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L’epica avventura dello Space Shuttle

Non ci vuole molto per capire che lo Space Shuttle non è un ferro spaziale come tutti gli altri: sta in mezzo tra i Saturn e Space X, tra un progetto civile e uno militare, tra un aliante e un nave spaziale. Sta talmente in mezzo che c’è pure una diatriba per capire se classificarlo come “Vintage Space” o meno.

Solo l’ekranoplano può rivaleggiare quanto a “stare in mezzo”.

Lo Space Shuttle viene concepito in un’era in cui tutti si immaginavano di fare i week-end nell’Hilton in orbita lunare arrivandoci sulle note di Strauss, ma ancora i gap tecnologici da colmare erano importanti, specie in campo informatico. Per capirci, erano anni dove la gente andava vestita in giro come i Teletubbies senza provare vergogna.

Strattonato per tutta la sua progettazione da una parte all’altra, è un miracolo che funzionasse davvero, ed anche per questo è il mezzo spaziale che ha causato più morti: 14 persone.

Abbiamo già visto che per il Saturn V era stato decisivo il contributo degli ex scienziati nazisti, ma pochi sanno che sempre al delirio militare del III Reich si deve l’idea originale che porta allo Shuttle.

È in questo contesto che, già negli anni ’30, nel tentativo di concepire un bombardiere capace di raggiungere gli Stati Uniti, nasce l’idea di un bombardiere sub-orbitale. Il progetto più evocativo è senz’altro il Silbervogel (Uccello d’argento) che avrebbe dovuto essere spinto da 12 razzi spinti dai motori delle V2 a velocità supersonica, per poi effettuare una traiettoria sub-orbitale e planare sul bersaglio all’altro capo del mondo.

-il Silbervogel (ovviamente una ricostruzione artistica) –

Il concetto del progetto sarebbe stato ripreso dagli stessi americani con l’X20 Dyan Soar, un mezzo che non hai mai visto il completamento, ma i cui studi sono la base per quasi tutti i veicoli spaziali concepiti negli anni ’60 e ’70.

Non male, considerando che il progetto era costato 660 milioni dell’epoca negli anni dal ’57 al ’63…

Il Dyna Soar nasce in un’epoca in cui non è così certa l’affidabilità dei missili balistici intercontinentali, la possibilità di prevedere un pilota o di estendere la portata con una planata sono elementi decisivi, ma ben presto appare chiaro che il missile è lo strumento di gran lunga più economico e semplice da realizzare: gli Atlas e i Redstone sono realtà e il Dyna Soar, ormai senza sponsorship militare e senza un chiaro obiettivo, viene archiviato.

-il Dyna Soar (anche lui in una rappresentazione artistica) –

All’inizio del ’69, quando sembra ormai chiaro che il Programma Apollo sarà un successo, Nixon interpella la Nasa per capire cosa vorrebbero fare dopo, gasatissimi i ragazzoni dello Space Task Group di Houston partono altissimi:

-Space Task Group: “Colonizziamo Marte!”

-Nixon: “Voi siete fuori, costa troppo.”

-Space Task Group: “Mmmh potremmo fare una base sulla Luna allora?!”

-Nixon: “Idem come sopra, costa troppo, idee più realistiche?

-Space Task Group: “Uffa! E allora una Stazione Spaziale in orbita terrestre e una navetta per costruirlo”

-Nixon: “Noneee! costa troppo”.

-Space task Group: “Vabbè, solo la navetta che poi torna utile se facciamo la Stazione Spaziale o dobbiamo fare i garini in orbita coi russi?”

-Nixon: “Se vi mettete d’accordo con l’USAF e fate a metà forse si può fare”

Quanto sopra non diverge particolarmente dalla realtà, per venire incontro all’USAF la NASA raddoppia le specifiche di carico utile da 25.000 lb a 50.000 lb e ingaggia una serie di fornitori per studiare una proposta.

Comincia così una fantasiosa serie di idee per definire la configurazione ottimale, tutte si basano su un concetto di navetta planante derivata dal Dyna Soar e quasi tutte prevedono che anche il “booster” sia riutilizzabile con lo stesso principio.

