“Parlare con dolcezza, ma portarsi dietro un grosso bastone”
– Theodore Roosevelt, sul come condurre la diplomazia internazionale –
-il grosso bastone, rinominato Big Stick nel 1953 –
Il numero preciso ovviamente non si saprà mai, ma si stima che al termine della seconda guerra mondiale gli alleati abbiano rovesciato sulla sola Germania 1.356.828 tonnellate di bombe. Un milione e trecentomila tonnellate di bombe.
Sapete quante ne sono cadute sugli USA? Zero. Qualcosa di più se aggiungiamo alla conta Pearl Harbor, lo strambo progetto FuGo dei giapponesi e gli scontri avvenuti nelle isole pacifiche facenti parte degli States, ma il conto resta comunque dispari. (Che poi se andiamo ad aggiungere alla Germania il resto dell’Europa, tra Italia, Francia, Romania, Ungheria, Malta, Giappone e anche quelle che si sono tirati da soli, sono sicuro che il conto possa arrivare vicino ai 10 milioni di tonnellate).
Gli Stati Uniti, nella loro lunga storia fatta di guerre e bombardamenti, hanno sempre giovato (non poco) della distanza geografica tra loro e il teatro di guerra. Non a caso prima del 1941 ci si riferisce alla politica estera degli Stati uniti come “isolazionista”, proprio per definire l’atteggiamento degli States nei confronti di quello che stava succedendo in Europa, con Hitler che folleggiava e gli altri – chi più, chi meno – a subire. Sicuri del fatto che gli ameregani si sarebbero fatti gli affari loro di là dall’oceano, i tedeschi basarono tutta la loro offensiva su roba piccola e veloce, per lo più caccia (leggeri o pesanti bimotore), bombardieri in picchiata e bombardieri piccoli o medi, tutte macchine capaci di saettare agilmente, portando un QB di disastro e sparendo all’orizzonte, letali, loschi e agili.
Veloci e agili ma con poco fiato: ai tempi della battaglia d’Inghilterra per un equipaggio di He-111 o Ju-88 già andava di culo di lusso se dopo la missione nel sud dell’Inghilterra riuscivano a ritornare nella loro base in Germania senza dover ammarare sulla manica: questi aeroplani, con i loro meno di 3.000 km di autonomia erano del tutto inadatti a voli lunghi, figuriamoci se si poteva pensare di andare a bombardare l’America.
L’RLM tedesco aspettò il 1942 per rendersi conto che serviva un bombardiere strategico/pesante capace di arrivare a far danni, almeno, fino alla costa est degli Stati Uniti: prendeva così “il volo” il progetto che dall’idea del Messerschmitt P.1061 dei primi anni ’30 sfociò nell’elegante Messerschmitt Me-264 Amerika Bomber, l’ennesimo aereo che, stando ai piani del Reich, avrebbe dovuto cambiare il corso della guerra (QUI e QUI un altro paio della stessa serie).
– ala ad elevato allungamento e quattro DB-606 per volare fino a New York –
Il progetto si rivelò un flop e, nonostante l’areo volò per la prima volta già il 23 dicembre del 1942, le crescenti difficoltà della macchina bellica e industriale tedesca mandarono a remengo sia il Me-264 che l’idea di andare a bombardare gli yankee.
Niente da fare, il 6 maggio 1937 rimarrà per sempre l’ultimo giorno nel quale la svastica sventolò sopra New York.
Quindi, cosa abbiamo appena imparato da questa introduzione? Semplice: per fare la guerra servono armi capaci di arrivare dove c’è la guerra (ed ecco spiegato il grande numero di basi ammeregane situate in Europa a cingere affettuosamente la Russia). Proprio da questo presupposto nacque il bombardiere intercontinentale Convair B-36 Peacemaker (un nome, un programma), capace di raggiungere qualunque posto del mondo decollando dagli Stati Uniti, permettendo così un controllo globale anche qualora le basi europee fossero cadute.
– i più cinici diranno che l’Europa è un’enorme portaerei americana –
Ma si può fare di meglio.
Tralasciando quindi i plug-in ibridi che consumano come un lavandino non appena la batteria si scarica e rimpiangendo i vecchi TDI iniettore pompa che tiravano come dei matti e facevano i 20 km/l anche a tutto gas, se dobbiamo pensare ad un motore dall’autonomia quasi illimitata e che non deve praticamente mai tornare alla base per rifornire, dobbiamo ripiegare sull’energia nucleare. Banalmente, una moderna portaerei della classe Nimitz può restare in mare per 20 anni senza alcun rifornimento di carburante. Venti anni. Ah, QUI vi raccontiamo dell’Arktika, il famigerato rompighiaccio nucleare sovietico, roba tosta.
