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Furgoni da corsa: quando Alfa Romeo produceva veicoli commerciali

Esisteva un tempo a Milano un posto dove si fabbricavano sogni. Dai centri stile del Portello prima, di Arese poi, uscirono fra le più belle auto di un marchio da sempre associato all’auto sportiva italiana, specie in via di estinzione. Ci ricordiamo di un’epoca in cui un’Alfa Romeo 75, una Opel Ascona e una Citroen CX erano tre macchine totalmente diverse e distinguibili, di tre marchi con una propria identità, un proprio appeal, e delle soluzioni tecniche che il costruttore rivale non si sarebbe mai sognato di adottare. Proprio ora che l’unica sportiva a listino Alfa Romeo degna di tale nome è la Giulia, abbiamo imparato ad apprezzare ciò che c’era di bello nelle nostre auto, nella loro imperfezione, nelle loro linee, nel piacere di guida che anche l’ultima delle utilitarie garantiva, grazie a motori (bialbero, boxer o Twin Spark che fossero) dallo sprint e dal suono indimenticabile.

Ma oggi non è nostra intenzione cavalcare più del necessario la vena nostalgica. Come si dice: non piangere perché è finito, sorridi perché è successo. Abbiamo dei bellissimi ricordi, e se il gruppo Fiat è emigrato oltralpe e ha cominciato a montare i Puretech non è colpa nostra, visto che le Alfa da noi non hanno mai smesso di vendere. Guardiamo al passato, ma con una dose di ottimismo e curiosità che ultimamente ci manca.

Dell’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili Romeo dell’anteguerra praticamente ricordiamo solo auto da competizione e loro adattamenti stradali per ottenere tutte le omologazioni del caso. In realtà l’azienda, molto più piccola di Fiat e Lancia, aveva una produzione molto più eterogenea, aggiudicandosi diverse commesse durante la Prima guerra mondiale, ad esempio sfornando motori aeronautici su licenza, che le consentirono di acquistare tre società di costruzioni e riparazioni ferroviarie, tra cui la “Costruzioni Meccaniche” di Saronno, attiva nella produzione di mezzi su rotaia nonché di automobili Peugeot su licenza. Quindi sì, sono esistiti vari rotabili riconducibili ad Alfa, tra cui carrozze di vari modelli e soprattutto varie locomotive elettriche, fra le prime in Italia per non dire al mondo; si trattava principalmente delle raffinate E333 ed E552 a corrente alternata trifase a 3600 V 16 2/3 Hz, sistema poi gradualmente sostituito dalla più versatile alimentazione in continua a 3000 V in uso ancora oggi.

Risale a qualche anno dopo la produzione del primo camion, precisamente al 1931. Trattavasi di un modello Bussing rimarchiato, peraltro diesel, alle primissime sue applicazioni stradali, quando la potenza specifica non era proprio il suo forte. Sprigionava 80 cavalli a 1200 giri, non male per un 10600 di cilindrata, e raggiungeva i 33 km/h di velocità massima. Aveva un costo importante e ne furono prodotti solo 33 esemplari.

C'è anche in versione Quadrifoglio?

Il vero passo in avanti fu l’800RE, un autocarro pesante prodotto dal 1940 per l’Esercito. Con le sue 12 tonnellate di massa totale a terra si trattava di uno dei camion più pesanti costruiti all’epoca secondo i limiti del nostro Codice della Strada, anche se il re della strada rimaneva l’OM Titano 137 su licenza Saurer (137 sono i cavalli). Il nostro Alfa è ancora più umile, con 108 cavalli erogati da un 8600 a gasolio e una velocità massima di circa 50 km/h, ma ha un vantaggio non indifferente: la cabina di guida avanzata, uno dei primi, se non il primo, autocarro con questa sistemazione. Guarda caso, oggi tutti i camion la adottano per non sprecare spazio occupato dal muso, a parte naturalmente oltreoceano, dove però, è ben noto, le dimensioni di strade, città e parcheggi impongono meno vincoli. Subito dopo la guerra, avendo la linea di montaggio già pronta e un paese da ricostruire, riprese la produzione dell’800, senza RE, in versione civile e un po’ meglio rifinito, con, fra gli optional, una cabina con cuccetta.

