“non chiedere mai:
- a un uomo quanto guadagna,
- a una donna la sua età,
- a un sardo come sono i treni nella sua regione”
Ormai quotidianamente sui nostri televisori e smartphone compaiono servizi riguardanti proteste no-TAV nel nostro Paese. Tralasciando l’opinione che ognuno è libero di farsi sull’argomento, e tralasciando che non ho ancora ben capito come bisogna spostarsi se oltre all’auto e all’aereo pure il treno inquina (a dorso di mulo si incazzano i vegani), ogni volta che sento parlare di quel tipo di proteste la mia mente viaggia verso un fatterello accaduto negli anni Ottanta, quando la Prima Repubblica era ancora in gran forma. E dato che ci sono di mezzo delle, pur sfortunate, bellissime locomotive, ho deciso di raccontarla qui.
La Sardegna è indubbiamente una regione italiana particolare. La densità di popolazione è superiore solamente a quella delle Marche e della Val d’Aosta; questo, assieme al trovarsi a ore di navigazione dalla terraferma, ha contribuito al mantenerla un territorio in gran parte disabitato e incontaminato, dove la natura è riuscita a tenersi i suoi spazi. Fino a una certa epoca l’economia si reggeva più che altro sull’agricoltura e sulle miniere e questo, logicamente, non ha aiutato il suo sviluppo; a farla breve, nel 1861, quando nacque l’Italia (per opera del Regno di Sardegna), l’isola era l’unica regione sprovvista del treno, un’invenzione che nei trent’anni precedenti si era diffusa invece con una velocità impressionante in qualsiasi fazzoletto di terra di tutta Europa. Per dare un’idea, nella stessa data erano già presenti 2000 dei circa 16700 km di ferrovie attualmente esistenti tra Italia continentale e Sicilia; meno della metà erano di proprietà del Regno o gestite da esso, e bisognerà aspettare il 1905 per vedere la nazionalizzazione del guazzabuglio di società private che gestivano (male) il resto, in un vortice di debiti, fallimenti e proteste sindacali. In quell’anno nascono le Ferrovie dello Stato, direttore ing. Riccardo Bianchi.
Intanto, in Sardegna si forma una società, la Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde, che porterà all’apertura del primo tratto dell’attuale Cagliari-Olbia nel 1871. La società mantiene l’autonomia per più tempo rispetto a quelle che operavano nel continente, fino al 1919, quando le concessioni vengono rilevate dalle FS, con l’eccezione delle linee a scartamento ridotto. Sotto la nuova guida, però, l’evoluzione della ferrovia non segue lo stesso andamento del continente, un po’ per un discorso di densità abitativa, un po’ per le dimensioni dell’isola. Insomma, l’epilogo si può vedere sul sito di RFI. Cominciamo a snocciolare numeri: dei 1300 km circa di binari attivi negli anni ’40, periodo di massimo sviluppo della rete ferroviaria sarda, ne risultano esistenti oggi solo 476, di cui 427 operativi, a cui aggiungersi qualche decina di chilometri a scartamento ridotto che non figurano in elenco perché gestiti da altre società e ad utilizzo saltuario, prevalentemente turistico. Fino a qui tutto bene: è chiaro che non se ne usano più di quello che serve. La situazione comincia a sfuggire di mano quando leggiamo che sono solo 50 i chilometri a doppio binario, precisamente quelli tra Cagliari e S. Gavino. Proseguiamo: ci sono 103 km di linea privi di SCMT, un dispositivo di fondamentale importanza per la sicurezza (ne abbiamo parlato QUI); è presente in quel caso il molto più semplice SSC, che riesce ugualmente nel compito di non far scontrare i treni, però utilizza la stessa tecnologia del Telepass al posto delle boe a induzione e dunque funziona solo fino a 150 km/h, che comunque, scopriremo, sulle ferrovie sarde sono un miraggio, anche perché sono pochissimi i treni a gasolio italiani che ci arrivano (mentre la maggior parte dei regionali elettrici i 160 li fanno); quanto osservato ci porta a un altro dato: quello sui chilometri di ferrovia elettrificata, che è un sonoro zero, e sul quale torneremo fra un attimo.
