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Queen Mary II, l’ultimo transatlantico

Queen Mary II

Alcune settimane fa è uscito sul vostro sito preferito un articolo riguardante l’impatto ambientale delle navi da crociera che toccava diversi aspetti non banali. Vi sono contenute le risposte a tante domande, le quali suggeriscono ulteriori riflessioni; su tutte, e cercherò di stimolare lo stesso pensiero anche nei nostri lettori, a chi scrive è venuto naturale pensare a quanto la funzione di mezzo di trasporto della nave sia venuta meno col tempo, sorpassata dall’aereo, che è, certamente, meno impattante e più veloce, ma proprio per questo, anche con la nascita delle compagnie low-cost, molto più usato. Questo processo ebbe inizio nei non poi così lontani anni ’50 quando la Boeing, la Douglas e la De Havilland cominciarono a trafficare coi motori a reazione, divenuti sufficientemente affidabili, e i voli transatlantici diventarono più abbordabili e sicuri per il grande pubblico. La durata di tali viaggi cambiò ordine di grandezza, dai giorni alle ore, e girare il mondo di mestiere o per sfizio è oggi la normalità.

In un’epoca completamente diversa, quando il piccolo biplano dei fratelli Wilbur e Orwille Wright doveva compiere, o aveva compiuto da poco, il suo primo breve ma coraggioso balzo in aria della durata di 12 secondi, c’era un unico sistema di percorrere le migliaia di chilometri di oceano che separano i continenti (due, ma sui dirigibili… sorvoliamo). Le diverse compagnie marittime si contendevano i clienti rivaleggiando dunque sul tempo di viaggio ordinando navi sempre più grandi e veloci, come un transatlantico americano capace di toccare i settanta all’ora, circa 38 nodi, una follia; bene, ora vogliamo lanciarvi una provocazione snocciolando i numeri di altre navi del secolo scorso:

  • Mauretania, 28,75 nodi;
  • RMS Olympic, il fratello fortunato del Titanic, 23 nodi;
  • Andrea Doria, 23 nodi;
  • Rex, 29 nodi;
  • Queen Mary, 30 nodi.

Ora, esaminiamo la scheda tecnica della più moderna, grande, grossa, quello che volete nave da crociera esistente a questo mondo, la Icon of the Seas: questo caratteristico palazzo galleggiante varato nel dicembre 2022, lungo 1,4 volte il Titanic e con una stazza più che quintupla, è la quintessenza del consumismo su acqua. Nuova di trinca com’è, ci si aspetterebbe a logica prestazioni velocistiche di tutto rispetto. Invece questo orrore tocca appena 22 nodi, circa 41 km/h.

No, non è perché la Icon, in un impeto di greenwashing, va a metano. Più o meno tutte le navi da crociera moderne, anche quelle che bruciano la peggior schifezza piena di zolfo di tutto il mercato degli idrocarburi, si attestano su certe velocità, spesso anche inferiori. Snoccioliamo qualche altro numero sempre nell’ottica di stimolare una riflessione:

  • Fu Costa Concordia, 23 nodi;
  • Carnival Splendor, 21 nodi;
  • Costa Fortuna, 22 nodi;
  • MSC Fantasia, 23 nodi.

Cosa caz… diamine è successo? Qual è la ragione di una (apparente) involuzione tecnica del genere? Qui le cose sono due: o quelli che progettano le navi si sono dimenticati come si fa dalla sera alla mattina, oppure, volutamente, si è scelto di privilegiare altre caratteristiche, perché è cambiata la loro destinazione d’uso.

Semplice: le navi di una volta erano dei mezzi di trasporto. Partivano da una parte dell’oceano e arrivavano dall’altra. In altre parole, servivano a qualcosa. Fin dal primo transatlantico definibile come tale, il megalomane Great Eastern, erano progettate per resistere anni e anni, milioni di chilometri in mezzo al peggiore oceano della Terra, l’Atlantico, a disgrazie come uragani e tifoni, avevano il doppiofondo, le paratie stagne e insomma non avevano paura di niente e di nessuno, a parte gli iceberg.

