Il sole del settembre 1989 sorge veloce oltre l’orizzonte delle Barbados. Inonda la pista dell’aeroporto Grantley Adams e si riflette sulle lenti degli occhiali di Jeff, diretto di buon passo verso il WP-3D Orion NOAA 42. “La Principessa”, accudita da un nutrito gruppetto di tecnici che le brulicano intorno, viene amorevolmente ispezionata e rifornita in vista di un nuovo volo. Jeff scruta a Nord-Est, in cerca di indizi. Ma è ancora presto per incontrare il mostro.
Jeff Masters, che oggi dirige Weather Underground, fra il 1986 e il 1990 è stato un meteorologo della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), l’ente statunitense che si occupa di studiare e comprendere come funziona il nostro pianeta in ambito atmosferico, climatico e marino, per raccogliere dati ed elaborare previsioni, monitorando i fenomeni atmosferici, mappando gli oceani, regolamentando la pesca e proteggendo la fauna. Nasce nel 1970 su volontà di Nixon, ma l’eredità della NOAA è quella di svariati enti attivi a partire dai primi anni del 19° secolo. Quel giorno di settembre, faceva parte dell’equipaggio di sedici fra scienziati e aviatori della Principessa.
L’interno del WP-3D è come un enorme computer: la Principessa è farcita di strumentazione scientifica di ogni genere, qualcosa come cinquanta diversi aggeggi che rilevano, monitorano e analizzano. “W” sta per “weather”, la versione meteorologica di un aereo nato per la Marina, per la caccia ai sommergibili a bassa quota sul mare e che ora dà la caccia alle tempeste.
La NOAA dispone anche di droni, ma l’Orion è un affidabile turboelica perfetto per questo tipo di missione e pilotato da tradizionali esseri umani dalla grande esperienza di volo: il comando è affidato a Lowell Genzlinger, alla sua duecentoquarantanovesima missione e quindi un filino esperto; il copilota, Gerry McKim, collabora solo da due anni con la NOAA, ma il P-3 l’ha pilotato in marina per vent’anni. In totale, l’equipaggio può contare fino a 22 membri fra piloti, ingegneri di bordo e scienziati vari.
Tutto sembra a posto, per cui Jeff, per ingannare l’attesa dei controlli pre-volo, chiacchiera con la giornalista ospite a bordo. Quella chiede dove siano i paracadute. Dove andiamo, i paracadute non ti serviranno a nulla, le rispondono. L’elenco delle 16 anime pronte a partire viene consegnato al personale di terra: trent’anni di voli e nessun incidente, ma di certo non sarà una passeggiata. C’è anche un P-3 gemello, il NOAA 43, che volerà in circolo attorno alla tempesta.
La Principessa, invece, ci si infilerà proprio in mezzo.
– Due WP-3D Orion della NOAA. In primo piano, il nostro N42RF, per gli amici “Kermit” –
NELLA PANCIA DEL MOSTRO
L’uragano Hugo del settembre 1989 era un bestione che al culmine dell’incazzatura ha raggiunto Categoria 5, la più alta della scala Saffir-Simpson. Se per i tornado si usa la Fujita, che rileva quanto il vortice si divora lungo il cammino, per gli uragani si usa appunto la SSHS (questo ad Est della linea internazionale del cambio di data, mentre ad Ovest si chiamano cicloni o tifoni a seconda delle aree e le scale utilizzate sono diverse), che si basa sull’intensità dei venti: per essere considerato tale, un uragano deve mantenere a 10 m sul livello del mare un vento di 64 nodi (119 km/h) per almeno un minuto di media.
È la Categoria 1, l’incipit di un fenomeno che nel peggiore dei casi può nutrirsi del calore dell’Oceano Atlantico (o Nord Pacifico) fino alla Categoria 5 e soffiare costantemente venti di 137 nodi (250 km/h), sollevando letteralmente il mare (storm surge) e causando devastazioni e inondazioni catastrofiche.
I tipici uragani che spazzano l’Oceano Atlantico hanno tutti origine dalle correnti d’aria che dal deserto del Sahara – in una particolare area attorno a Capo Verde, per la precisione – raggiungono le acque e, scontrandosi con le più fredde e umide correnti oceaniche, condensano fino a formare depressioni che, con le giuste condizioni e la giusta temperatura dell’oceano, possono crescere a dismisura e autoalimentarsi, mentre la rotazione terrestre (forza di Coriolis) imprime loro un movimento rotatorio (antiorario nell’emisfero boreale e orario in quello australe).