Prima, passiamo dai numeri alla realtà: facciamo finta di andare a trovare un nostro amico, che ne so, a Olbia; arriviamo in aeroporto a Cagliari e poi ci facciamo prendere dalla malsana idea di giungere a destinazione in treno (c’è da dire che c’è la fermata direttamente in aeroporto). Allora apriamo l’app di Trenitalia, inseriamo le stazioni di partenza e di arrivo e – sorpresa – ci ritroviamo l’imbarazzo della scelta di un treno ogni due ore, che impiega dalle 3 ore e 29 minuti alle 4 e 12 per fare 270 chilometri, effettuando in quest’ultimo caso 17 fermate intermedie.
Ma va bene: non abbiamo fretta, per fortuna; facciamo il biglietto e andiamo verso la stazione. Ivi giunti, ci chiediamo: ma il museo ferroviario di Trieste non lo stavano ristrutturando? Già, perché il materiale è un po’… vintage. Sulla “Carta dei Servizi Sardegna 2023” di Trenitalia si legge che dei 46 mezzi circolanti 29 ha più di 15 anni. Se siamo appassionati ci divertiamo un mondo. Se siamo pendolari un po’ meno. Cominciamo ad osservare, in rispettoso silenzio, queste opere d’arte del genio ferroviario del passato.
Ora che abbiamo le idee chiare riguardo allo spezzatino ferroviario sardo, tra astronavi ibride e littorine tipo l’aereo di Villaggio e Lino Banfi, possiamo finalmente venire al nocciolo della questione.
La grande maggioranza dell’energia elettrica in Sardegna è prodotta da centrali a carbone. Quando pure qualcuno si sogna di costruire un parco eolico gli ambientalisti rompono le balle (non sto scherzando), ma la politica del “no” è una costante italiana. Comunque, tralasciamo per questo motivo l’aspetto ambientale, limitandoci a dire che l’elettrificazione risolve il problema dell’accumulo, che invece è una gatta da pelare in tutto il mondo automotive. Del resto, la vicenda che raccontiamo adesso è ambientata negli anni Ottanta, quando a nessuno fregava ancora qualcosa dell’ambiente, e l’elettrificazione delle ferrovie ha ben altre ragioni.
Fra tutte, le prestazioni. Per quanto varino tra convogli diversi, rendendo difficile un confronto preciso, si può affermare con una certa sicurezza che per servizi “regionali”, con parecchie fermate, un treno elettrico ha un tempo di percorrenza inferiore di un buon 30%, e il perché si evince affiancando le schede tecniche, per esempio, del Minuetto a gasolio sopra citato e della sua versione a corrente:
- ALn 501/502 (diesel): potenza 1120 kW, peso 100 tonnellate, velocità massima 130 km/h;
- ALe 501/502 (elettrica a 3000V c.c.): potenza 1250 kW, peso 91 tonnellate, velocità massima 160 km/h.
Non sono disponibili dati precisi sull’accelerazione, ma la differenza è abissale, e percepibile anche da passeggeri. Aggiungiamo che l’investimento per la linea di alimentazione oltre un certo traffico si ripaga, sia per il costo inferiore dei convogli sia per i costi di esercizio che praticamente si dimezzano.
Non dimentichiamoci che, in fin dei conti, le prime linee ferroviarie italiane furono elettrificate, in corrente alternata trifase a 3600 V, oltre che per un discorso di costi di gestione, principalmente di prestazioni. Quando arrivarono le prime E.550 sulla rognosissima linea dei Giovi, trainavano un buon 25% di peso in più rispetto alle locomotive a vapore contemporanee e a velocità superiori, tant’è che in caso di marcia in doppia trazione la seconda locomotiva veniva messa in coda perché i ganci dell’epoca non riuscivano a reggere uno sforzo del genere.
Insomma, perché non elettrifichiamo anche la Sardegna?
Così dovevano pensare negli uffici della Regione il 12 febbraio 1981, quando firmarono una legge che prevedeva elettrificazione e raddoppio di 350 km di linea. Fiat Ferroviaria fiutò l’affare e costituì assieme ad Ansaldo e a un po’ di altre aziende il consorzio TEAM, Trazione Elettrica Alternata Monofase.
Eh?
Fermi tutti, abbiamo saltato un pezzo.
