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Nichols N1A e quella voglia di Can Am…

la Nichols N1A in compagnia di una McLaren MP4/4

Qualche tempo fa, ho visto sui social alcune foto di questa Alfa Romeo 8C 2300 Monza sul passo dello Spluga, in Svizzera, con tanto di moderno navigatore sul cruscotto. Nessuna info precisa sul proprietario: l’auto era parcheggiata a lato della strada (con le chiavi dentro..! Un mazzo grande così accumulato probabilmente dagli anni ’30 del XX secolo).

(ph. Antonello De Angelis)

Non so se mi sono spiegato: una 8C 2300 Monza. Se era originale – e, secondo i più, lo era – parliamo di milioni di euro di rara Alfa costruita in meno di 200 esemplari. In giro come tutti noi a far curve sui passi, non a masturbarsi ad un concorso di bellezza. Come se fosse una Lotus Elise “qualunque”. E quell’anacronismo del navigatore moderno montato sul cruscotto… mi ha quasi fatto girare la testa. Quella è Passione.

Son convinto che anche in Italia ci sia almeno un facoltoso appassionato che proprio non ci riesce a tenere il gioiello in garage a far muffa. Ma, senza chiamare in causa i massimi livelli, è raro incontrare chi cerca il Brivido della Guida senza alcun interesse per il blasone e una taglia in più di pisello. Il nostro è un Paese strano: qui sono nati i marchi automobilistici di auto sportive più prestigiosi e ammirati del mondo, ma la cultura dell’auto sportiva è soggiogata all’opulenza e allo status symbol.

Tale premessa perché una cosa simile alla Nichols N1A non nascerebbe mai qui da noi. Tralasciando il prezzo, che sarà certamente elevato (si parla di ben oltre 200.000 euro, ma è tutto da confermare e mi sembra molto poco), un’auto del genere, qui, non se la comprerebbe nessuno. Nichols ha creato un tributo alla McLaren M1A, la sport prototipo degli anni ’60. E non è un giocattolo da pista: è targata.

Non che sia la prima barchetta “moderna” per danarosi (qualcuno ha detto Gardner Douglas?), ma ormai, fra l’assalto dell’elettrico e questa voglia di far guidare da sola la tua macchina credo proprio che siamo all’inizio della fine.

– Già diversi anni fa, Gardner Douglas aveva partorito una replica della mitica Lola T70 da Can Am. L’ideale è essere lucidamente folli come Dario Margutti per esplorare avidamente ogni qualità di un mezzo del genere, in particolare il fondoscala del tachimetro –

Per fortuna, però, esistono uomini come Steve Nichols, il papà di una certa McLaren MP4/4 di F1 ai tempi di Prost e Senna (parliamo di una leggenda che nella stagione 1988 in particolare disintegrò gli avversari con 15 gare vinte su 16): Nichols, che voleva fare il pilota ma “non aveva le palle”, come dice lui, ha optato per “il secondo lavoro più bello del mondo” (il primo è il pilota di Formula 1), ma prima si è fatto le ossa con i supporti in carbonio dei missili intercontinentali Trident, gli ammortizzatori Gabriel per le Indycar e le Nascar, per poi approdare in F1 con il progetto MP4.

– Sopra: la Nichols N1A in compagnia di una certa McLaren MP4/4, la creatura con cui Nichols ha sbaragliato la concorrenza e contribuito alla fama di Ayrton Senna. Sotto, la tripletta dei tempi d’oro: Nichols, Dennis e Murray. Al centro, Nichols a bordo della mitica McLaren di F1 –

Oggi si gode la pensione e, traendo ispirazione dalla McLaren M1A, si è fatto la sua sportiva, un tributo ufficiale a quella meraviglia di barchetta Gruppo 7. La Nichols N1A è costruita attorno ad un telaio di carbonio e alluminio, con sospensioni a doppi bracci e carreggiate ancora più larghe di quelle della M1A. Il V8, in questo caso, è un LS7 Chevrolet modificato per l’occasione, carter secco, capace di oltre 650 cv, che ti aspira i capelli dai corpi farfallati posizionati dietro al coppino proprio come una volta e che deve spingere appena 900 kg.

Per qualcuno magari sarà una scelta ovvia, ma è un motore diffusissimo, affidabile, relativamente piccolo e leggero e soprattutto non c’è il turbo: quello lo lasciamo a chi ama i filtri fra piede e motore. Ah, a proposito: il cambio a sei rapporti è manuale. E ci mancherebbe altro.

