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Laggiù nel deserto, oltre il muro del suono

Quando mi chiedono cosa penso del calcio, della religione, degli smartphone, delle crociere, dell’all-you-can-eat e di certi altri grandi pilastri dell’umanità, mi viene sempre in mente il deserto di Black Rock, Nevada, Stati Uniti d’America. Perché, in due parole, è una distesa sufficientemente ampia per illustrare la abusata ma efficace vastità del ca**o che me ne frega.

E poi perché questo deserto in particolare è un piacevole controsenso: da un lato è un inospitale ambiente quasi privo di vita vegetale e animale ormai da decine di migliaia di anni, da quando un antico lago si è prosciugato liberando uno spazio quasi perfettamente piano delle dimensioni di 110×32 km; dall’altro, è il palcoscenico di alcune delle attività più folli che il genere umano possa concepire, come il Burning Man, o i lanci di razzi amatoriali che arrivano a solleticare lo spazio (116 km per quello del Civilian Space eXploration Team) e, soprattutto, i record di velocità su terra.

– Questa è “Black Rock City”. La “città” che ogni anno ospita il Burning Man, il festival della follia umana. Come disse quel tale..? Ciò che succede nel deserto, resta nel deserto…

Ma questa è un’altra storia, torniamo a cose da Rollingsteeler. Quella che, ad una prima occhiata, appare come una sterminata tovaglia di sabbia è in realtà un letto di antiche colate laviche e dura argilla incrostata di materiale alcalino, un ambiente dalla natura variabile che i più archivierebbero come inutile spazio sprecato. Ma, se ti manca il fiato dalla quantità di energia che sei costretto a trattenere perché non sai dove sfogarla, beh… qui di spazio ce n’è quanto ne vuoi.

Benché non sia il più ampio deserto nel suo genere – il Salar de Uyuni in Bolivia è grande qualcosa come 10.000 km quadrati e l’impronunciabile sudafricano Makgadikgadi un tempo ospitava un lago grande più della Svizzera – la Playa di Black Rock si trova già nella terra dei folli per eccellenza (gli USA) ed è quindi decisamente più comoda; inoltre, è ben più ampia di quella del più celebre Bonneville Salt Flats (19×8 km).

– Imprese di ogni genere, con motori tradizionali o a razzo, moto o automobili e perfino aerei senza ali. E questa qui sopra è solo una piccola parte… –

La storia dei record su terra è lunga e potremmo parlarne per giorni, perché, volendo, comincia quasi contemporaneamente alla nascita dell’automobile. Prima o poi ci prendiamo una settimana per raccoglierli tutti in un unico articolo, questi disgraziati piloti senza cervello.

Per il momento ci limitiamo agli ultimi e più veloci, a partire dallo stuntman statunitense Stan Barrett, che nel 1979, vicino alla base di Edwards, tentò l’impresa di raggiungere e superare il muro del suono con una sorta di triciclo a razzo spinto da due motori, fra cui quello di un missile Sidewinder (!!).

– Stan Barrett e il suo tre ruote a razzo dallo sponsor perfetto per cancellare la paura. A tutta birra, Stan! –

Probabilmente ci riuscì, ma la velocità dichiarata dal team – 739.666 mph, vale a dire Mach 1.01 – non fu mai ufficializzata per varie controversie: pare che il rilevamento fosse giusto una stima (per errore, i radar di terra rilevarono tutt’altro) e, soprattutto, Stan non ha effettuato un secondo passaggio e, come è noto, il record viene stabilito come media di due passaggi da realizzarsi in 60 minuti. Inoltre, nessuno ha sentito il classico BOOM sonico… insomma, i giochi erano ancora aperti.