Nel 1981, la stragrande maggioranza delle linee italiane elettrificate funzionava con corrente continua a 3000 V, una soluzione tutt’ora in uso sulle linee “dei regionali”, ideata negli anni ’20, e tutto sommato semplice da mettere in pratica. Qualsiasi utilizzo della corrente alternata, dalle prestazioni superiori, complicava le cose, ma la sua superiorità era abbastanza schiacciante, tant’è che i tedeschi e gli svizzeri ne facevano largo uso da decenni, con soluzioni completamente differenti dalle nostre. Infatti le loro macchine funzionavano completamente in CA compresi i motori che, sebbene ancora a collettore, se eccitati in serie si possono non alimentare necessariamente in continua. Ed è così che quando nella comunità europea, che ancora doveva diventare UE, si pensava di stabilire uno standard di tensione che consentisse l’interoperabilità fra i treni di tutta l’Europa, al netto di mille altri paletti imposti dai sistemi di sicurezza, si scelse la soluzione dalle prestazioni migliori.
Furono i francesi a stabilire quello che oggi è lo standard per le linee ad alta velocità europee, la corrente alternata monofase a 25000 V 50 Hz, che loro in realtà usavano su alcune linee normali fin dagli anni ’50. Questa per noi è un po’ una rogna da gestire; praticamente tutti i convogli AV devono infatti essere bitensione, per poter circolare anche sulle linee tradizionali (esempio: se prendete il Frecciarossa da Firenze a Venezia fino a Bologna viaggia su linea AV, da Bologna a Venezia su quella normale). Ci torneremo, perché ne sono successe delle belle. Per oggi, ci basta dire che al TEAM, giustamente, pensarono che tale problema in Sardegna non sussisteva, perché la rete è completamente isolata e priva di qualsiasi sistema già esistente (contrariamente alla Sicilia, dove alcuni treni Intercity vengono traghettati quotidianamente sullo Stretto in maniera da garantire un servizio continuo tra isola e continente).
Dunque, se bisogna partire dal classico foglio bianco, perché non usare il sistema migliore?
Insomma, il progetto partì col migliore dei presupposti; tanti ingegneri presero dei grandi fogli bianchi, affilarono le mine, caricarono con la china le Rapidograph e misero in pratica studi ed esperienza. Ed ecco che su detti fogli comparve una locomotiva mai vista prima in Italia, pur se ricordava macchine più vecchie nella linea, che è di Giugiaro. In particolare il frontale somiglia a quello della E656. Se a livello strutturale invece poteva ricordare una E632 con un carrello in meno e i motori erano gli stessi delle E454 sperimentali, le cose in comune con altre macchine si fermavano qui, mentre sul lato “elettrotecnico” si partì veramente da zero. Un grosso trasformatore raffreddato a bagno d’olio alimentava sia i 4 motori sopra menzionati, due per carrello, sia tutti i servizi. Una soluzione con gli occhi di oggi anacronistica, visto che i motori asincrono trifase sono superiori a quelli in corrente continua su ogni fronte, a cominciare dall’assenza dei collettori o spazzole, e dunque si utilizzerebbero uno o più convertitori per alimentarli; ma siamo nell’81 e di carne al fuoco ce n’è già parecchia. Mancano ancora 13 anni per vedere i motori asincrono trifase sulle E.402A. La trasmissione dai motori alle ruote avviene tramite un riduttore a ingranaggi; a seconda del rapporto, si ottiene una velocità massima di 140 km/h (E.491) o di 160 (E.492). La seconda era pensata per i servizi passeggeri e dunque dotata della condotta REC per i servizi e il riscaldamento delle carrozze, la prima per i treni merci.
Due anni dopo l’avvio del progetto parte l’ordine per 19 unità merci e 6 passeggeri; nel frattempo, viene elettrificato in via del tutto sperimentale qualche chilometro della dismessa ferrovia Civitavecchia-Orte (intanto il conto saliva), dal momento che non c’era un singolo metro di ferrovia in tutta Italia che funzionasse con la nuova tensione dove testare le macchine. Si attendono tre anni per l’uscita dei primi esemplari e intanto, per non perdere tempo, si cominciano a tirare i cavi tra Cagliari e Decimomannu e tra Villasor e Sanluri.
Vi piacerebbe vedere un lieto fine, eh?
