“L’auto elettrica è l’auto del futuro!” Quante volte avete sentito dire questa frase ultimamente? Forse troppo spesso. Quello che però in molti non sanno è che questa frase è vecchia di quasi 200 anni: l’auto elettrica infatti è dal 1850 (circa) che promette di essere un futuro che, per un motivo o per l’altro, non è mai arrivato. All’epoca, grazie all’invenzione delle prime batterie ricaricabili al piombo, iniziarono a spopolare le prime automobili elettriche, vera alternativa – più veloce, silenziosa, comoda e pulita – rispetto alle carrozze trainate da cavalli o alle pesantissime macchine a vapore (le prime pesavano 2,5 tonnellate e andavano a 4 km/h a manetta). Ma non solo: la ricerca in quegli anni portò ad aneddoti che molti appassionati di auto o sedicenti esperti non conoscono: nel 1899 fu un’auto elettrica belga la prima auto della storia a superare la fatidica soglia dei 100 km/h, si chiamava Jamais Contente (“la mai contenta”) e era la massima espressione della produzione elettrica dell’epoca, di cui la Francia era leader.
– vai come un proiettile! –
Ma c’è dell’altro: nel 1899 un tizio tedesco, un certo Ferdinand Porsche, creava la prima auto a trazione integrale della storia, piazzando un motore elettrico sull’asse anteriore e uno sull’asse posteriore… dual motor before it was cool. Lo stesso Henry Ford, mentre produceva milioni di Ford Model T a benzina destinate alle masse, per il suo utilizzo personale aveva scelto una lussuosa e silenziosa vettura elettrica.
– vettura personale di Clara Ford (moglie di Henry), una Detroit Electric del 1914 –
Oggi vi sembrerà assurdo, ma tra il 1900 e il 1910 le auto elettriche ebbero un vero e proprio, boom al punto che all’epoca il 38% del parco auto circolante era elettrico, il 40% a vapore e solo il 22% a benzina.
Quel piccolo 22% di parco circolante era infatti composto da auto rumorose, puzzolenti, unte, bisognose di costante manutenzione ma, più di ogni altra cosa, bisognose di essere avviate a mano. Proprio le difficoltà di avviamento del motore a scoppio ne rallentarono lo sviluppo come soluzione destinata al trasporto privato, facendolo preferire alle più immediate e semplici auto elettriche. Poi cos’è cambiato? Semplice: i motori elettrici che muovevano queste prime auto sono via via diventati più piccoli fino a trasformarsi in piccoli motorini d’avviamento. Fu l’invenzione del motorino d’avviamento, unita alla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio in Texas, California e Oklahoma che fecero abbassare il prezzo della benzina e a cambiare per sempre la storia, facendo scivolare l’auto elettrica in un passato di cui in pochi si ricordano salvo poi tornare fuori in questi ultimi anni con la sua solita promessa di un futuro che, se sarà, magari chi lo sa, chi vivrà vedrà.
P.S. C’è chi sostiene che dietro alla morte dell’auto elettrica ci sia un complotto guidato proprio da Henry Ford e Thomas Edison, a voi scegliere se crederci o meno.
Ora, giustamente voi avete aperto questo articolo leggendo il titolo e poi vi ritrovate uno sproloquio circa l’appassionante storia delle auto elettriche e se vi tira anche un po’ il culo avete ragione ma, fidatevi di me, se siete arrivati fino a qui, non ve ne pentirete. Ho infatti voluto introdurre l’argomento motorino d’avviamento solo come gancio per raccontarvi del motorone d’avviamento più figo mai realizzato, quello che si utilizzava per mettere in moto il celebre SR-71 Blackbird e i suoi prepotenti Pratt & Whitney J58, che se non li conoscete male MALE MALE ma potete rimediare cliccando con forza e devozione qui.
