Home / / 916 volte Ducati

916 volte Ducati

(foto di copertina: Ducati 916 SPS by Nathan May)

Forse ce la faccio. Sarà una settimana che mi siedo qui ogni giorno alla ricerca di un incipit per questo articolo, perché la responsabilità è grandissima: se scrivo cagate e lei me le legge, ne va del nostro già delicato rapporto. Io la amo, ma non so se lei ami me. Io la tratto con i guanti, ma non ho ancora capito se resta qui perché mi ama – o perlomeno nutre della stima – o perché, come per i gatti, un posto vale l’altro, basta che ci sia da mangiare e da dormire e che ogni tanto mi gratti qui che mi prude, grazie.

E poi, proprio non so come iniziare. Sembra un controsenso, ma talvolta è più difficile parlare di ciò che ti piace molto che di ciò che non sopporti. Forse perché quando critichi, in fondo, non hai nulla da perdere; ma quando ami, le parole che usi possono non essere sufficienti per spiegare ciò che provi. O, forse, semplicemente perché di parole non me ne vengono mai fuori. La guardo. La adoro. E basta.

Io le tolgo il telo e resto lì imbambolato, capite? Come se fosse la prima volta. E’ dal 2008 che ce l’ho e ancora mi ritrovo a consumarla con lo sguardo come un ragazzino con l’inserto osè di Superbike Italia.

Poi c’è questa cosa del destino che sembra averla chiamata a me: nel 1994, mentre io giravo con l’F-10 e la mia massima aspirazione era una Cagiva Mito, il primo proprietario la comprava in una concessionaria a qualche minuto di macchina da casa mia. Magari l’ho anche visto mentre la ritirava. E la targa inizia con “12”, che è il giorno del mio compleanno. E quel signore, purtroppo, non c’è più, come non c’è più mio papà. Infatti era una eredità pesante per suo figlio, che me l’ha venduta; ci era molto affezionato ma non aveva proprio tempo di usarla. Gli ho promesso di trattargliela bene e così sto facendo. Potrei fare altrimenti?

Ci siamo conosciuti quel giorno del 2008 in un garage di Milano che indossava un brutto cupolino maggiorato, ma aveva meno di 12.000 km ed era in condizioni splendide, salvo qualche segnetto. Mancavano i terminali originali, ma credo che anche il miglior collezionista preferisca godersi il tuono dei Termignoni, alla faccia dell’originalità. Anche i tubi in gomma non ci sono più, sostituiti da quelli in treccia. Pazienza…

Adesso è lì che attende sul suo cavalletto posteriore e io non so se lavarla per l’ennesima volta, perché qualche altro moscerino ha osato spiaccicarcisi sopra. Ma è domenica mattina e ho troppa voglia di fare ciò che amo di più: accenderla e farmi due curve lungo le rive del lago Maggiore. Amo le auto, ma la moto è qualcos’altro: se poi è una Ducati 916 Strada, subentra il fattore storico che rende la faccenda qualcosa più di un giro in moto.

Per un motociclista italiano e ducatista dal 1998, è una sorta di giro d’onore, una versione motociclistica del sorvolo della Capitale con le Frecce Tricolori. La prima volta che l’ho fatto la terza volta che l’ho fatto – perché le prime due mi aveva lasciato a piedi – mi sono sentito come Foggy.

In passato ho avuto una 996 e una 998, ma questa è la prima, l’inizio di tutto, quella con gli elefantini Cagiva e con i parenti a Schiranna (VA). Tanti sono convinti che la 916 sia uscita dai cancelli di un circuito e abbia indossato targa, fari e frecce in veste di Biposto, ma non è così: la prima era monoposto (a libretto!) e, assieme alla SP, la versione più specialistica, era nata con lo scopo di consegnare nelle mani degli appassionati una delle prime derivate dalle corse, fregandosene altamente dei compromessi e delle “zavorrine”. Dopo sono arrivate la biposto, la SPS, la Senna, la 996, la 998…

Prima di lei c’era solo il vecchio modo di fare le moto sportive. E’ stata uno schiaffo in piena faccia agli spettatori del Salone di Milano del 1993, che si sono svegliati davanti una moto di quasi 1000 cc larga come una 250 con le forme della coniglietta del mese.

