotus + STP che prese vita la macchina protagonista dell’articolo. Progettata dallo stesso folle genio responsabile delle Lotus 49 e 72, anche la 56 presentava la stessa forma a cuneo caratteristica delle vetture inglesi. Al posteriore era installata una turbina, la stessa di prima, originariamente sviluppata per alimentare piccoli aeroplani a turboelica ed elicotteri, Pratt & Wythney PT6 (nella sua versione ST6-B-70) capace di 500CV a quarantamilagiri costanti (poi si lamentavano che bruciavano i cuscinetti eh).

Foto da RM Sotheby’s

Girata dalla parte opposta rispetto al senso di marcia, la potenza del motore a reazione era trasmessa a tutte e quattro le ruote (quindi sì, la macchina era anche a quattro ruote motrici) attraverso una trasmissione Fergusson e quindi due alberi di trasmissione e due differenziali.

Foto da RM Sotheby’s

Nonostante un debutto drammatico (durante le prove della 500 miglia perse la vita il pilota Mike Spence) la vettura con al volante Joe Leonard riuscì a centrare la pole con Graham Hill subito dietro di lui (la terza auto, pilotata da un certo Pollard, partì invece undicesima). Sembrava tutto filar liscio se non che, a nove giri dalla fine, mentre era in prima posizione, alla macchina di Leonard si grippò l’alberino della pompa del carburante vanificando ogni sogno di gloria. La stessa sorte toccò alla macchina di Pollard mentre Hill venne invece coinvolto in un incidente a metà gara quindi ciccia anche per lui.

Niente, nonostante fosse effettivamente una buona idea, la macchina non riuscì a vincere nonostante avesse mostrato una cera supremazia. Peccato.

Foto da RM Sotheby’s

 

Ora viene il bello

Nel ’68 la USAC (la FIA ammeregana) impose importanti limitazioni per le vetture a turbina e quindi si decise di interrompere lo sviluppo della Lotus 56 per quanto riguardava Inidanapolis. Tuttavia a Colin Chapman non doveva essere andata giù il non aver vinto, e quindi decise di riadattare la vettura alle norme della massima serie, la Formula 1.

La macchina, rinominata 56B e preparata per correre nel ’71, non era dotata di radiatori (in una turbina non servono, è l’aria stessa che fluisce attraverso il propulsore a fungere da fluido refrigerante) e sviluppava circa 600CV – sempre a quarantamila giri costanti – scaricati sulle quattro ruote.

Al progetto originale della 56 vennero poi aggiunti gli alettoni, in modo da avere un po’ più di carico aerodinamico e per meglio sfruttare la maggiore potenza disponibile rispetto alle auto concorrenti.

Fin qui nulla di nuovo se non fosse che, in Formula 1, le auto devono curvare anche a destra e, cosa importante, in Formula 1 esiste una cosa che in America devono ancora inventare, la staccata. E qui viene il bello, la Lotus 56B era completamente sprovvista di freno motore. Sapete cosa vuol dire zero, niente, nada, assolutamente assente.

Con questa macchina non esisteva lo scalare marcia, esisteva solo ed unicamente il vecchio caro “attaccarsi a freni e pregare”. Oltretutto i freni dovevano gestire l’ingente peso dell’auto, 600 kg, di cui oltre 320 dati dal kerosene nel serbatoio (come potete ben immaginare una turbina, specialmente a 40mila giri, consuma come una brutta roba). Tutto questo, guarda un po’, causò parecchi problemi ma portò anche a tutta una serie di soluzioni che ritroviamo ancora oggi sulle auto della massima serie.

Per cercare infatti di migliore e rendere più efficiente la frenata, l’impianto frenante di quest’auto era forse la cosa più tecnologica che si portava appresso. Quattro dischi autoventilanti da 260mm, montati entrobordo direttamente all’uscita dei due differenziali, scaricavano l’aria calda sopra la carrozzeria, che presentava enormi prese d’aria (specialmente al retrotreno) proprio per cercare di raffreddare questi quattro poveri dischi. Anche le pinze erano montate nella parte bassa dell’intero impianto, come sulle monoposto più moderne.

Per la prima volta i piloti erano chiamati a frenare con il piede destro (non essendoci la frizione, c’erano solo due pedali, manetta gas e freno) e, a causa dell’inerzia della turbina che portava ad un certo ritardo alla risposta del gas, i piloti dovevano fare i salti mortali per cercare di aver la coppia a disposizione nel momento giusto. Ecco che erano costretti ad iniziare a dare gas con grande anticipo (tipo a centro curva) con ancora il piede sul freno (per evitare di venir sparati fuori) in modo da avere poi la coppia e la potenza utile al momento giusto. Tutto questo, ovviamente, portava ulteriore sforzo a quei poveri freni, vero tallone d’Achille di tutto questo progetto.

Il debutto ufficiale avvenne, nel ’72, a Zandvoort, con al volante un australiano, un certo Dave Walker. Classificatosi in ventiduesima posizione (a 4 secondi dal poleman, Jacky Ickx su Ferrari) il buon Dave ebbe l’occasione della vita la Domenica. Grazie alla pioggia ed alla trasmissione 4WD della sua auto, il pilota australiano iniziò una rimonta incredibile, probabilmente avrebbe vinto se non fosse uscito di pista al quinto giro quando, sentite questa, era già in decima posizione. Vacca boia, che figo se avesse vinto, debuttante in F1, sconosciuto a tutti, vince la sua prima gara al volante di una macchina col motore di un elicottero. Sarebbe passato alla storia.

Bella Dave!

Dopo l’esordio a Zandvoort la macchina partecipò a solo due altre gare ufficiali, Silverstone (forse speravano piovesse) e Monza. Nel primo caso il traguardo non venne nemmeno raggiunto a causa di problemi meccanici mentre, in Italia, la macchina arrivò ottava su dieci, nonostante al volante ci fosse Emerson Fittipaldi, uno tutt’altro che fiacco.

Curiosità della gara di Monza è che la macchina venne portata in gara colorata di nero ed oro e, durante tutto il weekend, Colin Chapman fece il ninja rendendosi introvabile per evitare problemi legati alle indagini che erano in corso a seguito della morte, avvenuta un anno prima in parabolica, del grande Jochen Rindt.

Passata quella gara, ad ogni modo, di quattro ruote motrici e di motori a turbina in Formula 1 non se ne parlò mai più.

Quindi, una vera auto da matti, una vera avventura ingegneristica purtroppo perdente ma non per questo meno affascinante.

E voi, quale vorreste che fosse la prossima “roba da matti” di cui vorreste leggere? Fatemelo sapere!

 

 

 

Articolo del 19 Giugno 2017 / a cura di Il direttore

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  • Claudio

    Freno col piede sinistro, simpatico resocontò.

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