La posizione di guida pare sia ispirata addirittura alla MP4/4. Davanti a te, solo un volante e un cruscotto di alluminio ricavato dal pieno, con tutti gli strumenti fondamentali.

La carrozzeria, studiata in galleria del vento per creare adeguata deportanza, è in carbonio e avvolge come un guanto cerchi da 19″ all’anteriore e da 20″ al posteriore che calzano Michelin Pilot Sport Cup 2.

L’idea dietro la N1A (dove “N” sta evidentemente per “Nichols”) è quella di fare un salto indietro a quel meraviglioso arco temporale che andò dal 1966 al 1975, quando con un’auto da corsa potevi ancora andare a correre e poi tornartene a casa su strada pubblica; oggi viviamo in un mondo in cui, per quanto performanti siano, le vetture da corsa e le stradali sono separate da una quantità di strati di specializzazione, mentre all’epoca si faceva tutto ad occhio e temperando un sacco di matite.

La M1A è stata una delle prime creature di Bruce McLaren ed è talmente un’icona che tutte le successive Mc ne hanno tratto ispirazione, perfino l’ultima Elva, la barchetta stradale nata pochi anni fa (che però, meccanicamente parlando, è giusto una 720S spogliata del tetto…).

– La splendida McLaren M1A. Leggenda della Can-Am, ispirazione per la N1A –

Ma la N1A vi si ispira con pochi, se non alcun fronzolo, perché qui è tutto manuale e l’elettronica è quasi inesistente. Però non è una copia carbone: oltre alle suddette dimensioni maggiorate, nessun elemento è derivato più o meno direttamente dalla musa ispiratrice, le forme sono più affilate, il muso è ancora più basso. L’idea è di stimolare sia chi sospira di nostalgia per gli anni ’60, sia chi apprezza le belle auto sportive moderne, con la relativa affidabilità.

– Un giretto con il prototipo della Nichols N1A. Qui montava “solo” un LS2 da 520 cv –

A M’ARCORD LA CAN-AM

Poche regole, amicizia lunga. Almeno in teoria, dato che la Can-Am ebbe putroppo vita molto breve, dal 1966 al 1974, benché poi si sia tentato invano di riesumarla. La Canadian-American Challenge Cup è stata una classe spettacolare, della quale oggi rimangono solo commoventi ricordi e poche, ambite sopravvissute nascoste qua e là nei garage dei collezionisti e a far muffa nei musei. Due sedili e ruote coperte erano d’obbligo, ma poi potevi fare bene o male quel che ti pareva per arrivare primo.

All’inizio, nel 1966, la faceva da padrone John Surtees con la Lola T70. Ma il dominio durò poco, perché proprio Bruce McLaren acchiappò il titolo già nel 1967 con la M6A. Così anche nel 1968 con la M8A di Hulme, nel 1969 di nuovo con Bruce e con tanto di tripletta al Michigan International Speedway e ancora nel 1970 e 1971.

Quasi tutti montavano V8 Chevy da 520 o 620 cv, ma i giochi si fecero molto seri quando Ferrari e soprattutto Porsche entrarono nella chat, la prima con la 612 e motori V12 di 6.2 e 6.9 litri e la porcona 917/10 che partì timidamente senza sovralimentazione ma che ben presto fu turbizzata fino ai 1500 cv della 917/30 e del suo 12 cilindri da 5.4 litri che la spingeva fino agli oltre 350 km/h dell’ovale di Talladega.

– Sopra: la Ferrari 612 Can-Am e, sotto, la Porsche 917/30 davanti a tutti (tanto per cambiare) –

È considerata l’Ammazzatutti, con il dominio totale nel 1972 e 1973, ma il vero problema del declino della Can-Am fu probabilmente il nuovo regolamento che prevedeva un limite di capienza dei serbatoi e, soprattutto, la crisi petrolifera e la recessione e il consueguente aumento di costi, da cui la perdita di sponsor e interesse da parte del pubblico. Nemmeno la successiva Formula A/5000 riuscì nella magia di ritornare ai fasti di solo pochi anni prima.

