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Ai 240 in scia ad una Porsche 935

Le due turbine iniziano a soffiare con le guance gonfie. Il rumore cupo, rauco e sordo del flat six di Stoccarda sale impetuoso. La macchina accelera con forza scaraventata in avanti dai suoi 800 cavalli vapore.

E io con lei.

Le mie gambe sono pistoni di acciaio che si muovono su e giù, pompano come dannate per farmi rimanere in scia a questa strana Porsche 935 e rimanere protetto dalla sua ombra miracolosa. Il rapporto è dannatamente lungo, ma pian piano la forza bruta dei quadricipiti vince l’inerzia e la mia bicicletta finalmente prende velocità. Tanta velocità, vedo il tachimetro salire, cento, centodieci, centotrenta… via, via, sempre più su, verso il record: 240 km/h in bicicletta.

Follia? No no, molto meglio: la realtà.


– notare la posizione delle marmitte della Porsche, per non sfiammare le gengive del buon Jean-Claude Rude –

Un salto indietro nel tempo, gli Stayer.

Per meglio comprendere questa storia dobbiamo fare un jump back in time, ritornando agli anni in cui il mondo era più sburone e nel quale avere la passione per la meccanica e le ruote non era una roba da reietti, anzi era una figata che poteva ancora regalare grasse soddisfazioni. Fino alla metà degli anni ’90 l’Italia è stata una fucina di tutto quello che ci appassiona oggi: aeroplani, auto, moto, motori e anche biciclette. Le aziende che nel tempo sono andate dimenticate dietro a qualche moda scema (cof cof food cof cof) sono a centinaia. La cultura tecnica su cui si basa l’Italia è stata sfanculata in nome di non si sa bene cosa, e con essa hanno chiuso aziende e luoghi che dovrebbero stare sui libri di storia: la Bugatti di Campogalliano, la Malaguti, l’Italjet, la Lancia, la OSCA di San Lazzaro e molte altre (alcune ancora esistono ma di buono hanno giusto il nome). Beh, quell’epoca è stata importantissima anche per le bici da corsa e da pista italiane, il cui leggero acciaio Columbus dominava le gare – sia su strada che sui parquet dei velodromi – di tutto il mondo.

– Rarissima foto del Direttore in sella alla sua Cinelli da pista del 1969, si dice saldata da Valsassina

Le vicende sono innumerevoli, c’è la storia di Tullio Campagnolo, che da Vicenza si inventò prima il cambio a bacchette e poi quello moderno, c’è quella di Francesco Moser e del suo record dell’ora, 51.151 km con una bici che sembrava passata sotto a un camion. Ci sono le immagini dei campionissimi che riempivano il Vigorelli di Milano come fosse San Siro, ricordi sbiaditi e rimasti negli occhi e nel cuore di una manica di appassionati che, con i tempi che corrono, andrà scomparendo in virtù di una non cultura che, come il Nulla che famelico inghiotte Fantàsia, avanza ogni giorno di più.

VA POR LA HORA!

– un ferro incredibile, design e velocità allo stato puro –

Bene, in quell’epoca di fantasia e sperimentazione, di coraggio e di voglia di sporcarsi le mani, i più veloci di tutti erano gli stayer, che correvano come pazzi in sella a particolari biciclette messe a punto per raggiungere la più alta velocità stando in scia – di solito – a motociclette. Il gioco era semplice: scendevano in pista – i famosi velodromi con le curve paraboliche – delle piccole moto pilotate da motociclisti che, a causa della forma stessa del manubrio, stavano con la schiena dritta dritta per offrire il massimo riparo possibile al ciclista che cercava così di raggiungere la più elevata velocità stando nella loro scia. Questa disciplina, conosciuta anche come mezzofondo dietro motori, prevedeva inoltre biciclette del tutto particolari: il telaio era un normale telaio da pista in acciaio con forcellini dritti, un solo rapporto (senza limitazioni) a scatto fisso e senza freni (le bici da pista non hanno i freni).

– immagine via

Per stare il più possibile vicini alla moto, la forcella anteriore veniva sostituita con una per una piccola ruota da 24 pollici e, attenzione, veniva montata al contrario, accorciando così ulteriormente la bicicletta. Niente di più, l’unica protezione per il ciclista che si trovava a pedalare come un frullatore a velocità prossime ai 70 orari sul del parquet che sento il bruciore alle ginocchia solo a pensarci, era un piccolo caschetto da motociclista.

Per poter raggiungere velocità il più elevate possibile, queste biciclette montavano rapporti da fuori di testa, con corone che spesso superavano i 70 denti mentre i pignoni in genere erano da 11 (con una pedalata si fanno oltre 13 metri, non male). La specialità del mezzofondo dietro motori è stata un must delle olimpiadi fino al 1995, quando venne definitivamente eliminata a favore di altre discipline.

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Uscendo però dai velodromi e dalle competizioni titolate, numerosi fulminati ciclisti cercarono di raggiungere le più alte velocità possibile in sella ad una bici: il primo a superare i 200 orari fu il francese José Meiffret quando nel 1962, in scia ad una bella Mercedes 300 SL, fece segnare i 204,778 km/h lungo un’autostrada tedesca. Questo primo record venne battuto dieci anni dopo dal medico americano Allan Abbott: in scia a una Chevrolet del 1955, quello che verrà poi soprannominato “The Flying Doctor” riuscì a pedalare fino a 223,466 km/h sul lago salato di Bonneville. 

