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Lama di fuoco: la storia della Honda CBR 900 RR FireBlade

Honda CBR 900 RR FireBlade

Dicono che al mondo esistono due tipi di uomini, quelli che hanno ordinato DI BRUTTO Volume Due e quelli che lo desidereranno da morire ma non potranno averlo. E tu, considerando che sono rimaste 200 copie, da che parte stai?

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È il 1992. Sì, se ve lo state chiedendo, nel 1992 sono successe un sacco di cose fighe. Ma veramente un sacco. Siamo nella grande Tokyo, nell’immensa (almeno immagino lo sia) fabbrica della Honda. Immensa e in mensa, per l’esattezza. Un tale dal nome curioso sta per aggredire la sua bella ciotola di ramen proveniente dallo Zushi più vicino. È lì lì con il primo assaggio quando gli arriva un altrettanto bella scoppola a tradimento da dietro, vi lascio immaginare le conseguenze. “Ingegner Baba, la smetta di perdere tempo, qui c’è del lavoro da fare. Dobbiamo rivoluzionare il mercato globale delle moto sportive stradali, si dia una mossa!”

Credeteci o no, fu proprio così che Tadao Baba ricevette l’incarico di capo progetto della nuova sportiva Honda, quando in realtà era il finire degli anni ’80 ma ci andava di cominciare di nuovo col 1992, perché quello fu l’anno effettivo in cui la nuova moto arrivò sul mercato. La supersportiva di riferimento in casa Honda a quel tempo era ovviamente la VFR 750 R RC30, che però non era nata per spopolare con i numeri di vendita, ma esclusivamente per la pista, ed era stata messa in strada solo per ottenere le omologazioni richieste dai regolamenti dove si correva con moto derivate dalla serie. Era una moto pronto gara, e pronto gara era anche il prezzo. 22 milioni di lire del 1988, contro i 12 della cugina VFR 750 F, l’altra sportiva, quella più umana e sfruttabile.

– Honda RC30, dove voi vedete una moto, io vedo un DI BRUTTO Volume Tre

In buona sostanza, tutte le vere sportive a quattro cilindri dell’epoca erano di 750 cc (vedi Kawasaki ZXR 750, Yamaha FZR750R OW-01, Suzuki GSX-R 750 e RC30 appunto), un po’ perché era la cilindrata limite per la Superbike, un po’ perché alla fine quella era la giusta via di mezzo tra potenza e agilità. Le carenate attorno ai 1.000 cc tipo CBR 1000 F o ZZR 1100 erano orientate ad un utilizzo cosiddetto sport touring, più confortevoli, pesanti e goffe.

La nuova moto era inizialmente prevista come erede proprio della RC30, avrebbe quindi dovuto mantenersi entro i 750 cc ma passare dall’architettura V4 a quella di un motore in linea. Ne fu realizzato persino un prototipo, che prese il nome CBR750RR.

Un bel giorno però qualcuno in HRC decise che la Superbike di casa Honda avrebbe dovuto mantenere lo schema a V (sarebbe quindi arrivata la RVF 750 R aka RC45 nel 1994), e per la cubatura del nuovo modello stradale fu quindi data carta bianca. Per la gioia di Tadao Baba, che di limitarsi ai 750 cc non aveva nessuna voglia e che, anzi, voleva dimostrare che un motore più grosso non sarebbe stato un limite dinamico per il veicolo, se tutto quello che ci fosse stato montato attorno fosse stato progettato come si deve. L’obiettivo era quello riportato a testuali parole dalla conversazione iniziale: “rivoluzionare il mercato globale delle moto sportive stradali”, non solo di casa Honda.

Come fare? Come non fare? Un primo punto fermo fu la questione prezzo. Se devi rivoluzionare il mercato non puoi certo uscirtene con una moto dal costo d’acquisto proibitivo, deve necessariamente essere qualcosa di abbordabile e allineato alla concorrenza, niente soluzioni esotiche né di derivazione aerospaziale, quindi. Il secondo punto fermo era appunto che dovesse fare il culo a strisce il culo a strisce sia alle 750 che alle 1.000 allora esistenti, per lo meno nelle mani di un utente normale. Serviva qualcosa che coniugasse la leggerezza e l’agilità delle medie al tiro dei motori da un litro. Qualcosa, diciamo, attorno ai 900 cc. Questo numero sì suonava bene nella mente di Baba. E la cilindrata effettiva del nuovo 4-in-linea fu di 893 cc. Per il marketing, sarebbe bastato arrotondare come sempre: 900.