Dici niente

Ma anche lì, per dirne una, il Titanic dopo una botta senza eguali impiegò la bellezza di due ore e mezza ad affondare, tanto di cappello. Diciamo anche che il capitano Smith correva a 21 nodi in mezzo ai ghiacci nonostante i ripetuti avvertimenti di altre navi; che egli stesso l’anno prima aveva quasi fatto fare la stessa fine alla nave gemella Olympic contribuendo a causare un incidente nel canale del Solent con l’incrociatore HMS Hawke che la speronò gravemente; e che il vergognoso epilogo in termini di vite umane della vicenda è da imputare più a una serie infinita di negligenze e alle normative di sicurezza piuttosto “rilassate” dell’epoca più che a errori di progettazione. Basti pensare che un qualunque traghetto moderno, come dimostrerà ben 80 anni dopo la fine dell’Estonia, affondato in pochi minuti a causa di una tempesta, è ben più pericoloso, non essendo diviso in compartimenti stagni (se no le auto non ci passano).

Tornando a noi, senza fare troppo i nostalgici diciamo però senza tanti giri di parole che le navi da crociera odierne hanno un senso di esistere ben diverso: imbarcare quanti più vacanzieri possibile e fargli fare le stesse cose che farebbero in un villaggio turistico sulla terraferma, cioè mangiare, dormire, fare la sauna e annoiarsi. Non se ne fanno niente della velocità. Il più delle volte girovagano per il Mediterraneo in mezzo a qualche isolotto mentre i loro passeggeri fanno le parole crociate sulla sdraio. Per tutto il resto c’è l’aereo. Per questo le nuove navi sono diverse: più lente, visibilmente meno dinamiche e anche un po’ goffe. A volte non sembrano neanche navi.

Norwegian Epic, non l’esempio di design più riuscito

Ma c’è una eccezione. C’è una compagnia di crociere che si distingue dalle altre se non altro per un discorso di marketing e di stile, le cui navi erano e sono immediatamente distinguibili per lo scafo dipinto di nero sopra la linea di galleggiamento e di rosso sotto; scelta un tempo dettata da esigenze estetiche, quando i transatlantici andavano a carbone, cent’anni fa: dato che il combustibile era caricato a bordo attraverso dei portelli sulle fiancate, sul nero si vedeva meno la fuliggine; oggi un vezzo estetico, perché la compagnia punta molto sul fattore nostalgia. Questa compagnia è la Cunard Line. Un tempo era acerrima rivale della White Star, la quale aveva passato qualche difficoltà finanziaria dopo il naufragio del Titanic e del Britannic, poi se l’è comprata direttamente ed è felicemente sopravvissuta ai giorni nostri. Il curriculum include nomi come la Queen Mary e le Queen Elizabeth I e II.

La prima fu a suo tempo detentrice del prestigioso record del Nastro Azzurro ed è oggi ormeggiata a Long Beach, California, ospitando musei e ristoranti.

La seconda, varata nel ’38, rimarrà con i suoi 314 metri di lunghezza la più grande nave passeggeri per altri 56 anni, perfino dopo la sua demolizione, avvenuta in seguito al suo incendio e naufragio a Hong Kong nel 1972. Il suo destino, insomma, è stato simile a quello del Great Eastern: un leviatano talmente enorme e avanti coi tempi che rimase unica anche dopo la fine della sua carriera.

QUEEN ELIZABETH, CHERBOURG, 1966
Perché anche i migliori non sono infallibili.

La terza, un po’ più piccola, ha un altro primato: è la nave più chilometrata della storia; durante la sua carriera ha percorso 5 milioni e 600mila miglia nautiche, pari a 10 milioni e 370mila chilometri. Quasi quanto una Volvo 240. Entrata in servizio nel ’69, dal 2008 è ferma a Dubai ed attualmente svolge il compito di albergo galleggiante. Anche la capacità del bagagliaio è quella.