FAMOLE STRANE

Quando le regole sono poche e dai libertà quasi totale ai progettisti ottieni l’esatto opposto di un campionato di F1 moderna: un campionato divertente, originale e appassionante. Tanto per dire, la Chaparral 2J, che montava paratie in lexan regolabili e ventole per l’effetto suolo alimentate dal motore di una motoslitta, poteva nascere solo nella Can-Am.

– Due ventole così che risucchiano TUTTO –

Avvenne al terzo appuntamento della stagione 1970, quando una specie di scatola da scarpe tutta bianca, con due grandi ventole sul posteriore, apparve nel paddock della Watkins Glen International Raceway.

Sotto la carrozzeria in fibra di vetro, uno Chevrolet ZL1 da 650 cv e cambio semiautomatico a 3 rapporti e, dietro le ruote posteriori, un Rockwell JLO di 247 cc a due tempi, bicilindrico da 45 cv che alimentava le due ventole di uno Howitzer M-109 che espellevano 280 metri cubi di aria al minuto e potevano anche spingere l’auto fino a 60 all’ora senza nemmeno accendere il V8; ruotando a 6000 giri/min, estraevano l’aria dal fondo e la sparavano sul retro (su parabrezza e casco di chi seguiva, con tanto di polvere, erba, pezzi di gomma e tutto ciò che puoi trovare sull’asfalto di un circuito durante una gara), generando anche 1,5 G di accelerazione laterale (avete letto dei 3 G di quell’altra follia con le ventole?) e una teorica deportanza di una tonnellata.

Risultati? Pochi. Problemi? Tanti. Due motori al posto di uno, minigonne in lexan mobili (che dovevano muoversi in perfetta sincronia con le sospensioni, sennò erano danni) che andavano sommandosi ai consueti crucci piccoli e grandi di ingegneri e meccanici. Andava forte e entrava in curva come nessun’altra, ma il motore ausiliario si surriscaldava, risucchiava sporcizia a tonnellate, tanto che in diverse occasioni la 2J non corse nemmeno. Solo Vic Elford riuscì a qualificarsi, fra l’altro battendo il record della McLaren del 1969. Ma poi fu il motore Chevrolet a tirare le cuoia; dopodiché, il Rockwell.

Chaparral, fra l’altro, aveva già fatto sgranare gli occhi di pubblico e concorrenti con la prima, enorme ala della storia delle competizioni montata sulla Chaparral 2E, una soluzione che la FIA aveva inizialmente consentito (adottata, per esempio anche dalla stessa Ferrari con la 612 Can Am); ma venne poi bandita quando le ali stavano diventando regolabili, anche per via delle proteste, in particolare quelle di Bruce McLaren.

– La Chaparral 2E –

Come dimenticare, poi, la assurda Adams Escort VSC Can-Am Special, detta anche “pontoon special” perché sembrava una di quelle barche da diporto per una gitarella al lago: il progettista Herbert Adams (che è anche quello di una certa Trans-Am) aveva collocato il pilota all’estrema sinistra e il motore all’estrema destra del telaio, che in mezzo rimaneva piatto e bassissimo come un vassoio. L’idea era quella di creare l’effetto Venturi letteralmente al centro del mezzo con un enorme tunnel centrale, spostando tutto il resto ai lati, compreso il V8 Chevy di 5 litri da 550 cv, con tanto di testa destra che spunta fuori dalla carrozzeria e l’aria che aveva la strada spianata dal muso all’enorme alettone.

– La Adams Escort VSC Can-Am Special in tutta la sua piattezza –

Inevitabilmente si rivelò la concorrente migliore dal punto di vista della deportanza, ma certe volte non va bene nemmeno quando eccelli: la cosa comica e frustrante allo stesso tempo erano i danni strutturali causati dalla stessa, enorme deportanza che creava. Si tentò di irrobustire il tutto, ma l’auto divenne troppo pesante. Soprattutto, i piloti la detestavano: era imprevedibile, poco comunicativa e instabile.

La storia più incredibile, però, è quella della Shadow e del suo fondatore, un uomo che si meriterebbe un film autobiografico: Don Nichols (che non ha nulla a che fare con il Nichols della N1A). Sopravvissuto in tenera età ad un tornado, che gli stermina quel poco di famiglia che gli resta, cresce in orfanotrofio; lascia il liceo per l’esercito e si paracaduta in Francia con la 101st Airborne durante un certo D-Day. Combatte anche in Corea, dopodiché si trasferisce in Giappone e lavora perfino per la CIA, anche se non l’ha mai dichiarato apertamente.