Intanto partiamo dalle basi: come si avvia un turbogetto? Dando per scontato che sappiate come funziona un motore a getto (nel caso ne parliamo QUI e QUI e sto comunque coltivando l’idea di far uscire uno special a riguardo), l’avviamento di un turbogetto viene generalmente eseguito mettendo in rotazione il compressore. L’idea è di far raggiungere al motore un regime di rotazione sufficiente a garantire l’autosostentamento di questo: ad un certo regime di giri infatti il compressore riuscirà ad ingurgitare – e a comprimere – abbastanza aria da alimentare in maniera efficiente l’impianto di combustione e, di conseguenza, la turbina che a sua volta mette in rotazione il compressore. Insomma, è un circolo virtuoso in cui più il compressore mangia, più la turbina dà da mangiare al compressore.
Quindi, riassumendo, le condizioni necessarie affinché un turboreattore torni in vita urlando al mondo la sua perfezione meccanica sono:
- il compressore deve raggiungere una velocità tale da pompare una sufficiente quantità d’aria facendole raggiungere un minimo valore di pressione, quello necessario per generare la combustione una volta nei combustori;
- che una volta avvenuta l’accensione della miscela aria-combustibile, il motorino d’avviamento continui a spingere il motore nella sua accelerazione fino a fargli raggiungere la velocità di autosostentamento.
– due avieri scollegano il tubo attraverso cui passa l’aria necessaria alla messa in rotazione dei motori di un B-52 Stratofortress (potete vedere che il motore sinistro è acceso mentre quello destro no)-
Ora, scendendo nel dettaglio (ma senza esagerare), esistono diversi tipi di starter utilizzati sui motori a getto (non sto ad elencarveli perché è un discorso non dei più appassionanti e ve lo voglio risparmiare) e, sebbene sia caduto in disuso, quello più affascinante per ogni vero rollingsteeler degno di questo nome è quello che faceva uso di piccoli (ma non sempre, come vedremo) motori a combustione interna. Un esempio lampante di questo discorso è il Riedel Anlasser di cui vi abbiamo raccontato qui, il piccolo motore a due tempi ad avviamento a strappo che si occupava di riportare in vita i primi turbogetti tedeschi.
Quindi, da un lato abbiamo i tedeschi, che con raffinatezza ed eleganza hanno installato un piccolo motore a due tempi nell’ogiva dei loro rivoluzionari turbogetti a flusso assiale, dall’altro abbiamo gli ammeregani che per avviare i J58 del Lockheed SR-71 facevano uso del carrello di avvio AG330 che usava due V8 Buick “Wildcat” da 401 pollici cubici l’uno (vi aiuto, sono dei 6.500cc di cilindrata, l’uno) per un totale di 650 cv scaricati tutti contro i raffinatissimi J58 del Blackbird.
D’altronde cosa vi aspettavate? Ci sta che per avviare l’aereo più figo del mondo con i motori più fighi del mondo si utilizzi il sistema di avviamento più figo ed arrogante del mondo. L’AG330 faceva utilizzo di due grossi V8, collegati ad un unico cambio dal quale usciva un albero verticale che, una volta innestato su un raccordo che usciva lateralmente dal turbogetto, ne faceva girare l’albero principale fino a circa 3.200 giri al minuto, regime di autosufficienza del turbogetto. Ognuno dei due V8 aveva (ovvio) otto tubi di scarico che uscivano dalla parte bassa del carrello, ogni motore azionava una trasmissione Hydromatic e, infine, le due trasmissioni erano accoppiate da una cinghia Gilmer da 12 pollici di larghezza. Tutto questo azionava un riduttore che ruotava l’asse di rotazione di 90° e a sua volta azionava la testa della sonda che si sarebbe poi dovuta accoppiare al turbogetto.
Per iniziare la procedura di avviamento, il pilota del Blackbird avrebbe dovuto comunicare al personale di terra la frase “engage Buicks“: a questo punto il “pilota” del carrello di avviamento avrebbe premuto il pulsante “Jet Start” e tirato verso il basso l’acceleratore dello starter (una leva accelerava entrambi i motori) innestando così le due trasmissioni. A questo punto, con la spia verde illuminata, l’operatore avrebbe fatto salire di giri i due Buick fino a ottenere una coppia di circa 950/980 Nm (!!!) ma senza andare oltre, pena il disinnesco automatico della sonda, necessario per evitare sovraccarichi alla scatola del cambio del prezioso J58. In questo caso, inoltre, se la sonda si fosse disinnescata dal turbogetto per un eccesso di coppia, il pilota del Blackbird avrebbe ricevuto l’ordine “cut off throttle” (ovvero, togli tutta manetta): con lo starter disinnescato e il motore incapace di autosostentarsi, il rischio di raggiungere temperature dannose era infatti molto elevato. Quindi, siccome non era possibile riattaccare lo starter con il J58 in rotazione, il pilota doveva fare in modo di fermarlo il prima possibile per poi ricollegarlo al carrello di avviamento e rimetterlo immediatamente in rotazione accelerandolo per scongiurare eventuali incendi.