Il prosieguo del discorso è quasi ovvio: e perché non fare un aereo a propulsione nucleare? Sarebbe figo, potremmo scordarci scali, rifornimenti in volo, problemi di distanza. Potremmo rimanere in volo continuativamente senza alcun problema, potremmo andare ovunque!
Ma questa è blasfemia, questa è pazzia!
(anche perché un aereo per definizione dovrebbe essere leggero e, sempre per definizione vola e quindi, potrebbe cadere)
Comunque
Pazzia? QUESTA È L’AMERICA!
L’idea viene per primo a Enrico Fermi in persona che, mentre a Los Alamos lavora sui primi reattori nucleari nell’ambito del progetto Manhattan nel 1942, si illumina e dice “ehi, perché non sfruttiamo questa nuova energia per creare aerei dall’autonomia virtualmente infinita?”. Sul momento nessuno lo ascolta, l’obiettivo è la bomba, non creare qualcosa di eticamente (e potenzialmente) corretto. La faccenda cambierà più avanti, quando l’Unione Sovietica diventerà IL NEMICO: una eventuale guerra nucleare richiedeva la necessità di essere svincolati dalle basi europee (le prime a cadere in caso di attacco sovietico); servono quindi aeroplani in grado di essere in volo sempre, capaci di raggiungere il territorio sovietico e di scaricare le loro bombe qualunque cosa succeda a terra.
Ah, per inciso: all’epoca il rifornimento in volo non esisteva e la missilistica era ancora agli albori.
Nel 1946 nasce così il progetto NEPA (Nuclear Energy for the Propulsion of Aircraft) con l’obiettivo di realizzare un aereo a propulsione nucleare, un bombardiere perfetto che, secondo i piani, avrebbe dovuto stazionare sopra l’artico senza alcun limite di tempo se non quello dato dai limiti umani del suo equipaggio, e pronto a volare ovunque ci fosse bisogno di devastazione. La teoria si trasforma in pratica nel 1947 quando la neonata USAF versa 10 milioni di dollari nel progetto e, nonostante lo stesso Robert Oppenheimer fosse piuttosto scettico, il progetto prende vita.
Primo problema: come trasferiamo l’energia nucleare ad un motore convenzionale?
Per rispondere a questo quesito vennero proposte numerose configurazioni: la prima idea fu di alimentare le eliche con dei motori elettrici ma alla fine si scelse di accoppiare un singolo reattore nucleare a uno o più turbogetti tradizionali. Ora, prima di andare avanti, cerchiamo di capire come funziona un reattore nucleare e come potremmo sfruttarlo per portare i bomboni sulla Russia.
Allora, facendola facilissima, un reattore nucleare non è altro che un grandissimo generatore di calore, prodotto dall’energia liberata dalla reazione di fissione nucleare (lasciamo la fusione nucleare al sole e al film “il Santo” con un camaleontico Val Kilmer).
Bene, tralasciamo Val Kilmer e la sempre ottima Elisabeth Shue. In una centrale elettrica nucleare questo calore viene usato per trasformare l’acqua in vapore, il quale fa girare delle turbine che a loro volta sono collegate a delle dinamo che creano energia elettrica. Ah, importante, l’acqua che il reattore trasforma in vapore ha anche la funzione di refrigerare il reattore stesso, proteggendoci da cose tipo Chernobyl. Fin qui, facile.
Ora veniamo ad un turbogetto: il compressore aspira aria e, come il suo nome suggerisce, la comprime. visto che PV=nRT, ad un aumento di pressione causato da una diminuzione del volume disponibile, la temperatura aumenta: l’aria ad alta temperatura viene miscelata con carburante e viene accesa, la sua temperatura aumenta ancora, così come la sua voglia di espandersi. Cosa che può fare uscendo dal motore, spingendo in avanti l’aereo (o qualunque cosa sia collegata al turbogetto) e, già che c’è, facendo girare la turbina, la quale, in un circolo virtuoso, alimenta il compressore. Che alimenta la turbina, che alimenta il compressore e così via.
