È il 26 maggio del 1941 e negli uffici della Hershel and Sons, sul tavolo del progettista Erwin Aders, giace una lettera arrivata il giorno prima da Berlino. È facile immaginare il teutonico ingegnere esclamare “Scheiße!” aprendol,a mentre un rivolo freddo inizia a corrergli a lato della fronte. Il timbro dell’alto comando tedesco sull’intestazione e la firma del Führer in persona a fondo pagina non lasciano spazio a dubbi sull’importanza della richiesta che contiene: progettare la nuova punta di diamante delle forze corazzate tedesche per vincere una guerra che dopo la sconfitta lampo della Francia sembrava a portata di mano: bastava conquistare la Russia.
Da tempo Heinz Guderian, Generaloberst a capo delle divisioni corazzate, aveva capito che i Panzer III, sviluppati ormai una decina d’anni prima in barba ai trattati di riarmo, avevano fatto il loro tempo. E i pur ottimi Panzer IV, spina dorsale delle forze corazzate tedesche per disponibilità e flessibilità d’utilizzo, non garantivano una reale superiorità contro i carri sovietici T-34-76, come si sarebbe visto qualche mese più tardi. Alla Hershel non era la prima volta che si trovavano di fronte a una commessa del genere: molto tempo prima delle scampagnate della Wermacht in Polonia e Francia, avevano ricevuto richieste per un carro pesante di stazza superiore, ma che per svariati motivi (non c’era budget) non aveva mai visto la luce.
Fino a quel momento.
Le specifiche? Robetta per gente abituata a modellare acciaio Krupp come un contadino campano strizza mozzarelle di bufala: il carro doveva pesare almeno quarantacinque tonnellate con uno spessore minimo per la blindatura frontale di 100 mm e 80-60 mm per le parti laterali e posteriori di scafo e torretta, ma soprattutto essere in grado di ospitare un pezzo da 88 mm, un calibro mai visto fino a quel momento su un veicolo corazzato. Il problema era il tempo: il Fuhrer voleva regalarsi, nel senso letterale del termine, un giocattolo nuovo di pacca per il 20 aprile 1942, giorno del suo cinquantatreesimo compleanno. Undici mesi scarsi potevano sembrare un lasso di tempo proibitivo per ingegnerizzare un mostro del genere e probabilmente lo erano: il timore di trovarsi sull’uscio un amabile ufficiale delle SS dopo aver bucato la consegna mise sicuramente le ali alla matita di herr Aders.
Per sua fortuna, i recenti successi del pezzo da 88 in modalità anticarro contro i carri francesi e inglesi, avevano già tolto qualsiasi incertezza sul cannone da ospitare in torretta. Erwin Rommel in persona aveva apprezzato molto la possibilità di impostare i Fliegabwehrkanone 8.8 ad alzo zero o addirittura leggermente negativo, piazzarli in posizioni sopraelevate e giocare al tiro al piccione con interi battaglioni di Matilda e Char B anche a distanze superiori ai due chilometri. E tante grazie alla Krupp che già nel 1928, progettando un pezzo di artiglieria contraerea, aveva creato senza saperlo anche un letale apriscatole.
Molte nottate in bianco e parecchie kraftausdruck dopo, il primo prototipo del Panzer Tiger dal nome in codice VK 3001 (H) venne presentato alle ore 11:00 presso Rastenburg, nella Prussia orientale, per la soddisfazione di Hitler e dello stuolo di gerarchi nazisti tutti in fila a cantare “Perké è un bravo rakazzooohhh!”. Era impossibile non restare colpiti dalla stazza di un carro armato che per accomodare pilota, marconista, torretta, stiva munizioni, cannoniere, caricatore, capocarro, motore (tranquilli, adesso ci arriviamo) e serbatoi stazzava quasi nove metri di lunghezza con il cannone in brandeggio, tre metri e mezzo di larghezza e tre metri di altezza.
Certo, c’era da valutare anche il prototipo della Porsche con designazione VK 3001 (P): le fonti dicono fosse migliore ma fu scartato per la complessa trasmissione che usava materiali pregiati difficili da reperire già nel ’41. Questo ne avrebbe fatto aumentare i costi di produzione a livelli insostenibili e già il Tiger della Henschel costava una fucilata di suo. A noi piace pensare che il Panzerkampfwagen VI Ausf. H, questa la sua prima designazione al momento dell’entrata in produzione nell’agosto del ’42, sia stato scelto perché sembrava un vero e proprio Ferro del Dio: l’arma decisiva che avrebbe reso realtà i piani sekreti per konkvista ti monto del Terzo Reich.
E lo era.
Di acciaio ce n’era così tanto che il peso minimo era salito rispetto al capitolato: per raggiungere i livelli di blindatura richiesti il prototipo era schizzato da 45 a 53 tonnellate. Nelle fasi finali della guerra, tra corazzature aggiuntive, modifiche a propulsore/trasmissione e altra chincaglieria assortita, le tonnellate arrivanrono a 57. Immaginatevi 25 SUV moderni impilati uno sopra l’altro e vi siete fatti un’idea della densità dei materiali in gioco. A muovere tutta la baracca ci provava un V12 a benzina Maybach di 21.4 litri di cilindrata che erogava 650 cavalli a 3000 giri. “Figata!” direte voi, pensando a quel ben di Dio di potenza a disposizione nell’anno di grazia 1942. “Nein!” avrebbero risposto secchi carristi, meccanici e addetti alla logistica.
