Benvenuti nella quarta (e ultima) puntata della nostra saga. Anzitutto voglio ringraziarvi per essere arrivati fin qui e spero di avervi intrattenuti nel corso di questa “lunga estate caldissima”.
Prima di addentrarci nella stagione 1973 devo raccontarvi un evento che per alcuni… non c’è mai stato.
Non si tratta di armi atomiche o di dischi volanti ma di un test super segreto dove venne messa su pista una McLaren M20…TURBO. Il team arancione ha iniziato a lavorarci da ben prima, da metà del ’72, con a capo l’ex ingegnere Chaparral Gary Knutson. I turbo, a differenza di qualsiasi altro setup, erano montati in verticale per ottimizzare meglio i flussi di aspirazione e scarico. La scelta si rivela vincente quando al banco il motore segna 1200 cavalli ma soprattutto 1600 Nm di coppia, abbastanza per piegare i semiassi. Venne fatto un test preliminare in autunno del 1972 a Road Atlanta ma dobbiamo aspettare l’inizio dell’estate del ’73 per assistere all’evento-che-non-è-mai-esistito.
Immaginate un telefono che squilla in casa Andretti, Mario risponde e si sente dire una cosa tipo: “scolta Mario, dovresti fare una cosa per noi. Ma se ti dico cosa dovrai fare… tu non esisti, noi lo negheremo fino alla morte e non dovrai dirlo nemmeno a tua moglie” Mario Andretti stesso dirà in futuro di aver risposto come segue: “ma chi siete, la CIA?!”.
C’è un motivo dietro alla telefonata a Mario Andretti dalla McLaren e dietro a tutta questa segretezza. Il nostro Mario ha molta più esperienza con le macchine da corsa turbo che i piloti titolari McLaren e doveva essere una cosa “one-shot”: arrivo, collaudo, dico cose, esco, ciao. Perché la segretezza? Oltre all’ovvio motivo della guerra fredda Porsche-McLaren c’era anche una questione di sponsor: la McLaren montava gomme GoodYear e Andretti era sotto contratto con Firestone.
La location scelta per questa cosa stile Area 51 era il circuito di Mid-Ohio. Scelta non casuale in quanto pieno di curve e ottimo per mettere a punto la macchina nello scenario peggiore possibile cercando di renderla perlomeno guidabile. La giornata procede senza intoppi fino al pomeriggio quando un grosso temporale interrompe tutto. I ricordi degli astanti sono diametralmente opposti: chi dice che la macchina aveva poco lag (Knutson) e chi dice che ne aveva invece tanto (Andretti).
Ora, so cosa state per chiedere: “papà Castoro, ma quindi sono riusciti a portarla in gara questa bara con un V8 e 2 turbo?”. La risposta è semplice: no, rinunciarono. E per un motivo davvero stronzo: la potenza e soprattutto la coppia erano troppe per il cambio transaxle. Oltre a piegare i semiassi la coppia era tale da macinare tutti gli ingranaggi interni. Progettare un cambio da zero sarebbe stato troppo costoso anche se voci narrano che Roger Penske, una volta sentita la voce della TurboMcLaren, avesse proposto di comprare da lui dei cambi Porsche ma comunque non ci sarebbero stati dentro coi costi.
Questo porta il team McLaren alla decisione estrema: nessuna macchina arancione scenderà in pista nel campionato Can-Am 1973. Le 3 M20 costruite vennero vendute a team privati e una M20 Turbo corse nel campionato con il team Commander Motor Homes di Dred Corbett senza ottenere grandi risultati.
Nel frattempo anche Porsche collauda le sue macchine e nel dicembre ’72 venne organizzata una serie di test al Paul Ricard dove venne portata la Bestia, la famigerata 917/30 TURBOPANZER.
La cosa particolare di quel prototipo era che il telaio poteva essere adattato in 3 lunghezze differenti andando a cambiare la sezione centrale. Un’ottima idea per verificare il comportamento della vettura. La carrozzeria però non era quella che consociamo noi ma una speciale, fornita da una piccola azienda francese specializzata in studi aerodinamici. Il capo meccanico “Woody” Woodard la descrive così: “immaginate una versione barchetta della 917/20 Pink Pig: ecco, quella era lei”.
Al volante c’era Mark Donohue che aveva a disposizione un plotone di meccanici Porsche pronti ad assecondare ogni suo sogno erotic desiderio. Ha chiesto di allargare la sezione frontale: jawohl! Fatto. Ha chiesto più potenza: jawohl! Compare il famigerato “manettino” dell’overboost nell’abitacolo grazie al quale il pilota poteva passare dalla “modalità tranquilla” con circa 850 cavalli fino alla modalità qualifiche altrimenti chiamata “velocità smodata” con 1200 (ma alcuni dicono anche 1600) teutonici cavalli. Però mancava una cosa: aumentare la velocità massima. Woodard e Donohue stavano in una brasserie a bere Pernod quando si accese la lampadina e, rimembrando le Porsche con la coda allungata, pensarono di fare la stessa cosa con quel mostro.