Avete capito bene. Era arrivata lei, la prima Lama di Fuoco: la prima CBR 900 RR FireBlade. Piccola curiosità: fino al 2003 si chiamò proprio così, FireBlade con la B maiuscola (pare proprio in onore di Baba), dal modello 2004 in poi, quando inoltre passo da 900 a 1.000, la grafia divenne invece Fireblade. Altra curiosità: pare che la corretta traduzione del nome giapponese che fu scelto fosse in realtà Lightning, fulmine, ma che divenne Fireblade per un qualche fraintendimento dovuto ad una parola mal pronunciata al telefono con il solito ramen in bocca.

893 cc, 124 cavalli, 185 kg di peso a secco, 1.405 mm di interasse. Per capirci, una CBR 1000 F dello stesso anno aveva questi dati: 998 cc, 124 cavalli, 260 kg di peso a secco, 1.512 mm di interasse. In pratica, la nuova FireBlade era una bicicletta, ma con gli stessi cavalli. Fu con questi numeri che la 900 centrò l’obiettivo già alla sua presentazione a fine 1991 al salone di Tokyo (nello stesso anno ma al salone di Ginevra, a marzo, era stata presentata la NR 750 Oval Piston): stupire il mondo con doti che, almeno sulla carta, erano una spanna avanti a tutte, homologation special escluse. Alimentazione a carburatori, cambio a 6 marce, classe emissioni orgogliosamente Euro 0. Telaio perimetrale a doppia trave in alluminio, forcellone anch’esso in alluminio con capriata superiore d’irrigidimento, forcella Showa tradizionale con steli da 45 mm regolabile in freno di ritorno e precarico, mono ammortizzatore Showa Pro-Link regolabile anch’esso in ritorno e precarico, impianto frenante anteriore con doppio disco da 296 mm e pinze Nissin a quattro pompanti. Ruota posteriore da 17” e all’anteriore una singolare 16″, che determinò il carattere tendente al nervosetto della prima serie delle Lame di fuoco. Di ABS e controlli elettronici neanche sentirne parlare, nel 1992 si impennava, si lasciavano virgole nere sull’asfalto e si moriva da eroi.

L’estetica era tutto un programma: anni ’90 che più anni ’90 di così non si può. Doppio faro tondo anteriore, livrea bianca con arrogantissime grafiche rosse e blu/viola, scritte CBR, FireBlade e RR sparse un po’ qua e la. Ma la cosa che ancora oggi ci manda più fuori di testa è la carena forata nella zona del cupolino e del sotto motore, di dubbia efficacia pratica ma da sbrodolarsi a livello estetico. Come una vera e fottutissima moto da corsa.

Per portare a casa questo gioiello servivano, se i conti non mi ingannano, circa 15 milioni di lire e mezzo. Qualcosa in più della VFR 750 F, parecchio meno della RC30, moltissimo meno della RC45 che sarebbe arrivata due anni più tardi al prezzo esorbitante di 46.000.000.

Nel 1994 arrivò il primo restyling della FireBlade, nulla di stravolgente, ma solo qualche accorgimento. Dal lato estetico ahinoi perse il doppio e bellissimo fanale tondo anteriore e vennero introdotte nuove colorazioni. Da quello tecnico, furono riviste alcune quote ciclistiche per renderla meno nervosa e fu migliorata la forcella che guadagnò la regolazione del freno in compressione. Il quattro cilindri inoltre guadagnò un paio di cavalli, che come è noto non fanno mai male.

La ‘Urban Tiger’ del 1994.

FireBlade del ’96, un lievissimo restyling che si riconosce dalle grafiche, dalle due feritoie nel codone, che sul modello ’94 era solo una, e dall’assenza dei fori nel sotto carena.

