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Lear Steam Vapordyne, la folle auto da corsa… a vapore

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America, fine anni 60: in un tranquillo ufficio in Nevada un gruppetto di ingegneri sta scarabocchiando linee e calcoli su delle cartografie blu, accompagnati da un sottofondo silenzioso di sorseggiamenti di caffè e fogli che si spostano.

All’improvviso un boato.

Nella stanza si solleva un polverone, alcuni fogli svolazzano per la stanza e nella confusione generale si materializza sulla porta appena sfondata un uomo immobile ed impassibile.

Passano 3 secondi buoni di disorientamento prima che quest’ultimo esclami:

“OK SIGNORI, HO UN’IDEA” –

Tutti si scambiano sguardi confusi non capendo che diamine stia succedendo, quando l’uomo tuona nuovamente:

– “PARTECIPEREMO ALLA 500 MIGLIA DI INDIANAPOLIS PROGETTANDO UNA FORMULA INDY INTEGRALE CON UN MOTORE A VAPORE TRIANGOLARE A 12 CILINDRI DA 1000 CAVALLI” –

 Nel giro di pochi secondi tutti riconoscono la figura, sorridono, si scambiano sguardi di approvazione e qualcuno dal fondo della sala esclama “figata atomica Bill, facciamolo!”.

Quel Bill era Bill Lear e non era di certo una persona comune: imprenditore milionario con più di 120 brevetti, fondatore della Lear-jet (una delle prime aziende a costruire jet per privati), cofondatore di Motorola ed inventore dei sistemi di decollo e atterraggio automatici.

il vulcanico Lear

Una personalità eclettica, fuori dagli schemi, figlia di anni audaci e decisamente folli. Giusto per dare l’idea del personaggio vi basti sapere che chiamò una delle sue figlie “Shanda“, letteralmente un modo di dire disgrazia, e che nei suoi uffici era sempre presente un parrucchiere aziendale ma nessun orologio alle pareti.

Nonostante la genialità e l’arguzia sugli investimenti, il suo conto in banca oscillava vertiginosamente di giorno in giorno così come il suo equilibrio mentale. Lear era inarrestabile e traeva piacere nello scontro con le sfide tecnologiche che il mercato gli metteva in faccia, ma dopo la vendita della Lear-jet verso fine anni 60 divenne uno stabilmente ricco, realizzato ed annoiatissimo imprenditore con tendenze suicide (tanto che la moglie arrivò a sventare un suo tentativo di un volo di sola andata verso l’oceano Pacifico).

Dopo un reale faccia a faccia con la morte per colpa di problemi cardiaci, Lear capí che per uscire dal vortice di una inevitabile depressione aveva bisogno di un nuovo progetto. Non un semplice hobby da comune mortale, ma qualcosa di rivoluzionario. A questo scopo gli venne in aiuto Ken Wallis.

Wallis al volante della Shelby a turbina

Chi era Wallis? Un altro matto, un ingegnere inglese estremamente audace, una di quelle persone che promette miracoli credendo davvero di saperli fare e che in più riesce pure a convincere gli altri che sono fattibili.

La sua personalità estroversa spingeva le persone a fidarsi nonostante le sue idee stravaganti, i suoi discorsi erano al limite del realistico ed il suo passato in Coventry Climax, Ferrari e Jaguar erano un ottimo biglietto da visita.

Emigrato in America per un posto di lavoro in Douglas (d’altronde se sai fare auto perché non fare aerei?), da vero suonato di motori entrò in contatto con le figure principali del mondo Indycar ed in quattro e quattr’otto le convinse delle potenzialità di una vettura a turbina per vincere la Indianapolis 500.

Ho già detto che aveva idee stravaganti?

Detto-fatto, grazie ad Andy Granatelli, Wallis presentò in griglia di partenza alla Indianapolis del ’67 la Stp-Paxton Turbocar, una formula Indy motorizzata da una turbina a gas con cui sperava di potersi accaparrare l’attenzione di Shelby e Goodyear.

il team Stp con la Turbocar ed un outfit per nulla pacchiano

Poco dopo aver ottenuto la collaborazione con Shelby venne però a gallache sviluppando la nuova auto Wallis aveva inserito nel nuovo progetto talmente tante infrazioni al regolamento che, una volta denunciate, gli costarono un calcio nel sedere da parte di Shelby, oltre a vedere il proprio nome infangato e l’intera carriera rovinata.

la Shelby a turbina, notare il coperchio del bidone della spazzatura a fianco del pilota che chiude lo scarico del motore

Senza più un soldo, seguendo la logica del “se non lo chiedi, nessuno te lo darà“, l’ingegnere inglese si presentò in uno degli uffici di Lear con la faccia tosta di chiedere un prestito per comprare uno yatch da corsa. Era sicuro di ricevere un altro calcio ma la situazione prese una strada inaspettata.