La sera successiva armati di rivetti, fogli di alluminio e qualche meccanico Porsche, i nostri attaccarono una rudimentale “coda lunga” alla 917/30.
Non restava che provarla. La mattina successiva viene piazzato un autovelox rilevatore di velocità in fondo al rettilineo del Paul Ricard e il nostro Mark arriva giù a tuono. Ai meccanici sul posto casca la mandibola: lo strumento segna 389 Km/h. Giusto per fare un raffronto: se parliamo di auto da corsa dobbiamo aspettare il 1988 quando la WM Peugeot ha fatto segnare i 405 Km/h in fondo alla Mulsanne.
Arriviamo all’inizio della stagione con dei cambi di regolamento destinati a far discutere: un nuovo limite al carburante massimo imbarcabile e soprattutto la scomparsa del premio in danaro per i primi qualificati. Il giornalista Leon Mandel scrisse che “La stagione Can-Am ’73 sarà la stagione più professionale e più combattuta. Se pensate che a Mosport vedremo una parata di Porsche turbo? Leggete le modifiche al regolamento e pensateci bene”. Mandel aveva ragione solo in parte: il nuovo regolamento agguerrì i piloti ma la puzza dello strapotere delle Porsche era ormai evidente.
E così fu: la stagione 1973 fu stravinta da Mark Donohue con la 917/30 TURBOPANZER vincendo 6 gare su 8.
Poi arrivò il 1974 e quello fu l’ultimo anno della Can-Am come l’abbiamo sempre conosciuta. Quell’anno è infausto per il mondo e gli USA: un crollo a Wall Street, il Watergate, il ritiro dal Vietnam e last but not least la crisi petrolifera che colpirà anche gli sport automobilistici. Inoltre negli anni il livello della corsa si era alzato talmente tanto da rendere insostenibili i costi rapportati ai premi in denaro e gli sponsor non avevano soldi da investire. Questo fece anche scappare i team ufficiali, infatti quell’anno corsero solo auto clienti.
Ironia della sorte il main sponsor del team Phoenix Racing (che correva con due Shadow) era la United Oil Products, azienda specializzata in carburanti senza piombo e convertitori catalitici, elementi che contribuirono ad “ammazzare” le muscle car assieme alla crisi petrolifera. Prima ancora dell’accensione dei motori si accesero le polemiche. Da una parte i detrattori della sovralimentazione (turbo o volumetrica che sia) che ne chiedevano una messa al bando accusandola di aver aumentato il divario tra piccoli e grandi team. L’accusa generale alla SCCA era comunque di non aver cambiato il regolamento abbastanza in fretta da adattarlo all’andazzo del campionato. Alla fine la SCCA partorì il nuovo regolamento: non bandiremo la sovralimentazione ma viene introdotta la regola del consumo di carburante. A ogni team verrà affidata una quantità limitata di benzina per ogni weekend e la soglia di consumo dovrà essere di 3 miles-per-gallon, equivalenti a 1.2 km/litro. Quando il nuovo regolamento arriva sulla scrivania di Roger Penske vengono fatti i calcoli e la decisione è presa: non ci stiamo dentro, non partecipiamo. Le Porsche 917/30 numeri di telaio 004, 005 e 006 nuove di pacca arrivate da Stoccarda non vengono nemmeno assemblate.
Il campionato sembra una copia del “Bruce & Denny Show” di qualche anno prima, solo con le Shadow al posto delle McLaren e Jackie Oliver e George Follmer al posto di Bruce McLaren e Denny Hulme. Finchè non arriviamo alla gara di Mid-Ohio.
Penske telefona a Brian Redman, che al momento corre in F5000 ma ha partecipato alla gara precedente a Watkins Glen con la Ferrari 712M del team NART.
La conversazione è più o meno questa:
“Hey Brian, sono Roger Penske, senti vuoi guidare la Porsche 917/30?”
“Eh magari…ma aspetta, può correre?”
“Non preoccuparti, abbiamo fatto i calcoli e possiamo correre a Mid-Ohio. Quanto vuoi?”
“5000 Dollari” (equivalenti a quasi 40.000 Dollari del 2023)
“Brian, sei il pilota più ragionevole che conosco”
Penske non si è fatto sconfiggere tanto facilmente dal regolamento sul consumo di carburante. Calcoli alla mano scoprì che nel tortuoso Mid-Ohio (non avete anche voi un deja-vu?) la 917/30 poteva correre stando dentro nel consumo e rimanendo competitiva. Anni dopo voci non confermate parlavano di bustarelle dagli organizzatori locali alla SCCA per far correre la 917/30 in modo da attirare pubblico.
Serviva solo un pilota…eccolo. La Porsche del team Penske si presenta a con il numero 66 sulla fiancata, il numero usato da Redman in F5000. Come sempre la sfiga si fa vedere e viene a piovere. Brian lotta con la macchina dando spettacolo per il pubblico e riesce ad arrivare secondo. Sarà l’ultima apparizione della TURBOPANZER su un circuito.