– La Shadow DN2 del 1972 –

Finito di combattere guerre calde e fredde, diventa importatore per il Giappone di Excalibur e repliche Mercedes SSK della Studebaker. Una volta ha corso contro Toshiro Mifune sulla Tamagawa Speedway a bordo di una Jaguar XK120. Importava anche pneumatici Goodyear e Firestone, ammortizzatori Koni dall’Olanda per una vettura da corsa Toyota, contribuì alla nascita della Fuji International Speeway con il suo amico Stirling Moss. Se volete saperne di più, cliccate qui sotto:

Shadow, storia della scuderia più losca di sempre

Vi verrà da pensare che uno così finisca per farsi una macchina tutta sua. E infatti è quello che fece. La prima Shadow era alta spessa all’incirca come un tappeto, bassa all’inverosimile, con ruote inevitabilmente piccole così (10″ all’anteriore e 12″ al posteriore). Ma il motore era da Can Am: Chevy 427 ZL-1 di 8.1 litri che al suo apice eruttava 735 cv. All’inizio le cose non andarono benissimo, ma nel 1974 la Shadow DN4 riuscì ad agguantare un primo e secondo posto battendo perfino Ferrari, Porsche e McLaren. Un’avventura che terminò nel 1980, dopo un’evoluzione in F5000 e perfino in F1, con la vittoria di Alan Jones al GP d’Austria nel 1977.

IL POMELLO DI SENNA e UN TELAIO DA PAURA

Visto? Quando cominci a parlare di corse è inevitabile trascendere e cominciare a pensare ad alettoni e deportanza, ecc., ecc. Invece Nichols vuole farci tornare ai primi anni ’60, quando le auto erano ancora semplici. E potenti, ma di una potenza pura, priva di artifici. E belle. E proprio la McLaren M1A rappresenta perfettamente questo concetto. O almeno è quello che il CEO John Minett stava ponderando quando si è rivolto a Steve Nichols: ha visto in lui la connessione con McLaren e taaaaaac, ecco la scintilla.

La M1A è l’ispirazione, ma, come detto, la N1A non è una copia carbone. Non puoi prendere una carrozzeria degli anni ’60 e montarla serenamente su un nuovo telaio. Telaio che sul primo prototipo era semplicemente un traliccio di tubi, ma che subito è stato sostituito da qualcosa in stile Lotus anche perché nasce sulla scia di quelli destinati alle varie Lotus Elise/Exige, in estrusi di alluminio, ma con ulteriori elementi di carbonio.

– Il telaio della Nichols fa tanto Lotus. Perché è praticamente quello di una Lotus –

È stato curato in particolare da Bob Mustard, un ex-Land Rover e Aston Martin, fra le altre cose. All’inizio degli anni ’90, Bob era impegnato nella progettazione di telai in alluminio per LR, per trovare la maniera di contenere il peso e rendere economicamente conveniente adattare soluzioni aeronautiche come un telaio di alluminio incollato al mondo automobilistico; il fatto che dentro le prime Lotus Elise ed Exige (e anche una Tesla Roadster che sta andando alla deriva nello spazio) vi siano un motore Rover e un telaio in alluminio vi dovrebbe far suonare una campanella… Per maggiori informazioni chiedere della danese Hydro Aluminium. Ma questa è un’altra storia.

Fu proprio la Elise a portare sul mercato questo tipo di soluzione. E Bob è tuttora convinto che un telaio incollato sia migliore di uno saldato, tanto da adottare la stessa soluzione anche per la N1A: secondo Mustard, due pezzi di alluminio incollati hanno una resistenza superiore del 40% ad equivalenti saldati (!!). Ma va fatto come si deve: il “mix” della colla deve essere quello giusto, va applicata con una tecnica ben precisa e la superficie degli elementi di alluminio va preparata adeguatamente.

La novità introdotta dalla società di Mustard (Stalcom) è il sistema di “aggancio” dei vari componenti del telaio: si chiama Flex Tech Joining System e prevede una guida lungo gli angoli della barra di estruso che consente di agganciare con la facilità del Meccano piastre con estremità ad uncino che poi vengono rivettate e incollate. Manco a farlo apposta, è ideale per i telai di vetture di piccola serie (come Nichols e come Ariel, per la quale Stalcom ha fornito consulenza per il progetto Hypercar), perché consente di fare a meno di costosi macchinari per un assemblaggio preciso: agganci, rivetti, incolli e via.