Ora, mettiamo assieme le due cose: l’idea di base del progetto NEPA fu quella di mettere un reattore nucleare fra il compressore e la turbina. L’aria in pressione sarebbe stata fatta passare attraverso il reattore, raffreddandolo e contemporaneamente surriscaldandosi (si chiama scambio di calore, io mi scaldo asportando il tuo calore e, come conseguenza, ti raffreddi). Dopo questa fase, l’aria sarebbe stata convogliata alla parte posteriore del motore a getto, alimentando la turbina e procedendo verso lo scarico, generando così la spinta in avanti. L’idea è talmente facile e ovvia che a questo punto non ci stupiamo nemmeno tanto che ci abbiano provato.
Quello che venne dopo le idee del NEPA è una serie infinita di esperimenti e prove che, oltre a durare decenni, costerà al governo degli Stati Uniti una cifra spropositata senza mai produrre alcun aeroplano a propulsione nucleare. Ma andiamo con calma senza troppi spoiler.
– sotto due turbogetti, sopra il reattore, nel mezzo i tubi che convogliano l’aria –
Terminati gli studi di fattibilità finanziati dai 10 milioni dell’USAF e condotti dal NEPA, nel 1951 il progetto venne inserito nel programma Aircraft Nuclear Propulsion (ANP), al quale partecipava non solo l’USAF ma anche l’AEC (Atomic Energy Commission, ora dipartimento per l’energia) con l’obiettivo di andare oltre alla teoria e di costruire un TURBOREATTORE NUCLEARE per un aereo con equipaggio.
Ripetete con me, TURBOREATTORE NUCLEARE.
Costo previsto dell’intero progetto: 1 miliardo di dollari.
Il programma ANP venne affidato a due team di appaltatori: da un lato General Electric e Convair, dall’altro Pratt & Whitney assieme a Lockheed. Mentre GE e P&W avrebbero dovuto costruire i motori, Convair e Lockheed l’aeroplano che li avrebbe ospitati. A corredo di questi, lavorarono al progetto anche l’Oak Ridge National Laboratory dell’AEC e il Lewis Flight Propulsion Laboratory della NACA (che poi diventerà la NASA), ora noto come Glenn Research Center. Questi facevano sul serio.
Mentre quindi tutti questi lavoravano ai loro progetti, l’ANP si occupò di dimostrare che i reattori nucleari potevano essere utilizzati in sicurezza a bordo degli aerei.
Secondo problema: su che aereo montiamo l’accrocco?
Questa fu la parte più semplice del progetto.
Per testare i sistemi e il corretto funzionamento del reattore nucleare ASTR – Aircraft Shield Test Reactor – da 1 MW (ma alcune fonti parlano di 3 MW), progettato appositamente dagli ingegneri di Oak Ridge, costruito dalla Convair e del peso di 15.900 kg, venne deciso di prendere un vecchio B-36H del SAC (matricola 51-5712) rimasto danneggiato da una tempesta, e di modificarlo profondamente sia per ospitare il pesante reattore nucleare che per proteggere il suo equipaggio e l’avionica dalle radiazioni. Il reattore venne messo nel posto che nell’aereo “normale” era occupato dal vano bombe n°4, mentre per quanto riguarda l’equipaggio vennero fatte diverse scelte. La cabina di pilotaggio originale venne sostituita da una massiccia struttura pesante 11 tonnellate completamente rivestita in piombo e gomma, con finestrini più piccoli e spessi 25-30 cm.
Cosa potrà mai andare storto?
– Vano bombe del NB-36H con il reattore nucleare al suo posto –
L’equipaggio avrebbe poi potuto tenere sott’occhio quel che succedeva nel vano del reattore – da cui era separato da un disco di piombo e sacchetti di acqua del peso complessivo di 4 tonnellate – grazie ad un sistema TV a circuito chiuso. Il risultato fu il NB-36H Crusader, il Nuclear Bomber, riconoscibile grazie al simbolo della radioattività sulla deriva e ad una colorazione specifica.
– si notano le prese d’aria alla fine della fusoliera per mantenere fresca “la bestia” –
Oltre a questo il NB-36H era dotato di un lunga serie di sistemi per monitorare la qualità dei gas di scarico: su questi non possiamo non menzionare il “project halitosis” per misurare costantemente i gas radioattivi in uscita dal reattore.
Progetto alitosi: non stiamo facendo gli asini, ve lo garantisco è tutto vero.