Nel 1996 ci fu la prima piccola rivoluzione. La FireBlade rimaneva fedele a sé stessa ma arrivò il primo vero nuovo modello. Un importante aggiornamento riguardava il motore, che passava da 893 cc a 919 grazie ad un incremento di 1 mm di alesaggio; i cavalli diventarono così 128. Permaneva la batteria di carburatori Keihin da 38 mm a dar da bere al tutto. Altri interventi riguardarono il rapporto di compressione, aumentato, la frizione, lo scarico e l’impianto di raffreddamento che adottava un nuovo radiatore curvo. Fu rivista pesantemente anche la ciclistica, con differenti geometrie e rigidità sia del telaio che del forcellone. La forcella venne stravolta in tutte le componenti interne e così il posizionamento del fulcro del forcellone. Se l’estetica non tradiva tutte queste novità, di fatto di carne al fuoco nel ’96 ne venne messa parecchia. Dopo altri due anni, quindi nel 1998, Honda diede la consueta rinfrescata alla FireBlade, i cavalli diventarono 130 grazie a nuovi pistoni e altri dettagli croccanti, a livello ciclistico venne rivista la rigidità di alcune componenti (telaio), e vennero ritoccati anche forcellone, piastre di sterzo e diametro dei dischi freno anteriori (da 296 a 310 mm). Non dimentichiamoci che nel frattempo, sempre nel ’98, era arrivata una certa R1, che anche solo dal punto di vista dell’impatto estetico aveva tirato una bella linea e aveva lasciato indietro la 900 non di poco. La nuova arrivata di Iwata era proiettata direttamente nel nuovo millennio, magra, affilata, appuntita; la FireBlade sentiva decisamente il peso degli anni. Proprio l’estetica, ci permettiamo di decretare ora, col modello ’98 fece un passo indietro. La FireBlade era diventata decisamente più tozza e goffa della precedente serie. Influì parecchio il parafango anteriore più avvolgente, ma anche il sempre più ampio fanale anteriore e il grosso codone. Proprio nel fanale si riconoscono già, tuttavia, i canoni estetici che qualche anno più tardi avrebbero portato al disegno di quello che è probabilmente uno dei gruppi ottici più riusciti di sempre su di una moto sportiva. Quindi ce ne facciamo una ragione, quel brutto fanale era a fin di bene.

La FireBlade 1998, quella a livello estetico un po’ più sfigatella, perché se la doveva vedere con lei:

La prima R1, uscita nello stesso anno.

E poi finalmente lei, una FireBlade al passo coi tempi arriva nel 2000:

Ad ogni modo, Honda non si fece mangiare la pappa in capo, come si dice da qualche parte, e nel 2000 se ne uscì con una CBR 900 RR completamente nuova. Le novità importanti furono parecchie: la cilindrata crebbe ancora e passò a 929 cc, l’alimentazione divenne ad iniezione elettronica PGM-FI e i cavalli passarono addirittura a 149 (la R1 ne aveva 150), stavolta un vero balzo in avanti. Arrivarono finalmente la ruota da 17” anteriore e la forcella a steli rovesciati; il telaio e il forcellone erano completamente nuovi, quest’ultimo trovava il suo fulcro direttamente nel motore, la moto era complessivamente più corta, i freni furono potenziati ancora con dischi da 330 mm, il peso calò fino a 170 kg a secco. Anche a livello estetico il passo avanti fu netto: la dieta era visibile, la nuova FireBlade aveva una linea più filante, affusolata, tagliente, era molto più aggressiva e sportiva. Ma non era tutto, perché ancor più tagliente fu l’ultima delle 900, un altro importante aggiornamento che arrivò solo due anni più tardi. La mitica e affilatissima 954, che era ovviamente la cilindrata effettiva, ottenuta con un nuovo rialesaggio da 1 mm. Nuovi iniettori, ciclistica irrigidita e moto più corta. E finalmente, dico io, il gruppo ottico anteriore più figo che si sia mai visto su di una moto sportiva.

“Qualcosa in contrario?” [cit. CBR 954]

Lei fu l’ultima, l’ultima delle FireBlade con la B maiuscola, in effetti l’ultima messa in produzione sotto la supervisione di Tadao Baba. Dal 2004 la musica cambiò, la Fireblade passo alla cilindrata piena di 1.000 cc e fu finalmente eligible per la Superbike, che nel frattempo aveva cambiato regolamento e aveva ammesso i 4 cilindri da 1 litro. La moto era del tutto nuova, riprogettata da capo sia nella ciclistica che a livello di propulsore. L’estetica poi riprendeva quella della 600 lanciata l’anno prima, che a sua volta s’ispirava apertamente alla RC211V di Valentino Rossi e Tohru Ukawa e divenne celebre per le folli gesta di Ryuichi Kiyonari da Kawagoe che per tre minuti e mezzo, sotto il diluvio di Donington fu il Dio supremo delle due ruote e nessuno dimenticherà mai quel momento.

Ma la vera FireBlade, per noi, nostalgici, rimarrà sempre la 900, che vogliamo continuare a ricordare così, nell’ignorantissima livrea viola del team Rumi, che la impiegò in Superstock con ‘Tortorix’ Walter Tortoroglio.

Articolo del 3 Novembre 2022 / a cura di Carlo Pettinato

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