Lear aveva pensato per mesi al suo progetto anti-depressione e grazie alle recentissime accuse ambientaliste contro i giganti dell’industria automobilistica americana era giunto alla conclusione che il suo progetto, così come il futuro, sarebbe stato green.

Quando Ken Wallis, faccia ormai conosciuta ai più, entrò nel suo ufficio a fine del 1968 Bill non si lasciò scappare l’occasione.

-“Salve signor Lear, a me servono soldi per uno yatch da cors… per una barca.”

 -” E a me signor Wallis serve un ingegnere per il mio prossimo progetto pseudo-ecologico”

 -” Che ne dice di una formula Indy con…

-“NO!!

-“Con… con un motore a vapore?”

-“Eh?! SIIIII!”

Wallis uscì da quell’ufficio con un contratto e Lear finalmente aveva il suo obiettivo: la Lear Steam Vapordyne.

Con un investimento spropositato ed una velocità disarmante, a Natale dello stesso anno la Lear Motors assunse più di 130 progettisti e 300 addetti per la realizzazione della Vapordyne. Sede di lavoro la base aerea in disuso di Reno, nel bel mezzo del deserto del Nevada, che Lear aveva comprato qualche anno prima per sfizio.

Si insomma, un bel parco giochi

In un clima di totale entusiasmo, libertà ed effervescenza, gli obiettivi cominciarono a diventare quasi deliranti: come se vincere la Indianapolis 500 con una vettura a vapore non bastasse, Lear e Wallis si promisero di costruire anche la prima auto commerciale a vapore, il primo autobus a vapore, un fuoristrada e anche una Learmosuine (avete letto bene, non una limousine, una Lear-mousine).

– poi qualcuno l’ha fatto davvero e ha messo assieme la Limo Jet

Bud Graze, uno dei project designer di questa impresa ricorda:

– “Ho lanciato satelliti dalla Russia e sono stato uno dei tecnici strutturali dell’SR71 blackbird senza nemmeno saperlo, ma é stato lavorare con Bill Lear ed il suo gruppo che mi ha cambiato la vita. Ho usato quel periodo come il migliore con cui poter confrontare i miei successivi impieghi. Wallis era mal visto da molta gente perché si comportava come il più abile dei truffatori. Ha causato non pochi problemi a Lear, ma era sicuramente la principale forza trainante del progetto. Le sue idee erano strane, però funzionavano ”

La Vapordyne, settimana dopo settimana, prendeva forma

L’intera macchina riprendeva il “Wallis look“, ovvero lo schema adottato anche dalla STP Turbocar: scocca larga e pilota decentrato sulla destra, con l’unica differenza che al posto della turbina Pratt & Whitney della STP, nella Vapordyne era presente un enorme boiler di quasi 2 metri per 70 cm di diametro, composto da una serpentina infinita di tubi di acciaio attorno cui bruciava kerosene nebulizzato e che in futuro avrebbe teoricamente permesso l’utilizzo di qualsiasi carburante in un’ottica ecologica.

Il telaio dell’auto era un traliccio portante di tubi di acciaio e costituiva una scocca a sezione rettangolare mastodontica dentro cui dovevano stare, oltre al boiler, anche il pilota, la trazione integrale (volevamo farcela mancare?), il motore, un’intera Power Unit ausiliaria e i giganteschi radiatori del sistema di ricircolo del vapore.

Per la trazione integrale l’intero assale posteriore venne specchiato da quello anteriore, entrambi con un differenziale Halibrand alla cui uscita c’erano 2 dischi autoventilanti in configurazione inboard.

Se già non fosse pazzesca l’idea di un auto da corsa a vapore, il progetto del motore andava pure oltre. Cuore dell’intero progetto e posizionato dietro le spalle del pilota, era un 12 cilindri di 2600 cc trialbero con disposizione a delta e pistoni contrapposti, uno schema rubato dal famoso Napier Deltic e riadattato per l’occasione per il funzionamento a vapore.

12 cilindri a Delta a vapore, cosa potrebbe mai andare storto?

Con una potenza auspicata di 1.000 cv (successivamente ridimensionati a 600), al suo interno girava un distributore rotante che aveva il compito di alimentare i cilindri con tutta la pressione del vapore che il boiler riusciva a generare, motivo per cui, come in un motore elettrico, la coppia massima era ottenibile istantaneamente anche da motore fermo rendendo inutile l’utilizzo di un cambio.

Il sound? A detta dei pochi fortunati che lo sentirono semplicemente inimitabile! Una sorta di v12 silenzioso su cui prevaleva il suono metallico degli organi in movimento.

Il tutto era alimentato da un sistema pressurizzato che attraverso un impianto di condensazione recuperava il vapore sotto forma liquida per permettere un loop infinito liquido-gas-liquido, ottenendo così un ciclo Rankine.