–  Varie opzioni prese in esame per lo Shuttle –

– In origine anche il “booster”/primo stadio rientrava planando –

Nel ’71 è ormai chiaro che progettare due veicoli completamente riutilizzabili è fuori dalla portata del budget, si arriva quindi all’idea dei booster affiancati al corpo principale così come la conosciamo, ma anche in questo modo c’è un problema: i booster a combustibile liquido, pur efficienti, costano ancora un occhio e appare molto difficile riutilizzarli efficacemente.

E’ così che qualcuno ha la geniale idea di usare i booster a propellente solido: sono grezzi come lo zoccolo con cui vi picchiava la nonna, una volta accessi non si spengono manco per sbaglio, ma sono affidabili e soprattutto relativamente economici.

Hanno un altro “pro” decisivo per formalizzare la soluzione: si tratta di una tecnologia largamente usata in ambito militare e consentono all’USAF di tenere in gioco i suoi fornitori.

Il 26 luglio 1972 la NASA assegna la commessa per la costruzione alla North America Rockwell che qui su Rollingsteel conosciamo soprattutto per due cose: XB-70 Valkyrie e B-1 Lancer.

– XB-70 e altri “nonni” dello Shuttle parcheggiati in prossimità. Livello miticità nella foto: “Kung-Fu Panda” –

La NASA dichiara che con il risparmio sui booster ci starà largamente nei 5,5 miliardi di dollaroni stanziati per il progetto. Non ho trovato il costo di sviluppo, ma in totale il Programma è costato 209 miliardi di Dollari, secondo me son andati un po’ lunghi.

Inizia così un decennio, la misura standard del tempo dei Programmi NASA, nel quale viene più volte pagato il prezzo di non avere concepito da subito lo Space Shuttle con uno scopo chiaramente definito; obiettivi militari e civili strattonano il programma da ogni parte con il risultato che quello che ne esce è un mezzo sovradimensionato per capacità di carico e flessibilità operativa rispetto alle reali esigenze.

Il 12 aprile del 1981, sua Maestà Suprema Definitiva John Young, già Moon-walker e tre volte nello Spazio con Gemini e Apollo (la storia la trovate qui), insieme al pilota Robert Crippen, portano in orbita il “Columbia” con la missione STS-1 e rientrano a casa dopo un paio di giorni atterrando nel deserto vicino alla base Edwards (per quel giro era meglio evitare i vincoli di una pista).

– Atterraggio del Columbia in STS-1 –

Young ci mette del suo, intervenendo a sistemare le cose quando i computer  di trovano in difficoltà per via di qualche calcolo inserito che non si dimostra esatto (tipo il centro di pressione), ma la missione è un successo e si dichiarerà entusiasta del mezzo volando ancora con la STS-9 (e smazzando anche lì diversi casini).

John Young: 6 volte nello spazio di cui 2 verso la Luna, 4 astronavi diverse, 4 voli come comandante, 34 giorni, 19 ore e 39 minuti nello spazio, di cui 20 ore e 14 minuti passeggiando sulla Luna.

Per Maverick e Iceman resta solo il bagno delle signore.

– Altro che “Top Gun” il migliore è lui, qui con l’orrenda tuta senapata della STS-1 –

Che dite, fin qui abbiamo una solo foto delle Space Shuttle e detto una mazza del ferraccio? Ne vogliamo parlare un po’?

Prima di dare i numeri iniziamo con una foto del “sistema”, perché come sapete non c’è solo l’orbiter (la navetta), ma ci sono anche i due booster e soprattutto il gigantesco serbatoio ventrale con funzione portante di tutta la baracca.

L’orbiter è ovviamente il pezzo più complicato, la struttura principale è in lega di alluminio e si divide in tre parti, ognuna con un preciso scopo.

La parte anteriore ospita gli RCS (razzi di manovra) e la cabina di pilotaggio su tre livelli, la parte più interessante è ovviamente quest’ultima ed è interessante notare che è sostanzialmente un guscio a se stante completamente integrato nella fusoliera; sostanzialmente abbiamo una cabina pressurizzata alloggiata nello scafo, si vede bene nella foto qui sotto.