Notare che l’ASTR installato nel NB-36H non era in alcun modo collegato ai motori dell’aereo, che volava grazie al classico impianto propulsivo del B-36, con sei motori a pistoni Pratt & Whitney R-4360-53 da 3.600 cv l’uno e quattro turbogetti General Electric J47 (gli stessi dell’F-86 Sabre). Il reattore veniva acceso in volo e ogni volta che l’aereo atterrava veniva rimosso per raccogliere dati e informazioni utili alla ricerca. In caso di emergenza era inoltre stato predisposto un sistema per eiettare il reattore nucleare lasciandolo libero di cadere a terra. Forse è anche per questo che l’NB-36H volava sempre sopra zone scarsamente popolate, evitando accuratamente le grandi città.
Ops, mi è caduto
Accompagnato da un Boeing B-50 dotato di speciali strumentazioni per mappare la traccia radioattiva del grosso aereo, e con a bordo degli speciali Marines addestrati ad operare in caso di grave incidente (li chiamavano Glow in the dark, luce nel buio), l’NB-36H compì 47 voli, per un totale di 215 ore di volo, 89 delle quali con il reattore funzionante ma, come detto prima, con la propulsione sempre affidata ai motori tradizionali. L’ultimo volo dell’NB-36H venne effettuato nel mese di marzo del 1957 e il programma venne chiuso con successo: dicono che l’aereo non espose nessuno ad alcun pericolo, né a bordo né a terra, nemmeno nei voli a bassa quota con il reattore in funzione. Si poteva andare avanti.
Nel frattempo in Russia iniziava a volare uno speciale Tupolev Tu-95 Bear modificato come l’NB-36H per testare la fattibilità di portarsi a spasso un reattore nucleare. L’aereo si chiamava Tu-119 Letayushchaya Atomnaya Laboratoriya (laboratorio atomico volante) e era molto meno esplicito circa il suo pericoloso carico.
Come al solito i sovietici sono i più fighi di tutti, ma gli americani, con la loro smania di fare gli sburoni, ci rendono il lavoro più facile e fanno le cose alla luce del sole: con il laboratorio volante in volo (e promettente), il programma ANP cacciò dentro la terza e iniziò a fare sul serio. Mentre la General Electric prendeva la guida del progetto, la Pratt & Whitney riceveva dei fondi sottobanco per sviluppare una alternativa qualora la GE fallisse. Di conseguenza GE e P&W presero due strade completamente diverse.
General Electric iniziò a sviluppare un turbogetto nucleare a “ciclo diretto”, un sistema aperto in cui l’aria proveniente dai compressori passa direttamente attraverso il nocciolo del reattore: questo è il metodo più ovvio e semplice, se non fosse che in questo modo l’aria che esce dagli scarichi di questo motore dell’Armageddon si tira dietro un notevole carico di particelle radioattive.
– schema di un turbogetto nucleare a ciclo diretto –
General Electric iniziò quindi a sviluppare il P-1, (o X-39, la bibliografia su questa storia è tanta e confusa), un complesso turbogetto nucleare basato su due turbogetti J47 uniti da un reattore nucleare General Electric R-1, alimentato a biossido di uranio e raffreddato ad aria e acqua. I postbruciatori dei motori sarebbero poi stati alimentati a cherosene. Questo propulsore sarebbe dovuto finire sul Convair X-6, un bombardiere ibrido nucleare/convenzionale derivato anch’esso dal B-36. L’aereo sarebbe stato portato in volo dal suo impianto propulsivo tradizionale poi, in volo e con il reattore a regime, la propulsione sarebbe passata dai 6 giganteschi motori radiali ai soli TURBOGETTI ATOMICI. Viceversa in fase di atterraggio (per una questione di sicurezza, soprattutto in caso di atterraggio di emergenza).
Tuttavia, nonostante il grande successo dei test condotti dal NB-36H, nel 1953 l’USAF fermò il progetto P-1/X-39 perché voleva un bombardiere completamente nucleare, non un robo ibrido che, allora come oggi, non sapeva né di carne né di pesce: le cose, se le si fa sborone, le si fa sborone fino in fondo. L’USAF spostò quindi le sue peggiori voglie sul progetto Weapons System 125A (WS-125A) e GE non potè far altro che reindirizzare tutto il lavoro svolto sul P-1 in tre dimostratori a terra chiamati HTRE, Heat Transfer Reactor Experiment, presso l’Idaho National Laboratory.