Per non sprecare nulla, la power unit ausiliaria posta vicino alle ginocchia del pilota (ed alimentata da parte del vapore del sistema) immetteva in un circuito idraulico parallelo l’olio dei freni, arrivando ad alimentare l’alternatore, le diverse pompe ed il “soffione” del boiler.

Complesso, grosso, pesante… fighissimo, Americano.

Come potete immaginare, inserire tutto questo in una formula Indy non fu facile e le dimensioni dell’auto ne risentirono. Oltre alla lunghezza esagerata (quasi un metro più lunga della più massiccia tra le rivali), il peso in ordine di marcia era talmente elevato che, per nascondere un po’ di polvere sotto al tappeto, non fu mai dichiarato.

Per non farsi mancare nulla, Lear contattò niente di meno che Jackie Stewart per proporgli di fargli da pilota ufficiale della sua pazza vettura. Lo scozzese, in quel momento in Svizzera e da sempre con il pallino di vincere almeno un campionato Indy, rimase esterrefatto e incuriosito dal progetto.

Persuaso dall’eccentricità di Lear, Stewart volò dall’altra parte del mondo fino a Los Angeles, dove lo aspettava un secondo volo che lo avrebbe condotto direttamente a Reno nello stabilimento della Vapordyne.

A neanche un mese dal primo incontro, Lear e Wallis si ritrovarono con uno dei piloti di F1 più acclamati al mondo seduto sul manichino della loro vettura, pronto a fargli da pilota e tester ufficiale.

A detta di Stewart stesso, venne riaccompagnato a Los Angeles tramite un Learjet pilotato da Lear, che durante il volo eseguì un barrel-roll esclusivamente per mostrare al campione di F1 le capacità del suo aereo e fare un po’ lo sborone. Altri tempi.

un drink Jakie?

Tuttavia le cose cambiarono in fretta: nel mondo ingegneristico vige da sempre in forma riadattata la legge di Murphy:  “se può dare problemi, darà problemi” e nel caso di un motore da 1.000 cv costruito su dei principi di fine ‘800 le cose che potevano dare problemi erano infinite.

Lear e Wallis accanto al loro problematico nascituro

Lear spendeva ufficialmente 350.000 dollari a settimana per lo sviluppo della Vapordyne, ma questi soldi non facevano altro che rendere più dispendioso il duro confronto con la termodinamica: i 1.000 cv auspicati erano un valore utopico che si basavano solo sulla speranza di ottenere una pressione dell’impianto di 69 bar a 540 gradi, un risultato irraggiungibile con la comune acqua.

La soluzione? Semplice, un nuovo liquido, Il Learium. Se non lo aveste capito Lear aveva la mania di mettere il suo nome ovunque.

La sua speranza di ottenere un liquido che aggirasse i limiti fisici dell’acqua lo portò ad assumere un intero team di scienziati da mettere subito al lavoro, i quali ottennero prima il Learium A (in pratica del comune Freon) e successivamente il Learium B (un liquido simile all’attuale antigelo), nessuno dei due con dei reali benefici.

Dave Norton, un altro ingegnere del progetto dichiarò:

– “Il Learium? Bah… L’ultimo tentativo venne chiamato “D-learium” (assonanza in inglese di “delirio”. Ndr) perché la realtà era che non esisteva nessun liquido magico. Era un grattacapo termodinamico, una utopia che si sperava di rendere realtà, ma si sa che i miracoli non esistono e alla fine tutti i test li facemmo con semplice acqua”

pare bono sto Learium!

Come se non bastassero già i limiti termodinamici, subentrarono anche enormi limiti meccanici.

Le torri di condensazione erano sottodimensionate così come lo erano i radiatori necessari al loro funzionamento (nonostante fossero già giganteschi). Il distributore rotante del monoblocco, elemento tremendamente delicato da cui dipendeva l’intera potenza del motore, non riusciva ad avere una tenuta costante che permettesse di mantenere una pressione elevata in camera. Il limite più grosso di tutti, però, era la mancanza di dati sperimentali utili a calcolare le giuste tolleranze dei pistoni per un funzionamento a pieno regime.

Per ovviare al primo problema, almeno durante la fase di sperimentazione del motore, il boiler venne sostituito da una cisterna pressurizzata delle dimensioni di un camion (se non funziona, fallo più grande), ma la scarsa tenuta del distributore faceva segnare ad ogni prova al banco un massimo di 100 cv scarsi (un decimo di quanto avrebbe dovuto dare in teoria) appena prima che i pistoni in acciaio grippassero sulle canne in ghisa.

GNIIIIIIGNGNGIIIK!!!

Parole sempre di Fraze:

– “Non avevamo molta potenza, ma di coppia ne avevamo a badilate. Ci divertiamo a vedere gli alberi del banco prova torcersi come bastoncini di liquirizia” –

adesso rompete pure questo eh!