– A destra, Stan Barrett. A sinistra, un vecchio che ha insistito tanto per provare il mezzo e fare da secondo pilota. Era tanto noioso che gli hanno concesso di indossare la tuta di Barrett e di avere il nome sulla fiancata. Forse lo avete sentito nominare: si chiamava Chuck Yeager –

Nel frattempo, proprio nel 1979, dall’altra parte dell’oceano lo scozzese Richard Noble e la sua squadra si mettono in testa di costruire la più veloce automobile del mondo. Vale a dire che avrebbe dovuto rispettare la regola principale di muoversi su quattro ruote. Il resto, a discrezione del progettista. Certo “automobile” è un concetto effettivamente lontano da ciò che era il suo Thrust 2, come del resto la stragrande maggioranza dei veicoli che da sempre si davano battaglia sulle salt flats: potremmo infatti descriverlo più efficacemente con “motore a turbina con le ruote”, con tanto di pilota infilato alla buona in un angusto abitacolo, dove giace abbarbicato ad un volantino poco promettente.

– Il Thrust 2 di Richard Noble –

Svuotando le tasche dei pantaloni, tutto ciò che il team aveva a disposizione erano ben 175 sterline e un garage sull’isola di Wight, scollegato dal resto del mondo perché non c’erano manco i soldi per il telefono. Ma a capo del progetto c’era il valido John Ackroyd, un eclettico ingegnere che s’è fatto le ossa con aerei sperimentali come SR.53 ed SR.177., con gli hovercraft e con la Enfield 8000, la prima automobile elettrica di produzione.

– Chi non risica non rosica –

Nel 1981, il team vola finalmente a Bonneville con un prototipo promettente, ma le ruote soffrono sul terreno salato e la Thrust 2 va da tutte le parti. Il fatto, però, che il tachimetro abbia mostrato una velocità di 500 mph (800 km/h…) li sprona a darci dentro. Vorrebbero ritentare già l’anno successivo, ma l’area si allaga e bisogna trovare un’alternativa: ecco quindi che salta fuori Black Rock. Laggiù aggiungeranno altre 100 miglia all’ora, per un totale di 600 mph (960 km/h).

Noble, che la facoltà di ingegneria non l’ha vista manco col binocolo e fa il commerciante di tessuti, si trova nemmeno lui sa perché – probabilmente perché era l’unico del gruppo abbastanza pazzo da provarci – al volante di un jet con le ruote dal carattere imprevedibile: al di sotto dei 500 km/h, l’auto richiede paradossalmente più interventi che a velocità più alte, perché le pinne di coda non hanno ancora alcun effetto sull’aerodinamica; superata quella velocità, invece, finalmente il mezzo guadagna stabilità, anche troppa a detta sua – “fra 300 e 500 mph (500-800 km/h… n.d.r.) è noiosa, è sempre tutto uguale, solo più veloce“.

Raggiunti i 900 km/h circa, ecco i fuochi d’artificio: da dietro il parabrezza, Noble assiste alla formazione di un’onda d’urto attorno alla presa d’aria del motore e l’intera auto viene poi avvolta dalla “nebbia” dovuta alla differenza di pressione fra le varie parti. È il 1983, l’anno decisivo, quando il Thrust 2 tocca le 650.88 miglia all’ora, ben oltre i 1047.490 km/h, con un totale di 11 passaggi al di sopra dei 966 km/h e una media stabilita in 1.019 km/h. E’ un nuovo record.

Per i tredici anni successivi, Richard Noble si è goduto lo status di uomo più veloce del mondo su terra, contemplando alcuni calcoli interessanti che mostravano come, con una velocità aggiuntiva di soli 11 km/h, il suo Thrust 2 avrebbe potuto prendere il volo pur non essendo dotato di ali. “Se lo avessi saputo all’epoca, sarei andato un po’ più forte“, scherzò; che è un po’ come dire che quasi ti spiace esserne uscito con tutti i tuoi pezzi ancora al loro posto.

Prima di lui, solo cinque uomini sulla faccia della terra erano stati in grado di oltrepassare le 600 miglia all’ora su terra. E raccontarlo. Alla fine, però, arriva Andy Green.

THRUST SSC

Nel 1983, mentre Noble alza le braccia al cielo in segno di vittoria, un certo Andy Green si laurea con tutti gli onori in matematica. Nel 1984 è già un promettente sottufficiale della RAF e negli anni fa esperienza su F-4 Phantom e Tornado F3 fino al grado di Ufficiale Comandante delle Operazioni, prestando servizio anche in teatri di guerra quali Iraq, Bosnia e Afghanistan.

