La spada deve essere più di una semplice arma; Deve essere una risposta alle domande della vita.
– Miyamoto Musashi –
Il termine Samurai, che letteralmente significa “servitore”, nel complesso sistema linguistico giapponese può essere sostituito da Bushi “l’uomo che ha la capacità di mantenere la pace”. Entrambi i termini indicavano un nobile addestrato nell’utilizzo di ogni arma conosciuta che si metteva al servizio di un Damyo, uno dei Grandi Signori che si spartivano l’Impero Giapponese.
– l’autore –
Immaginate uno scontro tra due guerrieri di epoche diverse: il primo un Mel Gibson in Braveheart e l’altro il protagonista sparatutto di un qualche Medal of Honor. Mettete pure il gioco in modalità iperrealistica, il nostro Braveheart avrebbe comunque vita breve, lo spadone contro una sputafuoco automatica.
A guardare da lontano (anzi, dall’alto, visto che di aerei parliamo) il confronto tra jap e americani nel Pacifico sarebbe potuto finire più o meno così, nello scontro bellico ma anche tecnico, industriale e scientifico che la “guerra delle nazioni” ha messo in scena. Un paese di isole vulcaniche, privo di quelle risorse naturali tanto preziose (ma determinato ad andarsele a prendere), una piccola potenza regionale appena uscita da un bizzarro medioevo, contro il gigante americano, tecnologia, produzione e tanto swing…
Quali che fossero i pensieri che stavano passando per la testa del 1st Lt. Kenneth Walsh il primo Aprile del 1943, mentre ai comandi del suo Vought F4U-1 Corsair stava volando sopra le Russell Islands (poche isolette nell’arcipelago delle Salomone, assai più vicino all’Australia che non al Giappone), a un certo punto avvistò un inconfondibile quanto solitario Mitsubishi Zero e gli dovette sembrare una facile preda.
Il Corsair era una macchina potente, inequivocabilmente “ammeregana”. Entrato in servizio l’anno prima, nel ‘42, per irrobustire ulteriormente le fila proprio contro gli irriducibili jap e i loro sfuggenti Mitsubishi, era stato preferito per le operazioni da terra, lasciando spazio sulle portaerei al Grumman F4F, quella specie di barile di birra volante… boh, vai te a capire i Marines che volano.
Oltre 4000 kg di alluminio e acciaio, 10 metri di lunghezza e 12 di apertura alare, sei canne da mezzo pollice nelle ali e soprattutto una stufa Pratt&Whitney R-2800 con 18 cilindri su due stelle e 2000 CV piazzati in cima al lungo naso, non avrebbero dovuto far temere molto al primo tenente Walsh, sebbene la sua qualifica rivelasse una scarsa esperienza. A confronto lo Zero poteva sembrare un barattolo di latta volante, eppure fino a quel momento la tattica migliore per affrontare questa scatoletta e i suoi piloti era semplicemente cercare di andarsene a tutto gas. “Run away”, questo era il consiglio consiglio che i piloti britannici della RAF diedero ai colleghi americani, dopo le esperienze dirette a Ceylon un paio di anni prima. Non importa su cosa tu stia volando, se becchi uno Zero, scappa.
Il primo tenente Walsh, comunque sia, è un pilota giovane e aggressivo, determinato a non farsi scappare l’occasione: manovra per portarsi verso il jap, pianificando un tiro in deflessione, ovvero sparacchiare verso qualche punto nel cielo davanti alla traiettoria del nemico, sperando che quest’ultima incroci con quella delle armi. Ma lo Zero all’improvviso compie una rovesciata e si mette direttamente in coda al Corsair. “Mi era stato detto che lo Zero era estremamente manovrabile, ma se non avessi visto con quanta rapidità il suo aereo si è portato sulla mia coda, non ci avrei creduto” ebbe a ricordare Walsh qualche tempo dopo. Ma Walsh, da bravo bambino, era stato attento alle lezioni, mentre i suoi compagni si distraevano lui aveva appuntato sul notes “lo Zero in picchiata ad alta velocità fatica a manovrare e virare stretto verso destra”. Senza pensarci troppo, con il jap in coda, Walsh disegna una U nel cielo scendendo contemporaneamente di quota, mette giù il nasone mentre il Pratt&Whitney ringhia e guadagna in fretta 450 km/h. Al momento buono scarta violento ed improvviso a destra, con il Corsair che gli lancia insulti sotto forma di scossoni e fremiti di alluminio, ma il gioco è fatto; lo Zero passa dietro e la manetta per allontanarsi fa il resto. Il primo tenente finirà quella giornata con tre abbattimenti e la sua guerra con ventuno totali, primo “asso” sui Corsair, medaglia d’onore e una carriera militare. Visto cosa succede a stare attenti alle lezioni?