La coppia però non fu abbastanza per Lear, che a marzo del ’69, dopo appena 3 mesi di lavoro, cominciò a perdere tutta la pazienza e la speranza deposta nel progetto nonostante l’auto fosse ormai completata.

Dopo intere settimane di sperimentazione e di miglioramento del sistema di condensazione si erano raggiunti regimi e pressioni elevatissimi stabilendo un nuovo stato dell’arte per motori a vapore. Ma ancora nessuno aveva capito quale fosse la modalità di espansione termica dei pistoni nei cilindri, i quali portavano a grippaggi improvvisi e violenti.

Dopo vari preparativi venne organizzato un primo weekend di test su asfalto. L’auto tanto per cambiare grippò dopo mezza giornata di prove.

Il lunedì seguente molti ingegneri arrivarono a lavoro scoprendo che Lear aveva appena liquidato il progetto così come il loro reparto, segnando ufficialmente la perdita di 2 milioni di dollari dell’epoca (circa 15 milioncini di dollari attuali).

Furbo come una faina, Wallis abbandonò la barca poco prima che affondasse, ma non ci mise molto a trovare un nuovo ricchissimo investitore per le sue stravaganti idee. Questo, però, é materiale per un altra storia.

Senza più speranze, Lear ammise il fallimento. Una scelta tanto drastica, però, fatta da un uomo così tenace da essere stato capace di presentarsi a lavoro dopo aver avuto un infarto, non poteva essere priva di motivazioni. Tra tutto, per colpa del ritardo di progettazione, gli accordi presi con Stewart non vennero rispettati, precludendo la possibilità di avere il supporto del pilota, ma la vera causa del perché il progetto andò a monte fu un altra.

All’inizio dell’avventura nessuno diede peso alla possibilità che la Usac, l’ente preposta a stilare i regolamenti per il campionato Indy, potesse inserire una regolamentazione sui motori a vapore. Quando a gennaio del ’69 quest’ultima espresse il desiderio di poter vedere in azione la Vapordyne per un aggiornamento del regolamento, Lear capì che anche se si fossero risolti i problemi principali, sarebbe stato solo l’inizio di un massacro e decise di deviare tutti i suoi investimenti sul progetto dell’autobus a vapore (mezzo che riuscì per davvero a fare qualche km su strada) e su altre idee avviate.

Il progetto Vapordyne non era però morto del tutto. Il prototipo era quasi ultimato e, nonostante la certezza di un futuro senza gare, avrebbe dovuto partecipare all’esposizione del New York Auto Show nell’Aprile del ’69.

Norton raccontò pure:

“Nonostante le perplessità, in molti speravano ancora che il progetto potesse essere ripreso per la stagione successiva. Per l’esposizione di New York, dato che il tempo correva, venne riassemblata l’auto in poche ore con una scatola di sterzo MG temporanea e 2 ali anteriori per renderla più corsaiola. Belle ma completamente inutili. Quando fu il momento di fare uscire l’auto dall’officina uno dei meccanici svoltò a destra e l’auto andò a sinistra sbattendo rovinosamente contro un muro. Per la fretta avevano montato la scatola di sterzo al contrario.”

Lear aveva saputo battere i grandi costruttori di aerei in casa loro con la Lear-jet, ma dovette rinunciare completamente al sogno della sua auto a vapore da corsa. Tra un susseguirsi di teorie che gridavano al complotto contro la “rivoluzionaria mobilità al vapore“, il progetto Vapordyne svanì nel nulla portandosi nella tomba una parentesi di follia ingegneristica dimenticata quasi da tutti.

In un finale inglorioso, però, si possono celare dettagli più poetici.

Secondo la testimonianza di uno degli ingegneri che per primi arrivarono in azienda una mattina durante le ultimissime fasi di test, l’auto venne ritrovata parcheggiata sulle sue ruote in un luogo diverso da dove era stata lasciata, visibilmente usata e meccanicamente funzionante. Tra le ipotesi venne suggerito che si fosse trattato di uno scherzo, ma la teoria più suggestiva e accreditata fu quella secondo cui uno dei garzoni di Lear l’avesse presa di nascosto di notte per fare un giro in solitaria nei dintorni.

Non é molto, ma almeno posso concludere lasciandovi immaginare la Vapordyne a tavoletta sotto un cielo stellato nel deserto del Nevada, una scena decisamente più romantica rispetto a quella dell’auto ammaccata contro un muro.

la Vapordyne oggi, restaurata come manichino

Comunque i motori a vapore sono tutt’altro che defunti: negli USA esistono parecchi club e associazioni e addirittura c’è anche una categoria “steam” per chi vuole correre sul lago salato di Bonneville

Articolo del 8 Marzo 2022 / a cura di Edoardo Arduini

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