Settembre, guarda caso, è il mese in cui le correnti africane sono più intense e Hugo era solo uno degli undici uragani di quella stagione, ma uno dei più devastanti e veloci: in una settimana, si è evoluto da gruppetto di temporali al largo della costa africana in un Categoria 5 con venti da 250 km/h; ha devastato i Caraibi come Categoria 3, riguadagnando Categoria 4 giusto in vista della costa del North Carolina, per poi risalire tutti gli States fino al confine con il Canada, ormai ridotto a normale tempesta. Si è fatto tutti gli Stati Uniti in ventiquattro ore.
Il 15 settembre, mentre Hugo raggiunge la sua massima potenza, l’Orion decolla in un dipinto ad olio dai colori sconvolgenti, tanto che Jeff, pur sapendo a cosa andranno incontro, non riesce a capacitarsi di come nel giro di poche ore l’azzurro e il verde irreali dei Caraibi scompariranno nel grigiore del più devastante evento atmosferico che il pianeta è in grado di creare. E questo è davvero grosso: oltre 400 miglia.
La Principessa raggiunge i 10.000 piedi, quota che di solito è considerata il limite massimo di altitudine (andando oltre, il rischio di formazione di ghiaccio è troppo alto) per l’ingresso in un uragano (il limite inferiore è 500 piedi, al di sotto il rischio è quello di incappare in una eccessiva instabilità dell’atmosfera fra tempesta e superficie). Il compito di Jeff è proprio quello di valutare quali siano la rotta e l’altitudine più opportune per approcciare la tempesta e uscirne tutti interi.
– Le sonde sganciate dall’Orion si paracadutano nella tempesta, rilevano pressione, temperatura, umidità, velocità e direzione del vento e trasmettono il tutto all’aereo. Filtrati i dati per eventuali errori, l’Orion li trasmette a sua volta alla base a terra –
Allo scopo di analizzare la situazione, l’Orion sgancia sonde in vari punti della tempesta e dispone soprattutto di due radar, uno collocato sulla parte inferiore della fusioliera e un Doppler in coda; i primi rilevamenti appaiono sullo schermo di Jeff, una perfetta spirale giallo-verde con accenti rossi dove i venti soffiano con più violenza; al centro, l’inconfondibile occhio. Ad un tratto, lo schermo si spegne. L’Orion è cieco.
Il problema è che la Principessa è il primo aereo ad incontrare Hugo. Il WC-130J Super Hercules dell’Air Force arriverà solo in seguito e le uniche immagini di cui Jeff e compagni dispongono sono quelle satellitari, non sufficientemente precise per stimare l’impatto della tempesta sull’aereo. Nemmeno il compagno ad alta quota della NOAA, il Gulfstream IV-SP (G-IV), ha ancora dato un’occhiata: il jet, volando sopra i 40.000 piedi, circumnaviga la tempesta e la studia con radar Doppler e sganciando sonde nei dintorni.
– Il WC-130J Super Hercules dell’Air Force decolla dalla Keesler AFB di Biloxi, MS. Come nel caso del WP-3D Orion della NOAA, si infila negli uragani senza timore. Il Gulfstream, invece, circumnaviga la tempesta a distanza di sicurezza e ad alta quota, studiandola col Doppler e sganciando a sua volta alcune sonde –
Serve quel radar e serve in fretta. Senza di esso, non si può valutare il miglior ingresso nella tempesta, che va identificato con attenzione. Di solito, l’approccio della Principessa e degli altri due Orion di NOAA, oltre che del C-130 dell’Air Force, è l’Alpha:
Si vola lungo un lato della tempesta, si sceglie un punto di ingresso e si vira per penetrarla. Una volta raggiunto l’occhio, si rileva il punto preciso in cui il vento cambia direzione: quello è il centro esatto dell’uragano. A quel punto, si esce dall’occhio e si vola verso il punto opposto a quello di ingresso; dopodiché, si replica l’ingresso con un nuovo rilevamento del centro. La differenza fra i due rilevamenti mostra posizione, direzione e velocità della tempesta, ma vengono raccolti anche dati sulla pressione e sulla velocità del vento.
Ci sono altre rotte tipicamente utilizzate dagli Hurricane Hunters, come la “stella”, o il “tagliaerba” o la “spirale quadrata”, ciascuna con i suoi vantaggi e svantaggi.
Paradossalmente, i pattern “Delta” possono essere anche più impegnativi: questo tipo di schema viene scelto quando la tempesta deve ancora essere confermata come in rotazione, quindi potenziale uragano. La quota di volo è molto bassa – fra i 500 e i 1000 piedi – per ottenere la migliore valutazione possibile, ma questo significa che si balla parecchio.