Andy Green. L’uomo che vorresti come comandante, padre, parroco della chiesa dei Rollingsteelers. Andy Green. L’uomo che ha inventato le redini per i nervi, da tirare con forza ogni qualvolta la strumentazione del tuo caccia si illumina a giorno per un missile in coda. Ci voleva uno così per fare 31 dal 30 che aveva già fatto Richard Noble. Ci voleva Andy per raggiungere e sfondare il muro del suono a bordo di un veicolo dotato di ruote.

Parliamo di circa 1200 km/h a livello del mare (la velocità varia in funzione dell’altitudine). Quelle 750 miglia all’ora che prima di Chuck Yeager si credeva fossero il muro invalicabile che separava il nostro mondo da quello di un demone assetato di sangue di piloti. Molecole d’aria che, non riuscendo più a spostarsi per lasciare spazio all’aereo al veicolo, reagiscono con una esplosione che noi umani chiamiamo Mach 1. Dato che Chuck aveva dato un’occhiata al di là del muro del cielo con il suo Bell X-1, toccava ad Andy scoprire se quel demone, in realtà, si fosse sempre trovato al di là del muro del suono terrestre.

Se il Thrust 2 di Richard Noble era di fatto un motore a reazione con un abitacolo appiccicato a fianco, il Thrust SSC (dove “SSC” sta per “supersonic car”) progettato da Ron Ayers e pilotato da Andy Green è ancora più folle: è una specie di hotdog lungo 16,5 m, largo quasi 4 e dal peso di 10,5 tonnellate, con due turbofan Rolls-Royce Spey derivati da un Phantom II da 20.000 libbre di spinta che tracannano 18 litri di carburante al secondo e abbracciano una sorta di fusoliera aeronautica con tanto di impennaggio a T.

Suonerà ovvio dal punto di vista del regolamento, un po’ meno da quello ingegneristico: le ruote devono essere sempre quattro, ma, su un veicolo del genere, bisogna trovar loro la giusta collocazione. Nel caso del Thrust SSC, le anteriori si trovano ai lati dei motori, mentre le posteriori (sterzanti) sono piuttosto indietro, sotto la coda; sono sfalsate, una davanti all’altra, per sfruttare la stretta fusoliera, in modo da evitare il surriscaldamento causato dai getti.

– Per testare il britannico sistema di ruote posteriori sterzanti ci voleva una britannica vettura, no? –

A proposito di ruote: niente pneumatici qui. Qualunque tipo di carcassa verrebbe disintegrata ben prima di raggiungere una velocità degna di un Thrust SSC – anche su asfalto, “solo” 500 km/h sono un bel grattacapo (vedi QUI). Le ruote, quindi, sono metalliche: sono enormi dischi forgiati fatti di alluminio Al-7075T6, che alle velocità più alte fanno qualcosa come 8.500 giri/min.

Risolto il problema delle ruote, restava il problema dell’attrito. Superare il muro del suono a bordo di un Thrust SSC è un po’ come ubriacarsi: l’area transonica è uno stomaco che ha dovuto accogliere svariate tipologie di alcool che non vanno sempre d’accordo fra loro (ve lo spiega in modo eccelso Jim Breuer in un suo stand-up, cercate su YouTube): succede di tutto e gestire la situazione è un gran casino. È un po’ come tornare a cavallo della seconda guerra mondiale, quando quel muro sembrava invalicabile perché gli aerei non erano ancora pronti per il grande passo.

(disegno: Germany Mycdes)

E qui, poi, c’è di mezzo il terreno: bisogna bilanciare la deportanza con precisione chirurgica, evitare che il mezzo prenda il volo, ma, allo stesso tempo, che le ruote affondino eccessivamente nella superficie del deserto, aumentando l’attrito e riducendo quindi la velocità. In questo aiutano le sospensioni attive dotate di sensori che valutano il carico sulle ruote: quando il muso tenderebbe ad alzarsi, il sistema lo obbliga ad abbassarsi e viceversa. Altri sensori monitorano i motori, pronti a disattivarli in caso di problemi; altri ancora monitorano la stessa carrozzeria, che subisce sollecitazioni sempre diverse man mano che la velocità aumenta.