– i complessi HTRE 1 (sinistra) e HTRE 3 (destra) in bella mostra presso l’Idaho National Laboratory ad Arco, Idaho –
– Schema dell’HTRE-1 sopra, HTRE-1 e il suo staff sotto (non proprio un motore compatto) –
Gli esperimenti quindi procedettero a terra: l’obiettivo era sviluppare un turboreattore atomico capace di accendersi SOLO con l’energia nucleare. Nei primi esperimenti infatti i turbogetti venivano accesi sempre utilizzando carburante standard: man mano che il calore del reattore aumentava, il carburante veniva lentamente diminuito in modo da mantenere costante la temperatura nella turbina per poi, infine, passare completamente alla propulsione atomica.
HTRE-1 e 2 iniziarono a dare i primi buoni risultati e HTRE-1 fu il primo prototipo di motore aeronautico nucleare a diventare operativo, acceso nel gennaio 1956. Formato da un J47 accoppiato ad un reattore da 20,2 megawatt, questo motore tuttavia aveva prestazioni inferiori a quelle di un J47 standard, molto bene. Procedendo con gli studi prese velocità anche HTRE-3 che iniziò a mostrare buoni risultati utilizzando un reattore raffreddato 100% ad aria e tenuto sotto controllo da un moderatore di neutroni solido composto di zirconio idrurato, utile anche per migliorare il rapporto peso/potenza del reattore.
– HTRE-3 senza le strutture di supporto –
Tutto molto bello fino a quando nell’ottobre del 1956 HTRE-3 subì un incidente che provocò una fusione parziale, danneggiando tutte le barre di combustibile nel reattore: non esattamente il genere di cose che vuoi che succedano su un aereo in volo. Aggiusta di qua, sistema di là, il progetto HTRE-3 andò avanti fino al 1959, diventando il primo motore a turbogetto ad avviarsi solo con l’energia nucleare senza però raggiungere le prestazioni che l’Air Force sperava.
Sempre l’Air Force nel frattempo aveva cambiato idea e invece che un bombardiere – che considerava poco promettente -voleva un “lanciamissili continuativo” denominato CAMAL ((Continuous Airborne Missile Air Launcher). Nasce così il progetto Convair NX-2, un aereo fantascientifico a propulsione 100% atomica che sembra lo Starmax Bomber con cui noi nati negli anni ’80 giocavamo da sbarbi. Il project manager del programma NX-2 era Bruno Bruckmann, ex ingegnere nazista della BMW, “catturato” con l’operazione Fedden e portato a lavorare in America.
Immagine via questo sito bellissimo.
Per la propulsione di questo aggeggio la General Electric calò l’asso e iniziò a lavorare al XNJ140 E-1, un gigantesco turbogetto nucleare progettato per sostenere una velocità di crociera di Mach 0,8 a un’altitudine di circa 35.000 piedi, con una vita del motore di almeno 1.000 ore. Alimentato da un reattore da 50 MW, questa bestia poteva essere spinta fino a 112 MW, ottenendo così una spinta totale di oltre 23.000 chili, una cifra folle nel 1960 (un moderno GE-90 riesce a generare oltre 50.000 chili di spinta).
Il giochino però finì bruscamente nel 1961, quando Kennedy chiuse definitivamente l’intero programma di propulsione nucleare, probabilmente a causa dei recenti sviluppi in ambito missilistico, sulla possibilità di rifornire in volo e anche perché fino a quel punto erano già stati spesi sette miliardi di dollari, senza mai veder volare un caz niente di niente.
7.000.000.000 $.
Noi, generazione della crisi, ripetiamo in coro: settemiliardididollari.
Comunque, mi dispiace, questa storia finisce così, senza rottami fumanti, senza aerei nucleari caduti in paesini sperduti, senza grossi colpi di scena (per quanto ne sappiamo noi). Questa è la storia di un gigantesco spreco di denaro e di un gigantesco fallimento scientifico. Poche cose nella storia hanno fallito così duramente quanto la promessa del nucleare, incredibile fonte di energia dal potenziale illimitato ma purtroppo difficilmente sfruttabile e vittima della sua stessa esagerata potenza.
MA
Quella che vi ho appena raccontato è la storia principale, è il Side A della cassetta. Ma ogni Side A ha un Side B e, mentre l’NB-36H volava tranquillo e l’X-6 prendeva forma, tutte le aziende coinvolte nel progetto iniziarono a volare con la fantasia, dando così vita a progetti al limite della fantascienza. Mentre infatti la General Electric procedeva i suoi studi sui propulsori di tipo diretto, la Pratt & Whitney sviluppava quelli a ciclo indiretto, nei quali l’aria compressa dai turbogetti non passava direttamente nel nocciolo ma veniva scaldata da dei particolari scambiatori di calore. Il calore generato dalla reazione di fissione nucleare sarebbe stato trasportato nel radiatore da metallo fuso (o acqua ad altissima pressione), riscaldando così l’aria che passava attraverso lo scambiatore nel suo percorso verso la turbina. P&W costruì così diversi motori, senza però mai raggiungere la potenza e il rapporto peso/potenza richiesti dall’USAF.