(Immagini di CNN Weather)
Il Gulfstream, invece, vola su rotta “Box”, praticamente disegnando un quadrato attorno alla tempesta, nella pace e nella tranquillità dei suoi 40.000 piedi; ma questo non consente di valutare l’intensità dell’uragano e quindi i nomi del suo equipaggio sono sul pannello dei non classificati, nel bagno delle signore.
NOTA – Se vi state chiedendo come possano dei cristiani entrare e uscire con tale disinvoltura da un uragano a bordo di un aereo sappiate che 1- non è proprio una passeggiata e 2- il concetto di base è che le correnti di un uragano, per quanto molto forti, soffiano soprattutto in orizzontale, al contrario del turbinìo di correnti convettive all’interno di un semplice temporale. Lo spiegano bene qui (in inglese):
Passano venti interminabili minuti prima che l’immagine del radar torni a riempire lo schermo di Jeff, che nota subito il diametro di 20 km dell’occhio: è piccolo, per gli standard di un uragano. Sarà un problema se si renderà necessario rifugiarvisi in mezzo (l’occhio, si sa, è l’area paradossalmente più tranquilla), per non parlare del fatto che quando è così piccolo è facile che la tempesta si stia intensificando velocemente.
Jeff decide di tentare un ingresso a 1500 piedi. Alla peggio, saliranno a 5000 se le cose si mettono male. Lowell, ai comandi, non è troppo convinto, ma la decisione spetta agli scienziati… 1500 sia.
L’Orion punta il muso verso il basso e comincia una discesa di 1000 piedi al minuto. Fuori dal finestrino, l’oceano mostra i primi segni di raffiche che sollevano schiumose creste bianche, mentre il sole viene gradualmente velato da cirri ad alta quota; cumuli disposti a spirale indicano la direzione del centro dell’uragano, mentre l’enorme, scuro muro di cumulonembi che sembra innalzarsi fino allo spazio si avvicina minaccioso.
La voce di Lowell gracchia nelle cuffie: “SET CONDITION ONE!”. Vale a dire tutti ai loro posti, pronti ad affrontare la turbolenza. Cala il buio. L’Orion è dentro. Il vento aumenta all’improvviso di intensità, le prime raffiche e gocce di pioggia schiaffeggiano la fusoliera. Ma è solo un assaggio: questo era uno dei bracci della spirale dell’uragano. Jeff ne segna la posizione. Torna la luce, il vento cala e tutto fa pensare a una tempesta non superiore alla Categoria 3.
When I say this was the roughest flight of my career so far, I mean it. I have never seen the bunks come out like that. There was coffee everywhere. I have never felt such lateral motion.
Aboard Kermit (#NOAA42) this morning into Hurricane #Ian. Please stay safe out there. https://t.co/DQwqBwAE6v pic.twitter.com/gvV7WUJ6aS
— Tropical Nick Underwood (@TheTropicNick) September 28, 2022
Poi, Jeff torna con lo sguardo sul rilevamento radar dell’occhio, distante una decina di minuti: l’arancione e il rosso sono sempre più intensi. Che fare? Ordinare di salire a 5000? Salendo, sarebbero più al sicuro, ma le misurazioni sarebbero meno accurate. Jeff decide di tacere e, non ricevendo ulteriori istruzioni, i piloti dell’Orion si infilano nel muro di nubi a 1500 piedi. Il buio, ora, è quasi totale. Lampi abbacinanti illuminano a giorno la cabina con la frequenza di una raffica di mitra. Il parabrezza è tanto inondato di pioggia che è come se l’aereo si fosse schiantato in mare. I piloti dicono che è come volare in una vasca da bagno.
– L’abitacolo del WC-130J si infila nel muro dell’occhio di un Categoria 5 come Hugo. Astenersi epilettici –
“Il P-3 è come un carro armato, per questo ci piace. È un aereo eccezionale per il nostro lavoro. La maggior parte degli aerei commerciali ha motori turbofan, con grandi prese d’aria che risucchiano l’aria, la comprimono e la incendiano e la sparano sul retro e la trasformano in spinta. E funzionano alla grande, ma non se voli in una vasca da bagno. Così usiamo motori jet con un’elica attaccata davanti. I turboprop gestiscono l’ingestione di pioggia molto meglio dei turbofan. E quel che ci piace del P-3 è la sua risposta: quando dai manetta, hai una reazione istantanea. Nelle turbolenze puoi reagire velocemente” (LCDR Kevin Doremus, intervista al podcast Pulsar)
Le estremità delle ali, sottoposte a tremendo stress, si alzano e si abbassano anche di un metro sotto la spinta delle raffiche. Lo stomaco fa le capriole. Jeff capisce di aver sottovalutato la situazione, ma è ormai troppo tardi; è anche peggio di quella volta con l’uragano Emily, quando avevano toccato i 3 G e avevano dovuto abortire per via di una preoccupante risonanza nelle ali.