Il lavoro di ingegneria per isolare completamente la cabina deve essere stato immane, pensate ai cablaggi oppure ai finestrini che sono disposti su tre livelli: lo strato esterno è in solido con la fusoliera e protegge da impatti e calore, lo strato interno è in solido con la cabina e mantiene la pressione, mentre lo strato intermedio è composto da materiale di isolamento termico.

Nella parte centrale abbiamo la stiva, la caratteristica unica dello shuttle: può ospitare uno o più satelliti oppure le attrezzature di attracco orbitale (60 x 15 ft.). La parte inferiore, rinforzata particolarmente alle estremità, sostiene il carico (lo Shuttle è pensato anche per riportare a terra), sui fianchi abbiamo il cablaggio per i controlli sulle ali e motori, mentre i pannelli laterali, svolgono siano funzioni di isolamento che di scambio calore in orbita: noterete infatti che in quasi tutte le foto in orbita i pannelli sono aperti. E’ interessante notare che questi pannelli potevano essere aperti a Terra solamente con strumenti particolari perché i motori interni non avevano la forza di alzarli in gravità e per altro si sarebbero deformati sotto il loro stesso peso.

– Il cablaggio della sezione centrale viene steso prima di installarla nello scafo. Pensate che incubo doveva essere-

Ed eccoci infine al comparto motori, i tre principali in coda accompagnano lo Shuttle da terra all’orbita e il gigantesco serbatoio ventrale è tutto per loro, sospetto consumino più di un Classe G AMG.

ATTENZIONE: Per la lettura di quanto segue è fortemente caldeggiata (ma non indispensabile) la precedente lettura dell’articolo sui motori F1 del SATURN V (QUI), dove spieghiamo più in dettaglio il funzionamento di un motore razzo. È particolarmente importante familiarizzare col concetto di TURBOPOMPA.

I motori dello shuttle sono nipoti dei J2 del Sarturn V che alimentavano il secondo stadio (5x) e il terzo stadio (1x), in particolare la parentela è data dal combustibile utilizzato, cioè l’idrogeno. Nel grosso tanicone abbiamo quindi ossigeno liquido (LOX) e idrogeno liquido (LH2) che all’interno del motore vengono miscelati ad alta pressione ottenendo quindi quella che tutti conosciamo come H2O (non me lo menate per “2” scritto così che non so fare quello piccolo).

– le dense nuvole di polvere bianca generate al lancio dello shuttle sono composte da ossido di alluminio e cloruro di alluminio, prodotti della combustione della polvere di alluminio ad opera del perclorato di ammonio. Una volta esauriti i booster, lo Shuttle veniva posto in orbita sfruttando il contenuto del serbatoio principale generando acqua –

Per ottenere questa miscelazione sono necessarie diverse TURBOPOMPE (se ci avessi pensato prima lo scrivevo subito ‘sto articolo), in particolare il circuito del LOX prevede una turbopompa assiale a bassa pressione e poi una (doppia) centrifuga ad alta pressione, mentre il LH2 prevede una turbopompa assiale a bassa pressione e una (tripla!) centrifuga ad alta pressione. Questo ci porta innanzitutto a poter dire:

TRIPLA TURBOPOMPA CENTRIFUGA AD ALTA PRESSIONE

E per me potremmo finirlo qui l’articolo, ma sono un perfezionista e completerò comunque il lavoro.

Come visto per il motore F1, il carburante è utilizzato anche per altri scopi, il flusso principale è infatti splittato in tre: il grosso va ai motori, una parte percorre avanti e indietro la campana del motore per raffreddarlo (siamo a -232°) e poi viene reimmesso in camera di combustione mentre un’altra parte viene reinviata al serbatoio per mantenerlo in pressione.

– Schema del motore, leggendo quanto sopra è anche comprensibile –

Tutta la baracca genera la simpatica potenza di 37 milioni di cavalli, sembrano tanti (sono tanti!), ma ricorda che ognuno dei cinque motori F1 del SATURN V ne faceva 32 milioni da solo.

– Alloggiamento dei motori –

Sempre in coda troviamo altri due piccoli motori ai lati di quello centrale, sono gli OMS (Obital Manoeuvring System), sono utilizzati per completare l’inserimento in orbita dopo lo sgancio del serbatoio ventrale e per effettuare il de-orbiting dove lo shuttle si mette in retromarcia per rallentare. Vi interesserà sapere che sono in genere impiegati uno alla volta, per limitare il numero dei cicli di start & stop e prolungarne la durata.