L'800RE...
...e la versione civile

Dopo un paio d’anni si evolse prima nel modello 900, poi nel 950 e infine in Sua Maestà il Mille, prodotto a Pomigliano d’Arco.

Aspè aspè aspè. Ma Pomigliano d’Arco non era il famigerato stabilimento Alfasud, nato con la produzione dell’omonima vettura famosa per marcire di ruggine ancora in concessionaria?

Non esattamente. Perché lo stabilimento cosiddetto Alfasud, tutt’ora in attività con la produzione della Panda 312 (la Fiat, non la Citroen), dell’Alfa Romeo Tonale e della gemella per il mercato oltreoceano Dodge Hornet non c’entra assolutamente niente con l’originale, nato come centro di ricerca e linea di montaggio di motori per aerei e provvisto pure di un piccolo aeroporto. Oggi praticamente scomparso, era in realtà per l’epoca uno dei siti produttivi più all’avanguardia nel mondo intero e anche di dimensioni ragguardevoli, comprendendo un quartiere residenziale con 500 appartamenti e un grande albergo. Fu ridotto a un colabrodo dai bombardamenti durante la guerra e riprese la sua attività nel ’52, sfornando appunto veicoli commerciali, nonché parti di motori a getto per aerei militari, come se fossero la stessa cosa.

Per quanto riguarda la prima categoria, spicca per l’appunto il Mille, il top di gamma. Allora il best-seller del settore era il Fiat 682, dotato di quel famoso cambio a 4 rapporti con riduttore a 2 velocità privo di sincronizzatori su tutte e due le scatole, col risultato che una scalata ad esempio quarta corta-terza lunga si rivelava particolarmente divertente per l’autista, che doveva eseguire la “doppietta” due volte. Osservate questo video, da dedicare agli automobilisti americani, al riguardo: la leva verticale innesta le 4 marce avanti e la retro, quella lunga comanda il riduttore.

A confronto il Fuller del Turbostar era una favoletta. Quanto a chi oggi lamenta che il cambio manuale delle automobili è scomodo, faticoso e difficile da usare perché ci sono tre pedali per due gambe, non ci esprimiamo.

Bene, l’Alfa aveva anch’esso un cambio principale (ZF) a 4 rapporti, anch’esso privo di sincronizzatori, ma il riduttore a comando elettropneumatico comandato da un tastino sotto al pomello, che semplificava non poco la condotta, e che su Fiat impiegherà ancora qualche lustro ad arrivare. Al cambio si accoppiava un 6 cilindri diesel aspirato, piuttosto tradizionale, capace di 163 cavalli a 2000 giri, in linea con i concorrenti. Ma fu proprio il motore il tallone d’Achille del mezzo, che non era noto per essere particolarmente affidabile. La concorrenza del semplice e sincero 682 e, più avanti, del Lancia Esatau a 24 valvole e del nuovo modello dell’OM Titano, questi ultimi due disponibili anche con compressore volumetrico che ne aumentava a dismisura la cavalleria e faceva la differenza soprattutto se c’era da trainare,  decretò un certo calo delle vendite, con la produzione che terminò solo nel 1965.

Non mancarono diversi modelli di autobus sulla stessa base degli autocarri, nonché filobus come questo dell’ATAC, sempre su base Mille
E giusto per non farsi mancare niente, ecco una cucina firmata dalla casa di Arese. Perché la prima Alfa Romeo a gas non fu la Mito.

Ma, un po’ come fece Fiat vendendo la linea di montaggio della 124 ai sovietici, Alfa trovò il sistema di mantenere viva la propria creatura: infatti, a produrre il Mille ci pensò la FNM, ovvero un’azienda statale brasiliana che già produceva autocarri e automobili su licenza Alfa. Finì che il modello rimase a listino fino al ’79 con vari aggiornamenti e, verso la fine, con motori Fiat e vendette di più in Sudamerica che in patria. Con il Mille termina la produzione di mezzi pesanti del Biscione, ma non questo articolo. Torniamo un attimo indietro all’immediato dopoguerra.