Illusi.
Durante le prove venne riscontrato un problema tecnico. Niente di fantasmagorico: le apparecchiature di bordo per il controllo della tensione interferivano (pare) con i dispositivi di bordo atti a leggere le informazioni provenienti dal circuito di binario. What the dick? Semplicemente, in ferrovia le rotaie (che sono di acciaio e, dunque, conducono la corrente) sono usate come mezzo per trasmettere ai treni le informazioni riguardanti i segnali luminosi ed eventuali riduzioni di limite velocità. In base allo stato del segnale successivo, i binari vengono percorsi da una corrente alternata ad una determinata frequenza; questa corrente viene rilevata dal treno, che proietta le informazioni sul quadro comandi del sistema RSC (Ripetizione Segnali in Cabina), oggi un tutt’uno col pannello del SCMT.
Ora, un problema di interferenza del genere era risolvibile, talmente risolvibile che intanto il costruttore cominciò a spedire le macchine in Sardegna, attraverso lo scalo “ferro-marittimo” di Civitavecchia (a tale scopo, può essere interessante notare come fino al 2010 fosse operativo un servizio di traghettamento di carri merci, imbarcati su navi delle FS dotati di appositi binari, fino a Golfo Aranci; oggi lo scalo è stato demolito e quindi per portare un treno in Sardegna bisogna farlo passare da Villa S. Giovanni). Ed è proprio in questo periodo che le istituzioni cambiano idea e le FS interrompono i lavori di elettrificazione.
Siamo nell’86 e, per qualche ragione legale o burocratica, se i lavori per la catenaria si fermano, proseguono a gonfie vele le consegne delle macchine e, giustamente, il pagamento delle stesse. Macchine che non potevano circolare su un singolo metro di ferrovie continentali, visto che i lavori per la Roma-Napoli, la prima col sistema europeo a 25000 V, cominceranno solo nel ’94; e si trattava di una ferrovia ad alta velocità, che sarebbe stato uno spreco far percorrere da macchine che raggiungevano, al più, i 160. Insomma, andò a finire che le locomotive vennero reimbarcate verso l’Italia continentale e spartite per vari depositi con pochissimi chilometri all’attivo. Qui rimasero accantonate per anni; non facevano le ruote quadrate solo perché le avevano di ferro, ma il senso era quello.
Nel frattempo, una regione con un milione e mezzo di abitanti aveva, e ha tutt’ora, una linea ferroviaria principale con la velocità media delle diligenze di Lucky Luke, a binario singolo e su cui circolano littorine con 6-7 milioni di chilometri alle spalle, che si riescono a riparare agevolmente giusto perché un po’ di componentistica proviene dai camion.
Il più degli abitanti si è rassegnato a circolare con l’auto o autolinee private.
Intanto, le FS tentarono la vendita delle 25 locomotive prima alle ferrovie francesi, poi a quelle turche, poi a quelle bulgare, infine a quelle ungheresi; tutte queste ultime utilizzavano i 25 kV anche per alcune linee non AV ed erano quindi papabili acquirenti. Ma delle macchine ferme da anni con due dita di polvere, che nessuno aveva mai visto circolare per conto proprio, non facevano gola, e tutti gli esemplari in test ritornarono nei loro depositi. Nel 2003, quando le dita di polvere erano diventate quattro, venne tentato un maldestro esperimento sulla linea alta velocità Roma-Napoli, quello di trainare un treno merci con una di queste macchine, idea che in ogni caso non avrebbe avuto seguito, perché usare macchine da 140/160 all’ora su linee da 300 non ha senso (spiegatelo agli olandesi). Il problema comunque non si pose perché il viaggio si interruppe molto prima a causa di un grave guasto, segno che ormai non c’era niente da fare per delle macchine che non erano mai state provate, usate, seguite. Nel 2008 (sei dita di polvere) si tentò la vendita alle ferrovie serbe, giusto per provarle tutte, ma alla fine non se ne fece niente, così nel 2016 si prese una decisione. Sofferta, ma ormai senza alternative. Tolta la E.491.011, conservata da Fondazione FS come rotabile storico da tenere in realtà per bellezza, le altre 24 macchine partirono alla volta di quel luogo che ha visto più di qualche lacrimuccia sincera, ovvero lo scalo merci di San Giuseppe di Cairo, dove viene effettuata la demolizione di buona parte del materiale rotabile in fin di vita.