Il Tiger I era figo da morire, russi e inglesi si cagavano addosso a solo sentirne parlare, così come gli americani un anno più tardi, al punto da farlo diventare una vera e propria arma psicologica. Ma aveva anche dei difetti, che, come il carro stesso, erano piuttosto grossi.
Ci si rese immediatamente conto di come il motore fosse sottodimensionato per la stazza in gioco e già dopo qualche mese dall’entrata in produzione, venne messa in linea una versione aggiornata: il passaggio a un monoblocco in ghisa rispetto all’originale in alluminio permetteva una maggiorazione di cilindrata di 1500cc capace di toccare i 700 cavalli di potenza. Non che quei cinquanta equini a vapore facessero chissà quale differenza, ma almeno su strada si poteva viaggiare confortevolmente a venti chilometri l’ora, che si riducevano a 15 su terreno accidentato. Niente male per un veicolo così pesante.
Dando tutta manetta si potevano superare i quaranta all’ora su asfalto, ma se eravate in vena di fare i ganassa sulla tratta Berlino-Mosca, la permanenza di un mese in un battaglione disciplinare sarebbe stata garantita dall’insalata russa di pistoni e quasi certe rotture della trasmissione. Proprio la trasmissione, soprattutto agli inizi, era il vero punto debole del Tiger I: sottodimensionata per il peso e le dimensioni dei cingoli, al punto da causare frequenti cedimenti su pendenze elevate o in seguito a manovre non particolarmente accorte. L’addestramento dei piloti in particolare era molto meticoloso: alcuni equipaggi arrivarono a un anno, mai meno di sei mesi per tutti.
Non serve essere esperti in meccanica per capire come un rapporto peso/potenza di 13 cavalli scarsi per tonnellata portasse il povero Maybach a bere come uno stuolo di Waffen in libera uscita dopo tre mesi al fronte, bruciando 570 litri di benzina ogni 180 chilometri di asfalto. La distanza percorribile si riduceva a poco più di 100 chilometri (ma probabilmente anche meno) quando ci si trovava in combattimento in campo aperto. Nelle fasi iniziali del suo dispiegamento, l’esiguo numero di unità impiegate non aveva posto grossi problemi di approvvigionamento, ma a partire dall’estate del 43’, era facile immaginare le animate discussioni ogni volta che i comandanti dei Tiger si presentavano nelle aree di rifornimento mostrando tessera fedeltà e manate di bollini carburante.
Vabbè dai, tutto gestibile no?
Per spostarlo nelle zone di combattimento era necessario utilizzare tradotte appositamente configurate (che non erano mai abbastanza) che per ovvi motivi non potevano arrivare ovunque, oltre a dover smontare i cingoli per inserirne di più stretti. Questo costringeva i battaglioni a spostamenti in autonomia che obbligavano la catena logistica a pianificare attentamente il percorso per non restare a secco, organizzare le aree di raccolta e manutenzione e soprattutto, individuare i ponti in grado di reggerlo.
Per quanto avesse una limitata capacità di guado fino a quattro metri in snorkeling, ogni ponte era una roulette russa, con la forza di gravità che richiedeva abbondanti scongiuri e una saldissima fede nel partito nazista. E quando si rompeva o veniva immobilizzato in combattimento? Auguri, visto che era espressamente vietato farlo trainare da un altro Tiger perché era quasi certo trovarsi con due carri immobilizzati invece di uno solo. E quindi? Si prendevano due (meglio tre) semicingolati Sd.Kfz. 9 Famo e vai con le ridotte fino alle retrovie.
La conseguenze di queste difficoltà tra produzione, logistica e manutenzione ebbero effetti importanti sulla capacità operativa dei battaglioni di Tiger I nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Considerando il fatto che ne sono state prodotte circa 1350 unità, si stima che nei tre anni scarsi di servizio non siano mai stati pronte al combattimento più di 500-600 contemporaneamente, con il picco della loro disponibilità nella primavera del 1944. Manutenzioni per problemi meccanici e riparazioni dopo scontri importanti tenevano costantemente ferma ai box almeno il 30%-40% della forza disponibile, spesso anche oltre la metà. Il Tiger I era quindi un’arma formidabile, ma i numeri ridotti e le sue idiosincrasie logistiche ne limitavano lo schieramento solo a quando fosse strettamente necessario.
Insomma, tutti questi sbattimenti per mettere in pista una macchina così complessa e impegnativa valsero la candela? Questo lo vedremo nella seconda parte di questo articolo dedicata alle capacità in combattimento del Tiger I, con una serie di considerazioni sulla sua reale efficacia nei teatri di guerra in cui è stato impegnato e all’eredità storica che ci ha lasciato.
Articolo di Matteo Lorenzetti che, visto come scrive e il tema che tratta, credo che presto rivedremo da queste parti.
Oh che bello, i carri potrebbero diventare una bella serie di articoli.
Il motore non è a benzina, come su tutti i carri tedeschi dell’epoca?
Hai assolutamente ragione, svista corretta
molto interessante aprire un filone sui veicoli corazzati, e anche magari sui veicoli “folli” come il kettenkrad e il “tempo1200”
bellissimo articolo,molto interessante,attendo la seconda parte.
A quando il seguito?
Bell’articolo per un argomento davvero interessante. Mi piace molto anche il taglio dato, molto ROLLINGSTEEL!
Avrei aggiunto solo in paio di parole in piu sul prototipo Porsche che era in qualche modo “ibrido” visto che montava ben due motori elettrici e che fece BUM! davanti allo zio Adolfo durante le prove….:-)