Ora cosa c’è di tanto interessante in una storiella che racconta come un ragazzone americano pensava di fare il bullo con il piccoletto di turno e invece gli tocca scappare (run away) ancora una volta? Il punto è che gli americani, dopo “soltanto” due anni, erano finalmente venuti a capo delle debolezze dinamiche di quel gran pezzo di alluminio che era il Mitsu. Come avevano fatto? Semplice. Ne avevano provato uno. Scartata l’opzione di approccio “oh mi fai provare il tuo Zero? Dai bro’ tranquillo che non impenno, ti faccio anche un po’ di miscela…” gli americani avevano trovato un esemplare di Zero cappottato e mezzo affondato dentro una specie di brughiera sull’isoletta di Akutan, arcipelago delle Isole Aleutine, un postaccio gelido in mezzo all’oceano circa mille miglia ad ovest dell’Alaska.
Adesso, cosa volessero farci i giapponesi delle Isole Aleutine non è molto chiaro. Centoventi isolette in mezzo alla zona nord del Pacifico, terra sterile e rocce, inospitali e disabitate, a molte miglia dal Giappone. Qualcuno sostiene che dovessero servire come base per attaccare i convogli americani diretti verso le ben più calde, in tutti i sensi, isole Midway; altri sostengono che dalle Aleutine pianificassero di invadere il continente americano attraverso l’Alaska ed il Canada. Che cosa ci volesse fare il diciannovenne pilota Tadayoshi Koga il 4 di giugno del ‘42, invece è più chiaro: dopo essere stato colpito dalla contraerea durante un attacco a una base di terra, con la pressione dell’olio a zero e il motore che chiedeva pietà, stava cercando di atterrare su quella che doveva essergli sembrata una comoda striscia erbosa, ma che in realtà nascondeva un terreno paludoso. L’atterraggio non andò per niente bene, il suo Zero cappottò e il povero Koga ci rimise l’osso del collo. Una grande sfortuna per l’aviere giapponese, una grande fortuna per quel ricognitore che, il 10 del luglio successivo, scorse il relitto tra le nebbie sull’isola di Akutan e diede il via alle operazioni di recupero. Così, alla fine di settembre del 1942 gli americani avevano il loro Zero con cui divertirsi e scoprire alcune cosette interessanti, tra cui l’incapacità dello stesso di manovrare ad alta velocità e la (misteriosa) tendenza a tirare dritto invece che girare a destra durante una forte picchiata. Meno divertiti erano i piloti giapponesi che si trovarono improvvisamente di fronte degli “yankee” che, con i loro enormi caccia, riuscivano ad evadere dalle formidabili doti di agilità dei Mitsubishi.
Eppure, nel 1937 l’ing. Jiro Horikoshi allora trentaquattrenne e già capo della progettazione aeronautica di Mitsubishi, aveva fatto le cose per bene. Horikoshi, con la faccia da intellettuale e gli immancabili occhiali tondi che portano tutti i giapponesi “cattivi” dei film, si era rimboccato le maniche quando la Marina Imperiale formulò una nuova richiesta ufficiale. Serviva un nuovo aereo da caccia imbarcato su portaerei, che doveva avere caratteristiche uniche per l’epoca: velocità di almeno 500 km/h, nove minuti e mezzo per salire a tremila metri, due cannoni e due mitragliatrici, una manovrabilità da biplano dei tempi andati e soprattutto una autonomia folle, di 2.600 km.