MANI A POSTO

Rompeva gli schemi con un erotismo alla Milo Manara che lasciava il più possibile scoperta la meccanica: un codone altissimo sopra a due scarichi ovali appaiati con arroganza aeronautica, monobraccio posteriore e forcelle Showa ad afferrare cerchi bronzo a tre razze, un serbatoio dai fianchi femminili che stringevi fra le cosce e sul quale ti sdraiavi per allungarti con avidità verso il contagiri, afferrare quei semimanubri bassissimi e fiondarti il più presto possibile nella curva successiva.

– Castiglioni e Tamburini, a Schiranna ma con la MV F4. Quando la mamma vi chiede quando la smetterete di giocare con le motociclette, fatele vedere questa foto –

Tante volte mi sono chiesto come diamine hanno fatto Sergio Robbiano, Massimo Tamburini e tutta la squadra a concepire una moto del genere. Ma le cose le capisci davvero solo vivendole e non basta possedere questa meraviglia per comprendere appieno che cosa significa partorire da zero una Ducati 916. Però so che ha molto a che fare con la passione vera, che poi era ciò che ha spinto Claudio Castiglioni a rilevare Ducati e a porre le basi di ciò che è oggi, prima con il Monster e poi proprio con lei, la 916.

Castiglioni avrebbe voluto fare il pilota, ma i suoi genitori non ne volevano sapere; mi pare quindi evidente che abbia riversato tutto ciò che avrebbe voluto vivere da pilota nell’attività da imprenditore, costruendo le moto che avrebbe voluto guidare. Prima tirando su una certa Cagiva, con la quale è riuscito non solo a tenere testa, ma a battere lo strapotere di tutti i marchi giapponesi e, dopo, rilevando una certa Ducati, la quale navigava in pessime acque e stava per rinunciare definitivamente alle moto. Soprattutto, fondando il CRC (Centro Ricerche Cagiva).

-Il compianto Sergio Robbiano con la sua Bimota DB6 Delirio. Ho guidato anche quella e vi assicuro che quest’uomo era un genio-

Oggi l’ultima “C” è dedicata al Signor Claudio, che non è più fra noi (come non ci sono più Tamburini e perfino Robbiano, morto troppo presto a soli 48 anni): oggi si chiama Centro Ricerche Castiglioni. E direi che è giusto così. Senza Claudio Castiglioni, non esisterebbero né il Monster, né la mia 916. E mettiamoci anche le MV Agusta dalla F4 in su. Ma vale anche per Massimo Tamburini. Tamburini l’uomo e Tamburini il designer. Perché ci vogliono l’esperienza e il talento, ma ci vuole soprattutto il cuore per fare la Ducati 916.

Massimo Tamburini era innanzitutto uno con una discreta manetta. Lo dicevano anche i soci della Bimota che gli piaceva andar forte. E quasi ci si ammazza, con la moto. Ma era anche uno che, se lo mettevi in studio a disegnare, sapeva rimanerci ininterrottamente fino all’ottenimento della soluzione perfetta. Tamburini era preciso e metodico fino allo sfinimento. Tenevi in disordine la scrivania e lui appariva dal nulla e ti mozzava le mani con una katana rubata per sfregio ai nemici giapponesi.

Figuratevi come si misero le cose quando gli fu data carta bianca per realizzare l’erede delle 851/888….

– Però è una gran bella GILF la 851/888, eh? –

– Piaceva un sacco anche a lui… –

– “…però, Claudione… io voglio anche quella lì… quella nuova…” –

– “PRONTI!” –

APPENNINI E LAMBRUSCO

Quello che alla fine degli anni ’80 era conosciuto come “progetto Rimini” – perché la CRC, che oggi si trova a S.Marino, all’epoca era ancora in Italia – e che fu opera anche degli ing. Mengoli (resp. Ufficio Tecnico), Bordi (Direttore Tecnico di Cagiva) e Forni e di una lunga lista di preparati e appassionati professionisti, ebbe una lunga gestazione che sfociò in sette prototipi. Uno di questi finì direttamente al reparto Corse, perché la 916 nasceva principalmente per quello: correre. Fu proprio per questo che Tamburini non volle saperne di posizionare i semimanubri sopra la piastra di sterzo per migliorare il comfort, così come le pedane sono tanto alte che un pilota di statura più elevata del normale si trova coi gomiti oltre le ginocchia. Zero compromessi.