– innesto della sonda di avviamento sotto ad un J58 –
Se invece tutto andava via liscio come l’olio, il pilota ad un certo punto avrebbe visto gli indicatori relativi al motore in fase di accensione raggiungere il livello ideale (numero di giri, pressione olio e pressione carburante), per poi impostare la manetta su “IDLE”. A quel punto circa 30cc di TEB sarebbero stati iniettati nei bruciatori per riportare definitivamente in vita il J58, ora finalmente capace di autosostenersi. Il pilota a questo punto avrebbe comunicato via radio “Buicks out“, l’operatore del carrello avrebbe premuto il pulsante “Cart Shutdown” per liberare così la sonda, lasciare che i due grossi V8 tornassero a girare al minimo e l’SR-71 libero di affrontare qualche missione segreta.
A questo punto ci sono alcuni dettagli finali da vero nerd di queste robe (se esiste): per portare il J58 a 3.200 giri i due V8 giravano a circa 4.800 – 4.900 giri al minuto, un regime decisamente alto per questi propulsori. Se la sonda si fosse bloccata nel motore a getto (può succedere), quest’ultimo avrebbe trascinato con sè i due V8 facendoli andare in fuorigiri, il minimo del J58 infatti era di 3.950 giri, pari a oltre 6.000 giri per i due Buick (ricordatevi che di mezzo c’è un riduttore). Per evitare quindi che bielle o altri pezzi dei V8 potessero finire nei denti a qualche operatore a terra, quando si azionava il AG330 era obbligatorio stargli davanti o dietro… mai di fianco.
Man mano poi che il Blackbird continuava ad accumulare ore di servizio, vennero sviluppati metodi alternativi (e migliori) rispetto a questo accrocco: prima i due V8 Buick sono stati sostituiti da due Chevrolet Big Block da 425 cv l’uno salvo poi lasciare strada libera ad un sistema di tipo pneumatico ad aria compressa sviluppato dalla Garrett. Questo sistema – ancora utilizzato su molti motori – basa il proprio funzionamento su una piccola turbina collegata al compressore e azionata da aria compressa fornita o dall’APU (auxiliary power unit) o da un sistema di compressione situato a terra. Più funzionale ma meno affascinante.
Ehi, come un SR-71 ma un po’ meno (giusto un po’), anche la gestione di rollingsteel ha dei costi (tempo/denaro/creatività) non proprio irrisori. Se vuoi farci sapere che il progetto ti piace o vuoi sostenerlo, clicca il pulsante qui sotto, aiuterai il progetto a rimanere indipendente!
Ora, chicca finale, visto che avete avuto la pazienza di arrivare fino qui, vi lascio ad un video nel quale potrete gustare la procedura di accensione di un J58; sentite che meraviglia il modo in cui il rombo dei due V8 si mescola al lamento del turbogetto in fase di avvio… melodia pura!
(andate al minuto 2:13 per sentire un po’ di cavalli americani in azione)
La Detroit Electric è anche famosa per essere l’auto di Nonna Papera, sapevatelo.
Accidenti, mi hai battuto sul tempo, stavo per scriverlo io!!! 🙂
Ditemi che conoscete chi è Brian Shul….
No, sono solo esperto di Topolino. Però ora sono andato a leggere la sua storia!
Io più cose imparo sul blackbird più me ne innamoro…
Grazie Direttore!
Novembre 2018, Pima Air & Space Museum
“Guido, dai, esci da li sotto, sono 20 minuti che sei li con le mani appoggiate a quel coso”
“Ssssh donna… non puoi capire!”
SR-71A Serial Number 64-17951
Vibrava ancora!