Mentre Jeff rileva una pressione di 980 mb e venti a 220 km/h, i piloti Lowell e Gerry vorrebbero cabrare e salire a 5000, ma tutta la forza che hanno – entrambi, uno solo non ce la farebbe – basta appena per un volo livellato a tutta manetta per uscirne il prima possibile.
Nelle cuffie, totale silenzio radio. In cabina, il frastuono di venti ormai a 250 km/h. Ed è qui che la situazione precipita: ad appena un minuto dall’occhio, una improvvisa corrente ascensionale afferra l’aereo e schiaccia l’equipaggio ai sedili, seguita da una discensionale altrettanto violenta che li manda a gravità zero. Bagagli ed equipaggiamento volano per la cabina. Sbatacchiato come un cocktail, Jeff cerca di tenere d’occhio lo schermo e vede con orrore un rilevamento di quasi 300 km/h di intensità dei venti. Con una pressione di 930 mb e raffiche anche più violente, Hugo è ufficialmente un Categoria 5 e sta cercando di spazzarli via dal cielo.
“Probabilmente la cosa più difficile è evitare le correnti convettive. Essenzialmente, tempeste all’interno della tempesta principale e talvolta perfino tornado all’interno del muro attorno all’occhio”
C’è come una schiarita. Ormai al limite dell’occhio, l’equipaggio tira un respiro di sollievo. Ed è a quel punto che Hugo sferra il colpo definitivo: cala di nuovo il buio e un cazzotto di vento di 3 G colpisce l’aereo con tale violenza che Jeff finisce con la faccia nella console, rimbalza e si ritrova a guardare giù verso il collega dall’altra parte della cabina. Vola di tutto: la zattera di salvataggio si sgancia e sbatte contro il soffitto, utensili di ogni genere schizzano come proiettili, bibite e bevande diluviano sull’equipaggio e computer portatili si sfracellano in mille pezzi.
Un terzo e ultimo, devastante colpo stimato in 6 G viene inferto all’Orion. Urla di terrore. Il frastuono dei tuoni, della pioggia e del turbinare delle eliche sono tanto forti che sembra che l’aereo si sia aperto in due e la tempesta abbia invaso la cabina. Jeff è ormai certo che sia finita. Deve essere andata così per quei cinque aerei scomparsi in un uragano fra il ’45 e il ’74; tutti della Marina o dell’Air Force, mentre loro saranno i primi della NOAA. Il motore tre è in fiamme. Il motore quattro perde pezzi. L’aereo vira di colpo a dritta. Poi, picchia verso l’Oceano Atlantico.
L’OCCHIO
Un ipotetico osservatore esterno in volo stazionario nell’occhio di Hugo avrebbe visto il piccolo, fragile Orion spuntare dall’immenso muro circolare di nubi, con uno sbuffetto di condensa e un po’ di fumo dal motore tre. L’occhio è come un’isola circondata da una solida barriera corallina in mezzo ad un oceano in tempesta. È facile che splenda perfino il sole. Ma con due motori danneggiati, entrambi sulla stessa ala, la faccenda si fa complicata.
“I Categoria 3, 4 e 5 sono tipicamente quelli in cui hai questi occhi ben definiti, con visuale in alto e in basso e quello che chiamano effetto stadio. Sbuchi fuori dal muro di ed entri nell’occhio ed è tutto chiaro, con questo anello di nubi intorno. Ogni volta che lo vedo mi toglie il fiato“.
L’Orion si riprende dalla picchiata e il motore in fiamme viene spento, ma ora si tratta di restare nell’occhio per leccarsi le ferite. Cosa più facile a dirsi che a farsi, virando con un grosso aereo con i motori in avaria all’interno di uno spazio ristretto. L’Orion surfa sul muro di nubi ai bordi dell’occhio con una inclinazione di 30° che mantiene a fatica. Talvolta lo penetra e allora la velocità del vento sale di colpo: è come tirar fuori la testa dal finestrino in autostrada. Al di là dell’oblò, il centro di Hugo. Nubi torreggianti infinite circondano l’aereo, mentre l’Oceano ribolle di onde di 15 m modellate da venti a 300 km/h.