Facciamo ora un salto temporale fino all’inizio del terzo millennio; molte grandi compagnie di navigazione da quando esiste il Boeing 747 hanno chiuso i battenti e svenduto i loro transatlantici grandi e piccoli ad agenzie. Le navi più vecchie sono state vendute a peso e demolite mentre le più recenti, come l’Achille Lauro, convertite; comincia ufficialmente l’era delle città galleggianti, edifici su acqua senza nessuna velleità velocistica o “utilità pratica” propriamente detta, insomma delle specie di SUV dei mari. Si assistono a trasformazioni curiose come quella della Costa Allegra, quella famosa per aver preso fuoco un anno dopo il disastro della Concordia, un singolare esempio di nave mercantile adattata alle crociere ma che tradisce ancora le sue origini a causa della riconoscibilissima “torretta” avanzata con la plancia in cima.

Un’altra conversione degna di nota è quella del transatlantico Stockholm, oggi in servizio come Astoria; è famosa per due motivi: il primo, è la nave della sua tipologia più vecchia attualmente navigante, varata nel ’46; il secondo, più noto, la sua prua rompighiaccio la sera del 25 luglio 1956 aprì letteralmente in due la fiancata dell’Andrea Doria condannandola.

In mezzo a tutto questo marasma, il transatlantico propriamente detto, totalmente differente dalla nave da crociera dal punto di vista tecnico e strutturale, sembra destinato a scomparire; chissà in base a quali previsioni, indagini di mercato, idee di marketing all’inizio del terzo millennio i vertici aziendali della Cunard decisero, dopo decenni, di costruirne uno ex novo prevedendo di riprendersi negli anni un investimento immane, ma il tempo diede loro ragione. Fosse solo una nave nuova: la volevano più grande di qualsiasi altra precedente e all’ultimo grido a livello di tecnologia. E, soprattutto, doveva essere costruita con uno spirito ormai dimenticato, lo stesso con cui i cugini a stelle e strisce avevano varato l’United States, che divorava l’intero Oceano Atlantico in 3-4 giorni.

Affidato il compito di dirigere il progetto all’architetto navale Stephen Payne e quello di costruire la nave ai celebri Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire in Francia (che poi appartengono ad Alstom), il 4 luglio 2002 viene posata la chiglia dello scafo n. G32. Dopo alcuni mesi di saldature, taglio lamiere e sudore (e sangue) da parte di tremila operai, lo scafo nudo e crudo viene varato il 15 novembre 2003 e trasferito nel bacino di carenaggio C, quello che una volta si usava per le petroliere (per dire); qui terminò l’allestimento della nave che nel settembre successivo sostenne le prove in mare.

Prima, ai lettori più fedeli del nostro sito sarà venuto in mente un evento che abbiamo menzionato nell’articolo del Great Eastern, e che riportiamo a titolo di cronaca: in occasione di una visita organizzata per le famiglie dei lavoratori del cantiere, una delle passerelle d’imbarco alla nave cedette, provocando la morte di 16 di esse e il ferimento di altre 35 dopo un volo di 15 metri. Non un inizio di carriera così brillante per la nostra nave, contando che nel nostro millennio le norme di sicurezza si presuppongono progredite. Per fare un raffronto, durante la costruzione del Titanic perirono “solamente” sei persone, in un’epoca in cui se parlavi di D.P.I. ti guardavano e ti dicevano “cos’è, si mangia?”. Poi sulla leggenda dei rivettatori del Great Eastern sorvoliamo, perché abbiamo già scritto che sembra una palla fotonica.

Il viaggio inaugurale avvenne infine senza intoppi il 12 gennaio 2004 da Southampton a Fort Lauderdale.

Per questioni di sanità mentale, vi risparmiamo  un po’ di discorsi sul numero di piscine, bar, ristoranti, bocciofile, campi da squash e altre amenità che caratterizzano questo tipo di nave; ci limitiamo a spendere due parole sul design della nuova Queen Mary II.

Esteticamente non nasconde di non essere una nave da crociera qualunque. Non sembra più un condominio con le eliche a cui siamo così abituati, ma è filante, equilibrata, quasi quanto le navi di un tempo. La tradisce lo sviluppo verticale delle sovrastrutture, ma compensano la plancia arrotondata, il cui disegno è forse il tratto distintivo della nave, la “coda” spiovente e le inconfondibili fiancate nere dello scafo (come detto, per ragioni puramente estetiche).