Siamo nei primi anni ’50 e il nostro Paese è uscito con le ossa rotte da un tremendo conflitto mondiale. L’Alfa Romeo è riuscita a riprendere la produzione di automobili al Portello e nel 1950 presenta il suo primo modello completamente nuovo, la 1900. È anche la prima Alfa a scocca portante, la prima con la guida a sinistra nonché la prima prodotta in catena di montaggio, monta anche uno dei primi bialbero in piena era “aste e bilancieri” ed è anche dannatamente veloce, perché 160 km/h erano fuori dalla portata di gran parte delle berline contemporanee. Ma è un modello di fascia alta, costa oltre due milioni di lire, e il solo bollo annuale ammonta a più della mensilità di un operaio (attorno alle 55mila), insomma non fa volumi, e la produzione si attesta sulla ventina di vetture al giorno: la dirigenza Alfa è intenzionata a fare il salto di qualità (il glow up, direbbero oggi) e proporre una vettura più accessibile da produrre in maggior numero di esemplari, non senza l’aiuto dell’IRI, vista la mole degli investimenti necessari. Pare che il nome Giulietta, a cui siamo abituati e anche un po’ affezionati, nacque durante una cena a Parigi nel 1950 a cui parteciparono alcuni dirigenti Alfa in occasione della presentazione della 1900 al Salone: a quanto pare lo tirò fuori un comico che aveva un senso dell’umorismo un po’ scadente e fece questa battuta stile Ale e Franz, ma l’idea piacque.

Sempre nell’ottica di fare volumi, parallelamente Alfa avviò lo sviluppo di un furgone di piccole dimensioni, da produrre sempre a Pomigliano d’Arco di fianco ai mezzi pesanti. Tale veicolo venne completato nel 1954, prevedendo di presentarlo assieme alla Giulietta, pertanto come nome venne scelto proprio “Romeo” per fare pandan; con il risultato che il veicolo si chiamò, non stiamo scherzando, Alfa Romeo Romeo. Ma al di là del sempre discutibile senso dell’umorismo di tutta la faccenda, diciamoci che il Romeo era un piccolo capolavoro di design industriale, un mezzo più furbo che mai. Quando uscì il Romeo, tutto il resto invecchiò di 15 anni, considerato che i suoi diretti concorrenti che ci andavano più vicino, la 1100 F furgonata e il 615, erano la prima un’auto furgonata e il secondo un camioncino ancora col telaio separato.

Non stupisce che pochi anni dopo la Fiat sia corsa ai ripari presentando la 1100 T.

Sotto ad una carrozzeria che, pur simpatica e tondeggiante, non lasciava dubbi sul marchio, si celava un piccolo capolavoro di meccanica: telaio monoscocca e trazione anteriore, ancora non comuni, il tutto per lasciare il vano di carico più libero possibile, cosicché il pavimento era molto più basso che negli altri veicoli commerciali, e motore alloggiato in un tunnel fra i sedili anteriori. Ma apriamolo un po’, sto tunnel!, e osserviamo la meraviglia che vive al suo interno.

È lui. Quello della Giulietta. Uno dei primi motori stradali totalmente in alluminio, 1290 cc, doppio albero a camme in testa comandato da catena. Oltre che completamente nuovo e bellissimo da vedere è anche leggero, vivace, brioso e, non ultimo, ha un suono che è una goduria unica. E se non è strano trovarselo sotto al cofano di una Giulietta, mai ti aspetteresti di vederlo in un furgone con 10 quintali di portata tale e quale, depotenziato (da 50 a 35 cavalli) per ottenere una maggiore durata e un minor consumo di carburante, ma ancora con un ottimo allungo. Supera tranquillamente i 5000 giri e permette al mezzo di raggiungere la velocità supersonica di 97 km/h. D’accordo, non è molto, ma è pur sempre un furgone del ’54, e il 615 non arriva nemmeno ai 70.