– Motori principali e OMS del Discovery in una foto dell’autore –

Abbiamo infine i due booster laterali che danno il loro modesto contributo con una quarantina di milioni di cavalli (equivalenti) al decollo, la cosa interessante del razzi a combustibile solido è che dentro bruciano per tutta la lunghezza. Vi farà piacere sapere che i booster impiegati dallo Space Shuttle sono i più potenti razzi a propellente solido mai costruiti, si stima che ognuno di essi avesse una potenza pari a 1,8 volte quella dei singoli motori F-1 dell’imponente Saturn V.

A livello tecnico, gli SRB – Solid Rocket Booster – sono cavi e una volta innescati tutto il materiale al loro interno (che è un composto ceroso di alluminio, perclorato di ammonio e ferro) si accende in modo inarrestabile venendo espulso dall’unica apertura disponibile: l’ugello.

Il problema si presenta quando, oltre all’ugello, si presenta un altro buco da cui far uscire le fiamme del propellente. È il caso del Challenger e del suo disastroso epilogo datato 28 gennaio 1986: una fredda notte aveva congelato e rotto una guarnizione fra i vari segmenti del booster, che quindi non ha avuto la capacità di trattenere all’interno la fiamma del motore che ha finito per colpire il serbatoio e farlo esplodere, provocando un’immane tragedia. Il tutto per un o-ring congelato.

– In questa sequenza è visibile la fiamma che porta alla distruzione del Challenger –

– foto in alto, la tremenda distruzione del Challenger dopo soli 73 secondi dal lancio. qui sopra lo sfortunato equipaggio: da sinistra Christa McAuliffe, Gregory Jarvis, Judith Resnik, Dick Scobee, Ronald McNair, Mike Smith e Ellison  Onizuka –

L’aspetto più incredibile dello Shuttle è però la sua capacità di rientrare planando sulla Terra, ma a differenza delle navette che l’avevano preceduto, lo scudo termico, oltre ad essere immenso per superficie, doveva essere riciclabile e molto più leggero (sull’Apollo era un terzo della massa del Modulo di Comando).

Addio quindi alle soluzioni precedenti che trasportavano via il calore per ablazione, qui servivano materiali isolanti e capaci di resistere a temperature insensate (oltre 1200°). Per questo lo shuttle usa un mix di soluzioni: sui bordi di attacco e sulla punta abbiamo Carbonio-Carbonio Rinforzato, il materiale più estremo e resistente.

Abbiamo poi le mattonelle nere (più resistenti) e bianche in silicio,  sono circa 31.000, tutte diverse tra di loro per adattarsi alla curva della fusoliera. Ognuna porta il suo numero di serie e il codice numerico che indica la sua posizione, progettarle, incollare e soprattutto tenerle in posizione era un delirio.

– Scudo termico dell’Atlantis in una foto dell’autore –

Come se non bastasse, bastava un detrito ad alta velocità, anche microscopico, per danneggiarle e obbligare alla loro (costosa) sostituzione, tra le altre cose questo è il motivo dell’assurdo costo di ripristino della navetta dopo ogni missione.

Proprio il distacco di uno di questi detriti, un semplice pezzo di spugna isolante del serbatoio ventrale, portò al danneggiamento della protezione in carbonio-carbonio dell’ala dello Shuttle Columbia.

Giorni dopo, durante il rientro, un buco invisibile dalla cabina dell’orbiter, porterà all’ingresso di plasma caldissimo nell’ala del Columbia compromettendo la struttura interna in alluminio e portando alla distruzione della navetta con conseguente morte del suo equipaggio.

– il drammatico rientro del Columbia –

– Immagine raccapricciante di un casco dell’equipaggio ritrovato –

In condizioni normali il rientro era comunque un’operazione estremamente complessa, senza motori atmosferici, l’unico modo di variare altitudine e velocità per lo Shuttle era lavorare sul beccheggio o sul rollio: quando era troppo veloce aumentava il beccheggio per rallentare, quando era troppo alto rollava, alternando i lati, per ridurre la portanza e perdere quota.