Gli interni riflettono questo stile “vintage”; eviteremo anche di sprecare l’uso dell’aggettivo “lussuosi”, perché dove l’avete mai vista una nave da crociera coi mobili dell’Ikea (che poi non sarebbe neanche un’idea cattiva), ma lasciamo che la cosa venga spiegata da delle immagini; ci limitiamo a dire che le finiture riflettono volutamente lo stile Liberty dei transatlantici dei tempi perduti, diremmo anche con un certo buon gusto.

La classica scalinata principale in stile “Jack & Rose”
Un immancabile casinò
Un corridoio minimalista
Il grande ristorante Britannia al centro

Ah, ci siamo dimenticati di dirvi che è lunga 345 metri, e che da nuova era la più grande nave passeggeri al mondo, che guardando tutto assieme forse è la cosa meno folle. Per fare qualche solito raffronto:

Ma passiamo alle cose serie: andiamo dal capitano e domandiamogli se ci lascia sbirciare in sala macchine.

La stragrande maggioranza delle grandi navi odierne adotta una propulsione di tipo diesel-elettrico. La nostra amica non fa eccezione, ma ha una caratteristica, che nel 2003 non era ancora comune.

Le navi tradizionali hanno una velocità minima al di sotto della quale non riescono a governare, che si attesta sui 7 nodi, circa 15 km/h. Quasi tutte hanno due o più eliche azionabili a diverse velocità e quelle di manovra anteriori, utilizzabili solo a nave ferma o quasi, ma questo non basta a renderle abbastanza agili e maneggevoli in porto, dove vanno effettuate manovre di una certa precisione, spesso in presenza di vento. Questo e altre mille ragioni richiedono la presenza dei rimorchiatori, che hanno il compito di spingere o trainare questi colossi, in una perfetta coreografia tra gli equipaggi e il pilota portuale. Gli errori non sono permessi, una nave che si muove, per quanto piano, è un disastro ambulante lungo centinaia di metri, una bomba a orologeria. Il porto è quel genere di posto dove se vi lagnate che all’esame di guida vi hanno fatto fare un parcheggio a S vi guardano male. Ogni tanto ci penso: a questo mondo ci sono i comandanti dei rimorchiatori e poi ci sono quelli che ordinano la Smart nuova con sensori e retrocamera. Bah. Torniamo a noi.

Per risolvere gran parte del problema, fin dagli anni ’50 diverse aziende sperimentarono l’utilizzo di eliche azimutali, cioè orientabili attorno ad un asse verticale, per meglio direzionare la spinta nei 360 gradi. In questa maniera la nave diventa in grado di effettuare manovre di precisione. Viene da sé che la trasmissione non è delle più semplici, soprattutto nelle varianti meccaniche dove le stesse sono fisicamente collegate ai motori. Il salto di qualità lo fece ABB negli anni ’90 con la presentazione del suo Azipod, che integra nella “navetta” dell’elica il propulsore stesso (prima situato nello scafo). L’idea di mettere a bagno il motore, non scontata, si è rivelata vincente: intanto per un discorso di raffreddamento, e credo che fin qua ci siamo; poi per un discorso di trasmissione, che è – ovviamente – molto più semplice che in un sistema meccanico: al posto di un albero motore c’è un cavo elettrico. Infine per un discorso di spazio, perché i motori stanno in mare e non più in barca. Non bastasse questo, poter orientare e modulare la spinta di ciascuna elica a piacimento rende praticamente inutile il timone tradizionale.