Le prodezze di questi due squinternati, tuttora così folli e per questo affascinanti, colpirono anche la fantasia e l’ambizione del pistard francese Jean-Claude Rude, il quale decise che avrebbe raggiunto i 240 km/h facendo così segnare il record del mondo. Ad ogni costo.

L’entusiasmo e la voglia di spaccare tutto di questo giovane 23enne arrivarono a Henri Pescarolo, all’epoca – erano gli anni ’70 – all’apice della sua brillante carriera. La bici c’era, il ciclista pazzo c’era, il pilota per la macchina c’era. Cosa mancava? Ah, si, la macchina.

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Fu in questo momento che entrò in scena Porsche che mise a disposizione di Rude e Pescarolo una bella 935 da 800 CV, con livrea Martini Racing e un’inedita copertura posteriore che sembra quella per ospitare il papa e invece serviva per tenersi il ciclista in scia. L’aerodinamica dell’auto era così andata affanculo a remengo, ma gli 800 cv c’erano lo stesso e raggiungere i 240 non era quindi un problema. La macchina era infine acchittata con un rullo sul quale Rude poteva appoggiare la ruota anteriore della sua bici per stare il più vicino possibile alla belva di Stoccarda in tutta sicurezza.

Ora, i dettagli della bici sono da sbavo tanto quanto la Porsche: la corona aveva così tanti denti che con una sola pedalata la bici compiva 27 metri. VENTISETTE METRI! Il rapporto era così lungo che la bici era impossibile da far partire da fermo e per questo una moto dotata di una opportuna lancia spingeva Rude nelle prime pedalate fino a fargli vincere l’inerzia. Assurdo. A differenza inoltre di quanto si faccia di solito con quelle da pista, la bici di Rude, per quanto a scatto fisso, aveva un freno, utile per rallentare la folle corsa della bici senza veder rotule volare a centinaia di metri di distanza (ricorda: su una bici a scatto fisso, se gira la ruota posteriore, girano anche le tue gambe, sempre. Se pedali all’indietro, vai all’indietro con una bici a trazione anteriore).

Ora che tutto era pronto, si poteva scendere in pista: 23 agosto 1978, tracciato di prova della Volkswagen situato a Ehra-Lessien, Germania. La prova iniziò bene, Rude venne accelerato da una moto e, in scia alla Porsche pilotata da Pescarolo, iniziò ad accelerare. Tutto andava per il verso giusto quanto, a circa 175 km/h, il tubolare posteriore della bici (al posto dei moderni copertoncini, all’epoca si usavano i tubolari, particolari gomme “chiuse” incollate al cerchio con il mastice) si scollò dal cerchio, stallonandosi e infilandosi fra la ruota e il telaio. Una brutta bega se sei ai 30, figurati ai 170. Rude, che però non era uno sprovveduto – e a quanto pare era anche il suo giorno fortunato – riuscì a controllare la bicicletta e a fermarsi scivolando sul cerchio posteriore bloccato. Hai sfidato la morte una volta, ti ha fatto capire che è il tuo giorno fortunato, meglio smontare tutto e tornare a casa, no?

Venne montato uno pneumatico Michelin più resistente e la prova ricominciò, tuttavia anche questa volta Rude non ebbe successo, non era giornata. Peccato, alla fine l‘attacco al record venne mandato a monte e uno dei tentativi più spettacolari di raggiungere la massima velocità in bicicletta si concluse con un brutto spavento prima e un nulla di fatto poi.

Rude ci riprovò qualche tempo dopo mettendosi in scia ad un treno ma le turbolenze generate da quest’ultimo lo fecero cadere rovinosamente ferendolo a morte. Era il 26 marzo 1980 e, a 36 anni suonati (in tutti i sensi), Jean-Claude Rude moriva cercando di coronare il suo sogno di essere l’essere umano più veloce del mondo in sella ad un bicicletta. Meravigliosa follia, fotografia di tempi andati nei quali magari si rischiava di più ma se non altro si viveva per davvero. Se non è passione per la velocità questa, non sappiamo veramente cosa possa esserlo. Bici, aereo, moto o auto, l’importante è essere fuori come dei citofoni e vivere vite degne di essere raccontate.

Infine, qualora ve lo steste domandando, il record attuale è di 285 km/h fatti segnare dalla 45enne Denise Mueller-Korenek nel 2018, stando in scia ad un Dragster sul lago salato di Bonneville. Duecento-ottantacinque-chilometri-orari in bicicletta.

– immagine via

Articolo del 12 Giugno 2020 / a cura di Il direttore

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  • Flavio

    Caro direttore, un appunto: vale il mio record in un carrello della coop, trafugato di notte trainato da un malaguti f10, alla “spaventosa” velocità di 45km/h, terminata in un fosso delle campagne romane??? Che bello quando avevo 15 anni….complimentissimi come sempre!!!!

    • Fabio

      se era omologato e con l’euro inserito: si !!

  • Pierantonio

    Bei racconti e belle foto. Siti come il vostro , andando avanti nel tempo, sono come un rifugio come vedere una Giulietta 1.6 anni 80 nel parcheggio del Famila: dieci anni fa faceva la sua figura, oggi la si guarda con rispetto, un domani ci darà sensazioni fortissime per scuoterci dall’apatia e dall’omologazione sociali

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