E qui si apre una parentesi, perché il 615 ha un vantaggio: c’è anche a gasolio, lo spompatissimo “305” 1900 aspirato a precamera della Campagnola, però fa ben 15 chilometri con un litro anziché 7 e la gente lo compra. Vorrà la casa del Portello, forte della sua esperienza nella produzione di autocarri, essere da meno? Giammai. Vorranno anche loro produrre un altro asmatico 1900 aste e bilancieri? Neppure. La soluzione?

Questa roba qua.

Più facile di così: basta realizzare un bicilindrico due tempi con compressore volumetrico a lobi, e che diamine!

Questo strampalato propulsore (chi l’avrebbe mai detto?) fu costellato da una serie di rogne meccaniche al punto che gli esemplari prodotti su licenza in Spagna montavano un’unità Perkins, ma era di indubbia rilevanza tecnica. Sviluppava quasi la potenza del 1900 Fiat (ben 35 cavalli), ma era un 1200, e all’epoca di diesel così compatti semplicemente non ne esistevano. Il compressore volumetrico era praticamente obbligatorio, dal momento che, tecnicamente, nessun motore due tempi privo di valvole può essere ad aspirazione naturale (che diavolo aspira con la luce di scarico aperta?); i motori degli scooter hanno il carter pompa, che fa il suo, ma questo è un diesel, e la sovralimentazione è d’obbligo. Era un gioiellino poco fortunato, e in deciso anticipo sui tempi.

In compenso la versione a benzina, pur bevendo come una grondaia, tirò dritta la sua carriera fino al 1967, quando il fortunato Romeo Romeo lasciò il passo al suo erede, l’A12, o F12, a seconda della versione, aperta o furgonata. Con tante piccole migliorie e aggiornamenti estetici, mantenevano tuttavia lo schema meccanico del predecessore, e anche il motore bialbero, nel frattempo aggiornato e finito sotto il cofano della Giulia 1300, era sempre lo stesso, una garanzia. Col tempo si aggiunse, in luogo del mostro a due tempi di prima, un 1800 diesel Perkins che svolgeva il suo lavoro egregiamente, eccetto per il fatto di vibrare come un indemoniato, al punto che quando lo stesso motore finì sotto al cofano della Nuova Giulia Diesel i supporti motore finivano per rompersi a fatica. Erano decisamente altri tempi.

 

Alla fine della carriera commerciale dell’F12/A12, l’Alfa Romeo si trovava nella merda fino al collo in condizioni economiche che lasciavano alquanto a desiderare, dopo qualche operazione commerciale che definiremo “sprovveduta” per pietà, come l’Arna (che oltre ad essere un’accozzaglia italo-giapponese brutta come i debiti dovette suscitare nel pubblico veneto notevole ilarità al lancio: “ottima con i bigoli”…), o come l’Alfa 6. Cioè, seriamente qualcuno ha disegnato quelle due robe lì aspettandosi che qualcun altro le comprasse?

Insomma, la situazione era critica e ormai il campo gravitazionale della Fiat cominciava a farsi sentire: poco mancava perché finisse nella sua orbita. Una delle prime avvisaglie fu proprio la produzione di due veicoli commerciali che dovevano sostituire il furgone di prima.

Il primo è l’AR6, sviluppato nell’ambito del consorzio Sevel dai gruppi Fiat e PSA, ma è più probabile che lo conosciate come Fiat Ducato. I due gruppi si misero d’accordo per sviluppare insieme un furgone capace di sostituire quelli allora in gamma, alleanza che dura ancora oggi, dopo 43 anni di produzione. Al lancio era in vendita, oltre che come Fiat Ducato e Alfa Romeo AR6, anche come Citroen C15, Peugeot J5 e Talbot Express: privato della personalità del marchio, era lo stesso, eccellente furgone, instancabile compagno di lavoro dei piccoli imprenditori, ma anche ottimo veicolo di emergenza, base per camper, minibus e chissà cos’altro; cambiavano i loghi, i colori e qualche versione, ma tutti avevano gli stessi motori, nell’ordine due diesel (l’inossidabile 1900 e il leggendario SOFIM 8140 da 2500 cc) e un paio di benzina a carburatore, presumibilmente dotati di impianto a gas il giorno dopo l’acquisto; arriveranno poi le versioni turbo. Mancava un po’ quella piccola genialità che aveva invece il Romeo (il motore non è più sotto la cabina, ma davanti, in una sistemazione più tradizionale).