Non abbiamo solo salutato delle locomotive funzionanti ma, con altrettanto rimpianto, abbiamo detto addio anche a una quantità immane di denaro pubblico. Sotto la pressa sono finiti 125 miliardi di lire, che nel 1986 erano circa 151 milioni di euro, e tanti sogni.
E che la cifra si riferisce al solo costo d’acquisto delle macchine, non tenendo conto dell’elettrificazione poi rimossa di qualche decina di km di linee, incluso il tratto per le prove (oggi siamo sui 400mila euro al km), dei viaggi in traghetto a vuoto, di tutti i progetti e degli studi di fattibilità. Siete e siamo memori di una quantità immane di scandali finanziari nella storia del nostro paese (e consapevoli che il peggiore sarà il prossimo), ma siamo abbastanza sicuri che questo non ve l’abbia raccontato nessuno. Non l’avete trovato nei libri di storia del liceo assieme a Tangentopoli, e non ne parleranno i documentari.
Così l’abbiamo fatto noi.
Tutto verissimo e descritto molto bene. Ne sono al corrente perche’ sono appassionato di ferrovie da oltre 60 anni.
Complimenti, rendete interessante anche argomenti che non mai avrei pensato di leggere
E poi dicono che chi non paga le tasse sia un criminale, in realtá sono dei realisti, hanno capito che mai e poi mai i soldi che daranno allo stato verranno usati per quelcosa di buono. Altro che pagare tutti, pagare di meno, lo stato é come un’idrovora, piu gliene dai e piu ne trita senza produrre niente di niente. Adesso basta, non siamo noi a dover fare i bravi e pagare di piu per sperare che lo stato restituisca ció che gli diamo, é lo stato che deve meritarsi le tasse in piu. Preciso che pago tutte le tasse perche posso farlo senza modificare il mio modelo di vita.
“Siete e siamo memori di una quantità immane di scandali finanziari nella storia del nostro paese (e consapevoli che il peggiore sarà il prossimo), “
Quanta verità, vedrò quei piloni eretti e inconclusi tra sicilia e calabria fino alla morte…
Prossimo fallimento.
Dio mio…
Ottimo articolo che fotografa una tria tre realtà!
Aggiungo un po’ di super pippone da elettricista convinto!
In italia all’inizio delle ferrovia si testano due sistemi elettrici, la cc a 3000 V e la 15000 trifase in Piemonte e Liguria! Tutte presentano alcune complicazioni e problemi tecnici!
La corrente continua e’ facile da gestire ed i motori sono relativamente economici da costruire (classici motori in corrente continua a collettore) e la regolazione e’ agevole con i reostati in serie! Leggermente più complicato il discorso della tensione di alimentazione con machine con molti motori e varie combinazioni motore per adattare su livelli discreti le tensioni di alimentazione (a seconda della macchina i motori potevano essere alimentati con 2, 3, o 4 tensioni di alimentazione e la tensione veniva determinata dal numero di motori in serie). La complicazione di questo sistema erano le sottostazioni necessarie per ridurre la tensione di alimentazione a valori accettabili ed i dispositivi di conversione ai valori di mercurio!
La alimentazione trifase era più semplice perché non aveva sottostazioni con ponti raddrizzatori ma trasformatori ma era molto più complicata la piloto azione perché i fili da gestire erano 2 e non uno solo!
C’era la complicazione della locomotiva con il reostato con soluzione salina che andava regolarmente rabboccata ed i motori che non erano elastici ma avevano delle andature fisse.
Da qui l’evoluzione con la monofase a 25000 V aiutata moltissimo dalla nuova elettronica! Considerando che un moderno treno ha una potenza che si aggira sui 8/10 Mw alimentarlo a 25000 V o 3600 V cambia non poco la corrente assorbita!
Ma in Sardegna siamo indietro non solo con le ferrovie…La Todde farà qualcosa (dice lei)
Domanda : Ma oggi,che siamo in EU non dovremo metterci in pari con il resto dei paesi,ergo ….perchè non sfruttare il PNRR…ah già,lo stanno già facendo,arraff arraffa