Facile, vero? Soprattutto per il Giappone dell’epoca, che aveva inaugurato la sua “era aeronautica” solo qualche anno prima ed aveva “occhieggiato” un po’ di tecnologia qua e là in occidente, proprio dagli americani e dai britannici. Ma Horikoshi mise insieme il meglio di quanto disponibile come materiali e tecnologia, nella maniera più semplice e razionale possibile. Nacque così il Mitsubishi A6M detto Zero: leggerissimo, grande mediamente la metà di un aereo alleato e progettato per essere costruito col minor numero di parti possibile. Aveva un’aerodinamica molto curata con rivetti annegati e superfici ben raccordate, ed era spinto da un semplice ma affidabile motore stellare Nakajima Sakae, che erogava 940 CV, aveva 14 cilindri su due stelle ed era raffreddato ad aria. Questo motore era parente stretto del più nobile francese Gnome et Rhône 14K, lo stesso che i rumeni utilizzarono sullo IAR 80 che menava i P-38.
Completavano il quadro due cannoni e due mitragliatrici. Come ottenere questo risultato? Beh… lega di alluminio 7075 (si, proprio quella) inventata in gran segreto dalla Sumitomo Corp. proprio in Giappone nel 1935 (e poi adottata da tutti). Una lega caratterizzata dalle superiori qualità di leggerezza e con qualche problema di corrosione, ma per questo c’era la “vernice sigillante” detta Aotake, dal caratteristico colore azzurrognolo. E poi mancavano tutti quei “gadget” che andavano tanto di moda in occidente, come le protezioni corazzate per pilota e motore, i serbatoi carburante autosigillanti e a prova di incendio, i comandi aerodinamici ad azionamento idraulico… ma appunto sono “gadget” come oggi il park assist o l’assistente di corsia. Diciamo che con lo Zero era consigliabile non andare a sbattere contro un proiettile nemico.
Ne uscì una macchina elegante, veloce, decentemente armata ma soprattutto in grado di “girare intorno” a qualsiasi ferro alleato almeno fino al 1943, anno in cui gli americani, tra nuovi aerei e – appunto – qualche informazione in più sul nemico, riuscirono a confrontarsi senza dover necessariamente “run away”.
Dunque, giapponesi incrollabili samurai determinati e cocciuti che resistono sull’isoletta? Anche… ma sopratutto capaci di costruire con (allora) poca esperienza e pochi mezzi una macchina di concezione originale seppure razionale, affidabile ed estremamente efficace nel ruolo per cui era stata pensata. Poi sono arrivate le quattro cilindri Honda, le due tempi Yamaha, la Kawasaki turbo, la Suzuki Gamma, la Nissan Skyline, le Mazda a motore rotativo… che per fortuna non sparano se non dagli scarichi. Ma questa è un altra storia.
Che coincidenza, proprio ieri sera ho visto l’anime “Si alza il vento” di miyazaki.
L’anime parla della storia di Jirō Horikoshi (1903–1982), progettista e inventore del Mitsubishi A5M e del modello successivo Mitsubishi A6M Zero.
L’anime è qualcosa di epico, consiglio a tutti gli appassionati di anime e di ingegneria di guardarlo, un connubio unico tra tecnica e arte che solo quel geniaccio di miazaki poteva tirare fuori.
Sembra un cartone fatto apposta per noi malati di ferro giapponese!!
PS: c’è su netflix
typo 🙂 è Damyo non Daymo.
Typo del typo: Daimyo.
Per Andrea… Il padre di Miyazaki era ingegnere areonautico… ed era nel team di Horikoshi (a cui è dedicato il protagonista di “Si alza il vento”… con gli occhialini tondi…), nonchè amico dell’ingegner Caproni (ecco il perchè è citato nel film). Da questa amicizia nasce l’amore di Hayao per l’Italia… in generale… e per Gina Lollobrigida in particolare…