Superata la fase più critica del rientro iniziava la “planata”, ben diversa da quella che vediamo normalmente nei video della fase finale, il grosso dell’avvicinamento alla pista avviene velocissimo (555 km/h) e perdendo circa 10.000 piedi al minuto: sostanzialmente precipitando a 180km/h, la velocità terminale di un paracadutista in caduta libera.

Nella fase finale, richiamando la cloche, la velocità della navetta viene “convertita” in portanza per alcuni secondi consentendo un atterraggio controllato. Se avete 17 minuti della vostra vita da investire bene, vi consiglio questo video superlativo e divertente.

In tutto, dall’81 al 92 sono state costruite cinque navette, in ordine cronologico: Columbia, Challlenger, Discovery, Atlantis ed Endeavour. Quest’ultima è stata assemblata fondamentalmente con i pezzi di ricambio del Discovey e dell’Atlantis al fine di rimpiazzare il perduto Challenger.

Le navette non sono identiche, ma incorporano marginali innovazioni e miglioramenti studiati negli anni.

Va menzionato anche l’Enterpise che molti di voi potrebbero avere visto a bordo dell’Intrepid a New York, si tratta di un esemplare per i collaudi in planata, non progettato per i voli orbitali.

– Enterprise in una foto dell’autore, notate come le mattonelle siano diverse rispetto a quelle degli altri Shuttle –

Nel complesso lo Shuttle è stato solo un mezzo successo, gli ambigui requisiti iniziali ne hanno fatto un mezzo troppo complicato e troppo grande, il carico massimo trasportabile, pari a 65.000 lb. (29.000 kg.) non sarà mai raggiunto, al più avvicinato in occasione del lancio del telescopio Chandra X con 50.000 lb. (22.700 kg.). Tutto il progetto è in realtà un esempio di over-engineering e questo elemento contribuirà ad impennarne i costi di lancio e a determinare le due tragedie.

Lo Shuttle sarà presto superato dalla Starship di Space X, ma resterà l’ultima navetta spaziale interamente pilotabile da un essere umano e per questo noi Rollingsteeler la porteremo sempre nel cuore, insieme a tutti gli altri ferri dove il fattore umano è fondamentale, dalle profondità dei mari allo spazio.

PS: Se ti piacciono lo spazio e la scienza, puoi provare a leggere anche i miei libri: Luci dal Futuro, Mercante d’Immortalità e 121 anni l’estinzione.

Articolo del 28 Gennaio 2021 / a cura di Paolo Broccolino

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  • Andrea

    Ottimo articolo come sempre! Interessante notare la straordinaria somiglianza tra lo Space Shuttle ed il drone spaziale boeing X-37b. Come sempre anche da un progetto non totalmente riuscito, ingegneri e compagnia varia, abbiano potuto sviluppare e trarre vantaggio da “vecchie” idee.

  • Giuseppe L

    E adesso ci vorrebbe un pezzo sul Buran 😉

  • Cia91

    Piccola precisazione, gli SRB dello Shuttle sono i più grossi mai lanciati, ma non i più grossi mai costruiti.

    Gli SRB che andranno a spingere l’SLS sono più grossi e sono già costruiti e testati (nel 2015 e 2016).

  • Nicola

    Grandissimo Paolo, come sepre articoli di una grande perizia tecnica e passioen.
    Anche per me l’articolo si esauriva con TRIPLA TURBOPOMPA CENTRIFUGA AD ALTA PRESSIONE….
    gioie di altri tempi…
    Grazie
    Nic

  • Luca lorenzini

    Era il 1983. Avevo 20 anni . Una nottata in 500 fino all’aeroporto di Ciampino per vedere lo shuttle Enterprise sul groppone di un Boeing 747. Esperienza ,per me, mitica. Dovrei avere ancora qualche foto.

  • Andrea Bindolini

    OK John Young il migliore, ma vogliamo parlare dello stramitico James “Jim” Lovell, l’unico essere umano nell’Universo ad essersi fatto la tratta Terra-Luna 2 VOLTE senza MAI metterci piede sopra? Per sempre il mio preferito.

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