Poi succede che la stagione Can-Am 1974 finisce improvvisamente. Dopo la corsa di Road America viene annunciata la cancellazione della tappa successiva a Riverside, poco dopo la SCCA annuncia la fine del campionato.
Così, de botto, senza senso.
Prima di concludere questa storia a puntate volevo parlarvi di un’altra macchina che purtroppo non ha potuto partecipare al campionato Can-Am e poteva essere competitiva: la Toyota 7.
Già nel 1967 il reparto sportivo Toyota sondava le possibilità di partecipare con una vettura omologata FIA Gruppo 7 e viene dato il via al progetto, con nome in codice interno “Progetto 415S”. Il telaio monoscocca in alluminio venne progettato e costruito da Yamaha mentre Toyota progetta da zero un motore V8 3 litri capace di sviluppare circa 300 cavalli. Lo stesso motore è stato omologato per l’utilizzo nelle gare Sport-Prototipi sotto regolamento FIA Gruppo 6. La macchina venne chiamata (con molta fantasia) come il Gruppo FIA del regolamento e cioè Toyota 7.
Visto che il motore era totalmente nuovo i primi telai vennero portati in pista con installato il motore 2 litri 6 cilindri in linea della 2000GT. Il problema vero fu quando arrivarono i V8 e la macchina iniziò a girare: i rivetti che tenevano insieme il telaio avevano iniziato a cedere sotto le accelerazioni laterali. Quindi via di rinforzi e fazzolettature.
Questa prima versione della 7 partecipò al Gran Premio del Fuji Speedway (aperto anche alle vetture Gruppo 7) con 4 esemplari. Questi poi corsero anche in gare endurance come la 1000km del Fuji o la 1000km di Suzuka.
Ma il vero banco di prova fu una speciale corsa a invito chiamata “World Challenge Cup Fuji 200 Mile Race” nota anche come “Can-Am giapponese” il 23 novembre 1968. La corsa venne vinta da Peter Revson su McLaren M6B, mentre le 5 Toyota 7 partecipanti finirono rispettivamente quarta, quinta, sesta, ottava e nona.
Ai giapponesi era chiaro che il loro V8 “fatto in casa” poteva ben poco contro lo strapotere dei Big Block d’oltreoceano e quindi si misero sotto partorendo la “New 7”.
Cosa aveva di nuovo? Telaio in tubi di acciaio al posto della monoscocca, motore Chevy Small Block (poi sostituito da un nuovo V8 Toyota capace di 530 cavalli) e aerodinamica migliorata nella galleria del vento della Daihatsu. Anche nel 1969 si corse la “Can-Am” giapponese che finalmente venne vinta dai padroni di casa.
Potevano i nostri amici nipponici non farsi contagiare dalla febbre del turbo? Assolutamente no! Quindi nel novembre 1969 inizia lo sviluppo della Toyota 7 TURBO. Qui i tecnici Toyota ci vanno giù parecchio pesante: telaio spaceframe in tubi di alluminio con leghe di titanio e magnesio per la scatola del cambio, i braccetti delle sospensioni e l’albero di trasmissione.
Il motore è quasi identico a quello della “New 7” ma con la piccola aggiunta di due turbocompressori Garrett che portano la potenza erogata a 800 cavalli.
Questa evoluzione della 7 avrebbe dovuto partecipare al Gran Premio del Fuji del 1970 ma Toyota annuncia che non parteciperà alla corsa in quanto “vogliamo concentrarci sullo sviluppo di auto stradali più efficienti” in quanto proprio quell’anno il governo giapponese emanò una direttiva antinquinamento parecchio stringente.
Vi era l’ipotesi di spostare team e auto in USA proprio per partecipare alla Can-Am, ma non si fece niente. Si dice che Toyota chiuse definitivamente il progetto 7 dopo la morte del pilota collaudatore Minoru Kawai proprio al volante di una 7 Turbo.
Finisce così quello che è stato definito “il più incredibile ed eccitante esperimento automobilistico mai tentato”, il campionato che fece dell’assenza di regole la sua bandiera e che, ironia della sorte, alla fine rimase soffocato dalle sue stesse (poche) regole. Per chi ha potuto viverlo sono stati momenti incredibili, con macchine assurde guidate da piloti sovrumani. A chi vive da quella parte dell’oceano rimane il ricordo di chi quell’epoca l’ha vissuta e a noi europei le foto, i video e le storie tramandate come se fossero raccontate da un vecchio meccanico davanti a una birra.
Grazie! Grazie per averci raccontato una storia sconosciuta a molti, me compreso. Formati sulla F1 europea, questa epopea tutta yankee solleva lo spirito di chi non sopporta la piattezza della sovraregolamentazione.
PS. Peccato ci siano solo 6 917/30, e non tutte disponibili, ma vuoi mettere vedere le signorine che popolano la F1 oggi sopra quella macchina e dimostrarci quanto veramente valgono!?
Bellissimo racconto!!!!