Finalmente, i piloti riescono ad impostare una virata continua a sinistra che consenta di volare in circolo all’interno dell’occhio per tutto il tempo necessario; ora si tratta di salire fino alla quota massima di sicurezza, per evitare i venti più violenti. Ma per uscire dall’occhio si può solo tornare da dove si è venuti: riattraversando il muro di nubi. Il motore tre è andato. Il motore quattro è danneggiato, ma sembra reggere nonostante un preoccupante aumento di temperatura. Gli strumenti riportano che l’aereo ha subìto 5,5 G di accelerazione verticale verso l’alto e 3,5 verso il basso, il che significa danni strutturali praticamente certi, dato che il P-3 è certificato per un massimo di, rispettivamente, 3 G e 2 G.
Bisogna alleggerire l’aereo per guadagnare quota e raggiungere l’area con meno turbolenza e l’unica maniera di farlo è quella di disperdere parte del carburante. O di buttare qualcosa fuori bordo… Jeff pensa alle sonde AXBT (Air Expendable Bathythermograph) per la misurazione di temperatura e velocità delle correnti che hanno a bordo: pesano circa 13 kg l’una e ne hanno 22 a bordo. Fanno 300 preziosi kg in meno! L’Orion sale di quota mentre 7 tonnellate di carburante vengono gradualmente disperse in una lunga scia da sotto l’ala sinistra.
Alla radio, TEAL 57, il C-130 dell’Air Force. Il NOAA 42 aggiorna sulla situazione e chiede un fly-by per osservare meglio il motore 4. Penetrando a sua volta il muro di nubi con una certa strizza anche per quelli dell’Aeronautica, il TEAL57 raggiunge la Principessa e si posiziona in formazione per dare un’occhiata. Parliamo di due grossi aerei che volano appaiati in un piccolo occhio di uragano Categoria 5. Dal C-130 fanno sapere che il motore 4 è abbastanza in forma, a parte un pannello parzialmente aperto e che il resto dell’aereo appare in ordine. Dopodiché, fanno quello che ogni aviatore farebbe per un compagno: penetrano più volte l’uragano alla ricerca del passaggio meno perturbato per la povera Principessa malandata.
Dal canale aperto con TEAL 57, giungono i suoni e le esclamazioni di chi attraversa un feroce muro di nubi di un Categoria 5 faticando a trovare la via meno estrema. Meglio non provare ad Est, dicono. La Principessa arranca fino a 7000 piedi, ma non può andare oltre perché rischia il surriscaldamento dei motori ancora sani. Ed ecco il compagno NOAA 43: “Siamo appena entrati nell’occhio a 15.000 piedi da Est e vi vediamo! Se ce la fate fino a 15.000 non è troppo brutta!“.
Lo stesso rilevamento viene infine confermato anche dall’Air Force. È l’unica speranza. Gerry comunica che seguiranno il C-130 in quella direzione. SET CONDITION ONE.
FINALMENTE FUORI
Di nuovo nero. Di nuovo turbolenza. Forte. Pioggia torrenziale. Venti ad oltre 300 km/h. Infine, il sole. Quello amico, quello fuori dall’occhio. Il NOAA 42 rientra alle Barbados scortato dal 43, mentre TEAL 57 rientra alla Keesler Air Force Base di Biloxi, Mississippi. Jeff e compagni sono entusiasti ma stremati. Jeff è furioso con se stesso per aver messo a rischio l’equipaggio e l’aereo. Pochi mesi più tardi, lascerà la NOAA.
– L’Orion cerca parcheggio, mentre il WC-130J decolla sullo sfondo (foto: Kristen Pittman)–
La Principessa venne analizzata dentro e fuori nel corso di tre mesi di riparazioni. Al motore 4 mancava parte del sistema di sghiacciamento e il motore 3 aveva un problema al sensore di gestione del carburante. Nessun danno strutturale, nonostante i G che si è beccato. È tosto questo Orion.
Tanto che la Principessa continuò a volare anche dopo le dimissioni di Jeff. Le analisi dei dati di volo rivelarono che il NOAA 42 incontrò un vortice simile a un tornado all’interno del muro di nubi al massimo dell’intensità dell’uragano. Probabilmente è proprio questo tipo di fenomeno ad infliggere i danni maggiori sulla terraferma.
Hugo devastò i Caraibi e il Sud-Est degli Stati Uniti con la forza di un Categoria 4, uccidendo decine di persone e causando dieci miliardi di dollari di danni. All’epoca, fu l’uragano più devastante della storia, ma nel corso degli anni fu surclassato da Andrew, Ivan, Charley, Wilma e, soprattutto, Katrina.