Il vantaggio di questa tecnologia è che in caso di “ripensamento”, di miglioramento delle performance del telaio o dell’introduzione di un nuovo motore, aggiungere altri due posti o qualsivoglia altra modifica, sarà sufficiente smontare e rimontare nella nuova configurazione, senza dover investire in nuovi macchinari, a differenza di quel che accadrebbe con un telaio in materiale composito che va rifatto ex-novo.

L’altra novità di Stalcom, probabilmente al momento unica al mondo, è la finitura: a differenza di quel che han fatto Lotus e Aston Martin, che anodizzano prima di incollare e lasciano l’incollaggio a vista, sul telaio Nichols viene spruzzata una mano di apposita vernice a polvere che fornisce protezione e tutto il telaio viene poi “cotto” in forno.

Anche il reparto sospensioni ha DNA Lotus: chi ne ha curato lo sviluppo è un “guru” proveniente da lì, pappa e ciccia con John Miles. La prima immagine del mezzo, il primo bozzetto della Nichols, è stato realizzato a mano; poi sono passati al computer, dove hanno aggiustato le proporzioni e verificato che due persone potessero abitare la Nichols come si deve. In due mesi, il primo prototipo era davanti ai loro occhi. E sì, funzionava.

Rispetto ad una supercar moderna, la Nichols è decisamente più piccola (è incredibilmente più piccola perfino di una Lotus Elise!) e ancora più bassa, soprattutto il muso, che è davvero rasoterra: è tanto basso perché Nichols voleva tentare di eliminare la portanza creata da quello originale della M1A (ricordatevi che all’epoca la deportanza andava ancora esplorata come si deve). In galleria del vento, Nichols e Minett hanno osservato con soddisfazione un bello zero sul dato della portanza.

Tuttavia, le carreggiate sono più larghe di quelle della M1A e così i passaruota, questo non solo per estetica ma anche per accogliere ruote e pneumatici più grandi. Quanto al motore, lo Chevrolet LS2 da 510 cv è stato la base di partenza, ma il definitivo sarà un LS7, 7 litri e alcune modifiche di Nichols per portarlo a 650 cv. Che è TANTO. E infatti Nichols pensa a un bel corso di guida in pista affiancati da un pilota professionista (cosa che dovrebbero fare tutti i produttori di auto sportive). Fra l’altro, Nichols non ha ancora deciso quale tipo di controlli elettronici introdurre: l’idea, al momento, è di escludere tutto tranne il controllo di trazione (che sarà ovviamente disinseribile).

La N1A è personalizzabile in tutto e per tutto, con tanto di sedile e interni su misura e perfino un motore maggiorato, se proprio non riesci ad ammazzarti con 7 litri e 650 cv. È una bestia da corsa con la targa, ergo l’abitacolo è estremamente essenziale, con tutta la strumentazione raccolta in quell’unico pezzo di alluminio ricavato dal pieno.

Senna e Nichols avevano un bel rapporto, come è giusto e necessario che sia fra il pilota e il responsabile della dinamica dell’auto che guida. “Senna era duro con gli avversari, mostrava una dura scorza al mondo esterno. Ma con qualcuno come me, importante per lui, per raggiungere i suoi obiettivi, era molto gentile” (e vorrei ben vedere, n.d.r.)

La leva del cambio è a destra ed è un piccolo e sessualmente stimolante pomello di dorato titanio direttamente derivato da quello di una McLaren MP4/4 che ti collega al cambio posto sul retro dell’auto come se il tuo braccio ne fosse un’estensione. “Ma dov’è che l’hai trovato?” chiede Minett a Nichols, mentre trafficano sul prototipo. “Mah, niente, ce l’avevo lì da trent’anni e mi sembrava l’occasione giusta. E’ quello della MP4 di Senna che ha vinto a Monaco nel 1989“.

Articolo del 24 Agosto 2023 / a cura di Davide Saporiti

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  • Tom

    Guida a destra e cambio a destra della guida a destra? Non è un complicarsi la vita con più leveraggi e rinvii? Essendo il cambio al retrotreno, non era più semplice posizionare la leva al centro? Certo, le F1 lo avevano anche loro su un lato, ma lì il pilota è al centro

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