Seduto in un abitacolo che può esplorare il mondo che si trova oltre la barriera del suono, con due Rolls-Royce aeronautici al posto dei finestrini e al di là del parabrezza centinaia di chilometri di deserto piatto come il petto di Keira Knightley, ti verrebbe da partire dando tutto gas come non ci fosse un domani. Ma, così facendo, i motori risucchierebbero troppa polvere e tutto finirebbe ancora prima di cominciare; Andy Green, infatti, inizia la sua impresa con la stessa penosa lentezza con la quale sua nonna lasciava la frizione di una vecchia MG.

Tanto spazio, niente curve, ma un volante (una cloche!) che va da tutte le parti, così come i bulbi oculari, che devono scandagliare la strumentazione per accertarsi che tutto funzioni regolarmente e in perfetta sincronia; dopodiché, giù la manetta e il Trust SSC inizia a galoppare con un incremento di 50 km/h ogni secondo.

All’inizio è più che altro questione di lavorare di sterzo per compensare la tendenza dell’enorme hot-dog da 10 tonnellate di galleggiare sulla superficie del deserto. La parte davvero difficile arriva a 950 km/h circa: il fondo del Thrust è già supersonico, il che si riflette sulla dinamica. Poi, va peggio: normalmente, le ruote posteriori sfalsate conferiscono al mezzo una naturale tendenza a scartare a sinistra, alla quale Andy deve sopperire controsterzando leggermente; ma, quando anche la parte superiore dell’auto si avvicina al limite transonico, Andy deve immediatamente controsterzare a destra di 90° per tenerla dritta.

– Aaahhhh la favolosa qualità video degli anni ’90… –

Così, il 15 ottobre 1997, il demone di Andy attendeva sul muro pregustando l’imminente sfacelo, godendosi uno scarto dalla linea ideale di 15 metri del Thrust, ormai quasi fuori rotta in modo irrecuperabile, schiaffeggiato dagli effetti transonici lungo tutta la sua lunghezza. Con lo sterzo girato a novanta e tutta l’esperienza e la freddezza a contenere una fifa blu, Andy capisce che per rimettere il Thrust in assetto deve necessariamente togliere potenza ai motori. Funziona. Il muso inizia a rispondere di nuovo ed è allora che Andy, probabilmente innescando il più veloce traverso della storia, controsterza e contemporaneamente torna a dare piena potenza, e…

BOOM

Andy non se ne accorge dall’interno, ma l’onda d’urto si propaga in linea retta dal muso del Thrust ormai supersonico e rompe il silenzio del deserto come una carica di dinamite. E’ un proiettile nero che lascia dietro di sé una densa e alta scia di polvere e copre il miglio cronometrato in appena 4.7″. Direi che ero veloce commenta un flemmatico Andy Green alla radio. È fatta: 763.035 mph, cioé 1227,92 km/h.

Ora, verrebbe da pensare che tutto ciò che resta da fare, per Andy, sia tirare indietro la manetta, lasciare che il Thrust SSC perda velocità e si fermi da sé grazie alla resistenza aerodinamica e all’attrito, per poi godersi i festeggiamenti. In realtà, Andy ha portato a termine solo metà dell’impresa: deve fermarla alla fine del miglio cronometrato.

Con il Thrust 2, Richard Noble doveva disattivare il postbruciatore, attendere 3″ circa perché il motore si raffreddasse e solo allora disattivarlo. A quel punto, un dito sul relativo pulsante apre il paracadute e fanno 6 G di decelerazione, qualcosa come togliere 200 km/h ogni secondo. Un’accelerazione tanto intensa, seguita da una decelerazione ancora più intensa, sconvolgono l’orecchio interno e innescano una illusione somatogravica, vale a dire, per Richard e Andy, la sensazione di procedere verticalmente, come se il loro razzo su ruote stia viaggiando verso il centro della Terra. “Pensavo di essere uscito di testa, che cavolo mi è successo?” esclamò Richard chiacchierando con gli altri pazzi di Bonneville, che fecero spallucce: “Normale, succede sempre quando apri il paracadute“.