– schema di turbogetto nucleare a ciclo indiretto –
Ma questo è niente: nel frattempo infatti venne portato avanti anche il misterioso “project Pluto“, con cui sviluppare un ram-jet a propulsione atomica utile per alimentare un missile supersonico a bassa quota, chiamato “SLAM”. In teoria questo missile doveva essere lanciato con un propulsore a razzo standard e poi potenzialmente volare per mesi, una vera spada di Damocle che penzola ad alta quota ad una velocità compresa fra Mach 3.5 e Mach 5, con nella sua stiva fino a otto testate nucleari e la capacità di un attacco finale a bassa quota per eludere i radar di difesa aerea sovietici.
– modello dello SLAM prodotto dalla Vought –
-Slam con il suo motore ramjet nucleare nella galleria del vento –
Nel frattempo, mentre gli americani si facevano di LSD viaggiavano con la fantasia grazie a finanziamenti senza fine, in unione sovietica iniziava a volare della roba strana ma, come si suol dire, questa è un’altra storia.
Ora, dopo esservi letti tutta sta storia, perché non celebrate i prossimo natale con uno dei nostri nuovi patacchi in edizione limitata? Potrebbe essere anche un buon modo per sostenere rollingsteel e far sì che possiate continuare a leggere storie simili!
Fonti per la stesura del testo:
- NX-2, Convair Nuclear Propulsion Jet, David M. Carpenter
- The Swallow and Caspian Sea Monster vs. the Princess and the Camel: The Cold War Contest for a Nuclear-Powered Aircraft, Raymond L. Garthoff, cia.gov
- New Aircraft II, Florian Ion Petrescu & Relly Victoria Petrescu
- Nuclear Shadowboxing, contemporary threats from cold war weaponry, Alexander DeVolpi, Vladimir E. Minkov, Vadim A. Simonenko, George S. Stanford
Come spiegare concetti difficili in parole semplici. Quest’articolo è semplicemente sublime…
Molto interessante bravo
Che dire, articolo tanto interessante quanto scorrevole e piacevole nella lettura…
Complimenti davvero!
Bravo, interessante e piacevole lettura!
Ho scoperto Rollingsteel solo ieri, e credo diventero’ un lettore abituale.
questo per inquadrare il periodo
https://www.youtube.com/watch?v=zeyoJGqKbOQ
e si, non solo i russi erano pazzi con l’atomo
La scuola italiana si potrebbe risollevare se ci fossero insegnanti come Voi di rollingsteel, io per seguire una lezione di chimica o fisica così sfiderei pure il Covid-19. Concetti spiegati benissimo.
Per quanto riguarda articolo, la guerra sia calda che fredda ha spesso partorito idee pazzesche e non solo ammerigane, tipo la gigantesca portaerei di ghiaccio inglese o dei progetti russi di soldato scimmia, o le varie droghe potenziatrici naziste.
Ciao! Articolo che fa sognare un ingegnere nucleare.. Occhio però a un refuso quando parli dell’ HTRE-3 “tenuto sotto controllo da un moderatore di neutroni solido composto di zirconio idrurato,” moderazione e controllo sono due concetti diversi nei reattori nucleari. Il controllo lo fai assorbendo neutroni (e riducendo quindi la potenza) con materiali assorbitori (come il boro), invece la moderazione consiste nel rallentare i neutroni (che paradossalmente incrementa la reazione e la potenza) e lo si fa facendoli “rimbalzare” contro nuclei non troppo pesanti (di solito idrogeno o carbonio). Per moderare quindi si usa tipicamente o acqua o grafite, mentre per controllare si usano assorbitori come appunto il boro. Lo zirconio invece è un materiale molto usato per scopi strutturali poichè assorbe poco i neutroni, resiste alla corrosione e a stress meccanici e termici. Il moderatore a zirconio idrurato non l’avevo mai sentito, ma ha perfettamente senso se ti serve un moderatore solido che deve stare contatto con dell’ossigeno. Usare la grafite non sarebbe una scelta saggia vista la sua brutta abitudine ad ossidarsi ad alte temperature.
Articolo eccellente