I propulsori integrati tipo Azipod, come detto, nel 2003 erano qualcosa di abbastanza avveniristico; per la Queen Mary II vennero scelti i Rolls-Royce Mermaid, sviluppati con Kamewa e Alstom (e oggi risultanti a catalogo Wartsila), in numero di due fissi e due orientabili, per una potenza combinata di oltre 85.000 kW. Non sono i 180.000 dell’SS United States, ma bastano e avanzano per farle raggiungere comodamente i 30 nodi, praticamente una volta e mezza una qualsiasi nave da crociera odierna. Completano la dotazione tre eliche di manovra da 3.200 kW all’anteriore, rendendo la nave capace di ruotare completamente su sé stessa, caratteristica questa che le torna particolarmente utile ogni volta che arriva a Southampton, dove deve girarsi di 180° nel canale del Solent (quello che separa il continente dall’isola di Wight).

I muscoli della nave. Notare l’assenza del timone (non raccontiamo balle)
Questa invece è un’elica azimutale meccanica di un’altra nave che, come potete osservare, non ha la gondola del motore, ma è visibile l’alloggiamento dell’albero di trasmissione che finisce in sala macchine

Questa tecnologia, come tutte quelle innovative e ancora non così collaudate, non fu esente da problemi. Le tenute delle eliche tendevano a trafilare, dunque l’acqua salata provocava il guasto dei cuscinetti degli alberi delle eliche, con conseguenze quantomai scomode. Questo problema sarà ricorrente per i primi anni di esercizio della nave, che necessiterà di diversi periodi di fermo all’asciutto per manutenzione straordinaria, con diversi tentativi di riprogettazione. Comunque, ci risulta che queste rognette di gioventù si siano risolte, complice un contenzioso in tribunale.

Ovviamente, tutti questi motori elettrici vanno in qualche maniera alimentati; tale compito è affidato a una combinazione di quattro generatori diesel Wärtsilä 16V46CR (16 cilindri a V, 46 centimetri di alesaggio, iniezione Common Rail) a 16 cilindri, cilindrata 1.542.400 cc, eroganti un totale di 67.200 kW,

tipo questo

e due turbogas General Electric che ne forniscono ulteriori 50120. Sempre per fare un paragone, la Wonder of the Seas, ben più grande e quindi si presuppone più esosa in termini di consumi anche dovuti ai servizi, ha una potenza installata totale di 93.000 kw, ben inferiore. Questa soluzione consente di sfruttare i vantaggi di entrambi i sistemi; le turbine lavorano con un rendimento ottimale solo ad un regime prossimo a quello di potenza massima, mentre i generatori tradizionali, meno efficienti in senso assoluto, rendono bene ad una gamma di velocità più ampia. Ne consegue che le prime vengono sfruttate per la navigazione alle alte velocità, i secondi per le manovre in porto o per alimentare i servizi a nave ferma. Le turbine non sono situate nella sala macchine assieme ai quattro generatori, bensì esattamente sotto al fumaiolo, dove le prese d’aria sono più comode. Questo perché un turbogas (altro spiegone) deve funzionare in eccesso d’aria: se viene alimentato secondo il rapporto stechiometrico del suo carburante (14-16:1), le temperature di esercizio teoriche superano 2500°C (dico teoriche perché fonde prima); dunque, questo sistema viene alimentato con una quantità d’aria più che doppia (50:1), in modo da contenere le temperature su un valore umano di 1500°C. Buona parte dell’aria bypassa la camera di combustione, raffreddandola. Pertanto, essendo particolarmente avido d’aria un’eventuale sistemazione in sala macchine (come in altre navi) richiederebbe un circuito di alimentazione ingombrante.

Degni di nota infine i tre impianti di produzione dell’acqua potabile, che sono in grado di demineralizzare fino a un milione di litri di acqua marina al giorno. (Ne servirebbe uno anche a Bologna, dove dai rubinetti esce il ghiaino. Gli elettrodomestici della città stanno organizzando una rivolta armata). Funzionano vaporizzando e condensando l’acqua grazie al calore prodotto dagli impianti di raffreddamento dei motori e delle turbine. Due caldaie sono in grado di svolgere questo compito quando la nave è ferma e dunque la maggior parte delle unità sono spente.