Il secondo è l’AR8: lui, il Daily. (Chiariamo una cosa una volta per tutte: il Daily non è un furgone, è un CAMION. Ha il telaio a longheroni, le molle a balestra e tutto il resto. E la trazione posteriore. Diamo a Cesare quel che è di Cesare). Stavolta non c’entrano i francesi, bensì è frutto del neonato consorzio IVECO, tra Fiat, OM e qualche altra aziendina. Il progetto di Fiat punta a rimpiazzare senza troppe novità l’obsoleto 616 e ci riesce appieno, visto che anche lui stravende tutt’oggi; tralasciando i marchi con cui venne venduto in tanta malora (Zastava etc), ci limitiamo a dire che si poteva acquistare come Fiat o Iveco Daily/TurboDaily, OM Grinta/TurboGrinta e, appunto, AR8. Il motore è sempre lui, il SOFIM, aspirato a precamera o turbo a iniezione diretta, accoppiato a un cambio a 5 marce con la prima corta, dunque 4 effettive (infatti i viaggi autostradali sono una goduria), e posizionata indietro, stile Ferrari F40.

Questa lunga storia si conclude in una data precisa: 1° gennaio 1988, quando Alfa, da due anni ufficialmente acquisita da Fiat, dalla sera alla mattina interrompe la produzione di veicoli commerciali, per continuare a proporre al pubblico delle splendide automobili. Ci andava di raccontarvi un pezzettino di storia industriale di un paese che non c’è più. Di quando la Fiat vendeva due milioni di macchine all’anno, non 400mila come adesso. Di quando Lancia stravinceva i mondiali di rally. Di un’epoca in cui chi sognava una Giulietta ne poteva apprezzare una piccola parte andando a fare consegne con un furgone. E poi, lo stemma del Biscione su un “Ducato” magari a qualcuno ha fatto venire il dubbio, e ve l’abbiamo chiarito; ma dietro a quello stemma c’è una storia, quindi perché non raccontarla?

Articolo del 31 Luglio 2024 / a cura di Francesco Menara

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  • Roy

    Una correzione al volo: il filobus in foto è un Alfa Romeo 1000 Aerfer in servizio per ATAN (l’azienda trasporti di Napoli, ora ANM), nato a Pomigliano d’Arco e cresciuto tra Napoli e hinterland. La progettazione fu del Servizio Studi Aerfer, azienda che a metà degli anni ottanta, tra fusioni e cessioni, diventò Sofer fino all’avvento di ADTranz (e poi tirò le cuoia prima di diventare Bombardier transportation, ora Alstom).
    Nella foto è nell’incrocio tra corso e piazza Garibaldi, a Napoli; in servizio per la linea 254, capolinea a Portici.

  • Michele Cacamo

    Bravissimo a raccontare questa storia,mi ha riportato indietro negli anni 54,io ne avevo 9 e mi ricordo bene del camion Esatau e anche del 682 se mi ricordo bene c’era la versione con 4ruote sterzanti e dell’Alfa mille mi ricordo che c’era l’Alfa mille con doppio ponte posteriore con doppio differenziale,un mostro di camion.si mi ricordo anche del Fiat 615,e del Fiat 1400diesel,mi ricordo anche del Fiat 1900 granluce,il fiat 1100 TV.che bei ricordi.Comunque ribadisco a fare dei complimenti al narratore di questo articolo , è così bravo che mi a fatto ritornare bambino.Bravo bravo bravo

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