La decelerazione, per Andy, è solo apparentemente meno traumatica, almeno all’inizio. Mentre la strumentazione del Thrust SSC si accende come un albero di Natale, rilevando perdite d’olio qua e là e l’esaurimento del carburante, la più sopportabile decelerazione pari a 1 G non è garanzia di tranquillità totale: perdere velocità più lentamente significa che questo coso scivoloso da 10 tonnellate ha più tempo per partire per la tangente nel riattraversare il limite transonico e, a una velocità di 800 km/h, iniziare a rotolare significa disintegrarsi in piccole particelle nel bel mezzo del deserto.

Andy attende così il momento in cui la distanza dalla fine della pista equivale alla velocità alla quale sta viaggiando e solo allora attiva il paracadute. A quel punto, fanno comunque 4 o 5 G…

Con la velocità che scende sempre più (“Adesso a 400 mph (650 km/h) sembra di esser fermi, tanto che ti viene da aprire il portello e smontare“, disse Noble), arriva il momento di pestare sui più tradizionali freni delle ruote per raggiungere, a circa 22 km dalla partenza, i veicoli di supporto. In nemmeno un’ora, la squadra dovrà fare rifornimento, reinstallare i paracadute, verificare che tutti i sistemi siano in ordine. Pronti per un altro giro entro 60 minuti.

BLOODHOUND SSC (e poi LSR)

Ah, attenzione: il Thrust SSC non rappresenta una sconfitta per Richard Noble. L’eroe del Thrust 2, infatti, è papà anche dello SSC. Anzi, ormai la coppia Noble/Green è tanto affiatata che la posta in gioco si alza di parecchio e ora i due pazzoidi hanno in mente di fare cifra tonda: l’erede del Thrust SSC raggiungerà le 1000 miglia all’ora. Oltre milleseicentochilometriorari. Per rendere l’idea, fanno 447 m al secondo. Anche più veloce del record di velocità aeronautico a bassa quota, 994 mph.

L’annuncio è dell’ormai lontano 2008, a circa dieci anni dall’impresa di Green nel Nevada. Questa volta si tratta di un progetto che parte con tutti i presupposti per non fallire a meno che un meteorite non si schianti sul Black Rock o i maiali inizino a volare: è un progetto aperto a qualunque mente intenda spenderci del tempo, in particolare i giovani, per ispirare gli ingegneri (britannici) di domani e addirittura contribuire allo sviluppo di soluzioni successivamente riutilizzabili nell’automotive e in altri settori.

 

 

Per non parlare del mezzo stesso: si chiama Bloodhound SSC ed è un grosso proiettile sviluppato attorno ad un telaio in fibra di carbonio e tubi d’acciaio che accoglie non uno, non due ma tre diversi motori. L’unità principale è quel bestione dell’EJ200 dell’Eurofighter, sopra il quale è installato un secondo motore a razzo; il terzo propulsore è un motore automobilistico MCT V12 da oltre 800 cv, utilizzato come APU per l’idraulica del Bloodhound, per mettere in moto lo stesso EJ200, ma, soprattutto, per azionare la pompa che disseta il razzo, che necessita di una tonnellata di carburante HTP ogni 22″ ad una pressione di 1200 psi.

– Il tuo pacco Amazon contenente “EJ200 motore razzo Eurocombattente potenza nuovo” è in consegna. Il corriere farà un passo indietro nel rispetto delle normative Covid e perché è terrorizzato –

Ah, già, momento… e il pilota? Beh quello lo infiliamo sotto l’enorme presa d’aria. Quasi un elemento secondario, Andy è stato ficcato in una posizione decisamente più scomoda rispetto al Thrust SSC, ma in nome della velocità questo e altro.