Insomma, questa bagnarola ha le carte in regola per ritenersi una spanna sopra a tutte le altre, anche adesso che ha già una ventina d’anni sul groppone. In più occasioni ha svolto crociere attorno al mondo intero. Dal 2008 è ufficialmente l’unica nave al mondo ad operare collegamenti transatlantici. Spulciando sul sito della Cunard, scopriamo che il classico viaggio Southampton-New York di 7 notti ad oggi parte da 849 sterline, che non è una cifra così esosa per una settimana di fancaz… ehm, di relax, con in più il fatto che ti portano a New York. Avendo due lire da parte, non sarebbe neanche una cattiva idea andare giù in nave, fermarsi una o due settimane lì e poi tornare in aereo. E qui si apre una questione etica non da poco, da affrontarsi con sangue freddo e razionalità, tutto il contrario del mischione di negazionismi, ecoansie e insulti che c’è in giro. Siamo essere “pensanti”, abbiamo delle sinapsi neuronali: usiamole.

Il problema dell’aereo è che lo prendiamo anche per andare al gabinetto (la stragrande maggioranza dei voli sono a corto raggio della durata di un paio d’ore; possiamo rendercene conto aprendo FlightRadar in un grande aeroporto a caso e osservando la quantità di 737-800 di Ryanair e di A319 di Easyjet che partono e arrivano) ma di per sé non è un mezzo così inefficiente. Vero che i costi abbordabili dei biglietti sono in gran parte permessi dal fatto che il carburante è praticamente esentasse, ma, sempre come abbiamo già scritto, le navi sono autorizzate a bruciare delle schifezze immani e quindi siamo pari. Rendiamoci quindi conto che la colpa non è dei mezzi in sé; è della loro destinazione d’uso. La nave inquina, ma se la usi per spostarti, cosa che accade oggi a malapena coi traghetti, non è la stessa cosa di adoperarla per girare in tondo attorno a un isolotto. L’aereo inquina, meno della nave, ma una cosa è dover andare a Parigi che ci arrivi comodo in treno e un’altra a New York; lo stesso si può dire dell’automobile privata, che, indispensabile e comoda per alcune mansioni, o anche utile per divertirsi, il più delle volte soffoca le grandi città perché utilizzata soprattutto per brevi spostamenti, anche dove i trasporti pubblici funzionano; e così, anche chi sceglie, per comodità, coscienza o motivi economici di circolare in bicicletta si ritrova a schivare le auto parcheggiate sulle ciclabili con le quattro frecce di gente che deve soddisfare la propria impellente e irrinunciabile necessità di bere un caffé al bar,

poco male se qualcuno rimane investito e muore, mamme che accompagnando il figlio a scuola se non entrano nell’aula col SUV non sono contente e in generale persone che per spostare sé stesse per 4 chilometri da casa al lavoro o all’università devono occupare, quando va bene, 4 metri per 1,5 di suolo urbano.

Insomma, forse il discorso non vale solo per le navi. E siccome ogni tanto qualche bella macchina la fanno ancora, e non manchiamo mai di parlarne, ci è sembrato giusto scrivere anche di lei, perché non è solo grande, rifinita e per avere vent’anni tecnologicamente avanzata, è anche veloce e piacevole alla vista, proprio come una volta. Quindi, finché c’è, godiamocela, anche solo con lo sguardo.

Il passaggio sotto al Golden Gate Bridge di San Francisco avviene per appena dieci metri, occhio alle corna
Due epoche diverse: in primo piano la Queen Elizabeth 2, l’unica altra nave definibile come transatlantico che abbia mai fatto compagnia alla Queen Mary 2 fino al suo accantonamento
Altro incontro avvenuto questa volta a Liverpool nel 2015 con le più recenti Queen Victoria e Queen Elizabeth. A titolo di cronaca, se non vi tornano i conti, sono esistite tre Queen Elizabeth: la I che è quella enorme naufragata, la II che è quella che ha fatto strada, e poi di nuovo la I, gemella della Victoria, in questa immagine; quest’ultima non è classificabile come transatlantico.

Articolo del 29 Novembre 2023 / a cura di Francesco Menara

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  • Anacleto Giorgini

    Piacevole, approfondito e frizzante

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