Aggiungere un razzo alla ricetta ha risvolti positivi e negativi: da un lato è un vantaggio, perché la potenza è enorme e l’assenza di presa d’aria riduce l’attrito; dall’altro, è un aggeggio on/off che rende ancora più difficile gestire il delicatissimo incremento di velocità a certe andature.

L’idea è che Andy parta con la stessa cautela adottata con il vecchio mostro e, raggiunte le 300 miglia all’ora, accenda il razzo. Da lì, la spinta sarà di 45.000 libbre, 2 G per il pilota, fino al raggiungimento della velocità massima, quando il razzo verrà spento e il jet continuerà per alcuni secondi, così da ridurre gradatamente la decelerazione a 1,5 G prima della “botta” di 3 G che arriverà quando anch’esso verrà spento. A 200 mph si apriranno i paracadute, poi sarà la volta dei freni veri e propri.

Se sul Thrust SSC le sospensioni attive ottimizzavano l’altezza da terra, ora tocca a piccole alette gestite dall’elettronica, che interviene in frazioni di secondo. Dove prima c’erano ruote sterzanti posteriori, ora la direzione la impartiscono di nuovo le ruote anteriori, benché la sezione trasversale sia il più contenuta possibile per ridurre l’attrito.

Poi c’è il motore principale, che alza il baricentro e quindi le ruote posteriori devono sfruttare sospensioni che all’apparenza sarebbero un enorme svantaggio aerodinamico, ma che il team ha ottimizzato con ore di simulazioni al computer.

– Se masticate l’inglese, fermatevi un secondo per una lezione di aerodinamica –

Le ruote da 35,8″ sono protette da coperture dalla forma particolarissima che hanno lo scopo di ridurre la resistenza a velocità supersonica, proteggendole da un flusso d’aria che altrimenti raggiungerebbe Mach 2.8. E vanno raffreddate, perché le ruote girano a oltre 10.000 giri/min, generando 50.000 G radiali. Lungo 12,8 m e pesante 6422 kg, il Bloodhound SSC è capace di un’accelerazione 0-1600 km/h in meno di 40″ e può resistere ad una pressione dell’aria pari a 12 tonnellate per metro quadrato.

L’unico, vero problema del Bloodhound SSC è decisamente molto meno affascinante da risolvere: i quattrini. Il progetto, infatti, si arena a causa del fallimento della Bloodhound Programme Ltd. Nel 2018, tuttavia, sembra riprendere vita grazie all’imprenditore Ian Warhurst, che fonda appositamente una nuova compagnia chiamata Grafton LSR Ltd e rinomina il mezzo in Bloodhound LSR. Nel 2019, nello Hakskeen Pan sudafricano delle dimensioni grosso modo vicine a quelle di Bonneville, il Bloodhound LSR ed Andy Green toccano 628 mph (1011 km/h).

Ulteriori problemi di fondi rallentano i test successivi previsti per il 2020, quando, guarda un po’, ci si mette la pandemia: in definitiva, i test previsti per il 2021 vengono annullati e il Bloodhound SLR finirà al Coventry Transport Museum senza aver potuto dimostrare tutto il suo potenziale.

Tuttavia, il ruolo dell’erede di Thrust 2 e Thrust SSC è importante quanto quello dei predecessori. Forse, paradossalmente, anche più importante: è la dimostrazione che l’ingegno umano, libero da filtri, imposizioni e restrizioni può creare dal nulla qualcosa di stratosferico come un oggetto capace di schizzare in avanti sulle ruote alla velocità di oltre quattro campi da calcio al secondo.

– Burt Munro e Jessi Combs ne sapevano qualcosa di immaginazione, tenacia e coraggio –

E’ la stessa brama di sbriciolare i limiti e declassificare l’impossibile ad ordinario che ci ha portati sulla Luna in appena nove anni; è la stessa capacità di vedere fuori dagli schemi, di immaginare ciò che è inimmaginabile che ha fatto alzare in volo il Flyer e la mongolfiera. Evviva tutti i Noble e tutti i Green del mondo passato, presente e futuro. Onore a voi.

Articolo del 20 Dicembre 2021 / a cura di Davide Saporiti

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