– Tamburini e il prototipo sulla strada del passo di Viamaggio. Brividi. –

La 916 avrebbe dovuto anche scarrozzare gli sfigati emuli di Falappa e Fogarty come me nelle domeniche di curve e per questo servivano il giusto test su strada e il giusto benchmark: fu testata contro mamma 888 e contro la giapponese per eccellenza dell’epoca, la Honda CBR 900 RR Fireblade, per essere certi che avrebbe colpito nel segno. Chi percorreva la strada che va su al passo di Viamaggio all’inizio dell’estate del 1993 lo sa bene.

Anche perché avrà visto l’officina improvvisata presso la quale i tecnici giapponesi della Showa smontavano e rimontavano le sospensioni seguendo le indicazioni dei collaudatori Bianconcini, Carta e Forni che facevano avanti e indietro lungo quella strada che più appenninica di così non si può (chissà, magari carburando a salame e lambrusco).

– Trovate un/una partner che vi guardi come lui guardava lei –

Il tutto, però, senza ammortizzatore di sterzo, perché Tamburini non voleva che falsasse il feedback. La moto doveva essere perfetta di suo. Al punto che lui stesso salì in sella, allo scopo di migliorare l’aerodinamica: Robbiano, autore del design, raccontava che, un giorno di pioggia, infilati casco e guanti, Tamburini aveva lasciato la CRC per andare a “disegnare” con il fango il movimento dell’aria lungo le carene.

L’idea, evidentemente, era di realizzare sul campo una… “rappresentazione grafica” dei flussi d’aria direttamente sulla vetroresina, ottenuta sporcando la moto sotto l’acqua. Ebbene, il tutto venne confermato dalla galleria del vento… non ti fidavi della galleria? Che dire allora del tempo sul giro del prototipo, al Mugello, a due secondi dal record della pista? E dell’1’43” a Misano in configurazione di serie?

– Il buon Foggy a Misano, qualche annetto fa… –

 

È PERFETTA? SI PUÒ FARE MEGLIO

Rispetto alla precedente 851/888, la 916 avrebbe dovuto essere più compatta, più rigida, con la “L” del bicilindrico inclinata in avanti di 3°, ruota anteriore più arretrata, forcellone più corto e baricentro e sella più bassi.

Il capolavoro prendeva vita a furia di prove e bozzetti dei quali il grande capo non era mai soddisfatto. Il forcellone monobraccio, per esempio, ha richiesto mesi e innumerevoli soluzioni. Fra l’altro, quel mitico componente arrivò solo in un secondo momento; pare infatti che avessero testato anche un classico bibraccio, allo scopo di ottenere maggiore rigidità (il know-how sul monobraccio non era ancora elevatissimo), ma, evidentemente, si optò poi per quella che oggi è una delle caratteristiche più affascinanti di questa moto (ma va detto che il monobraccio, assieme al telaio a traliccio, erano due imposizioni dall’alto che Tamburini non avrebbe adottato).

Per non parlare dei terminali di scarico sotto i fari, dei quali la stessa CRC era incerta ma che poi si confermarono come la scelta più adatta, benché l’idea non fosse nuova (pare che Tamburini avesse tratto ispirazione da quelli della Honda NR750); senza contare che la loro forma ellittica consentiva di evitare problemi con la compressione del mono, piazzando il codone alla giusta altezza da terra a beneficio dell’estetica. Ma tutto, sulla 916, è speciale, perfino il blocchetto di accensione “abbracciato” dal serbatoio; perfino le pedane, smussate in modo tale da garantire aderenza e comfort.

Forse il segreto della bellezza di questa moto sta proprio nel curioso e piacevole legame fra la funzione e la forma: come un aereo è (quasi) sempre bello perché la natura ha voluto che ci piacessero le forme affusolate fatte per fendere l’aria riducendo l’attrito, così la 916 trasforma le sue peculiarità in delizie per la vista. Tamburini pensava che ogni elemento della moto, al di là della sua funzionalità, dovesse anche essere bello da vedere, da toccare. Mi sforzo di trovare qualche particolare che non mi piace di questa moto, ma non mi viene in mente proprio nulla. Portatarga a parte, ma mica è colpa sua…

– Da sx, Virginio Ferrari, Claudio Castiglioni e Massimo Bordi –

GUIDARNE UNA OGGI

– Verificate che la vostra 916 abbia fatto il richiamo per il mozzo posteriore e occhio al regolatore di tensione. Poi, per il resto, problemi di affidabilità zero –

Suonerà scontato, ma è tanto speciale starle in sella che è un po’ come uscire con la ragazza dei tuoi sogni: ogni movimento misurato, per mostrarti sempre al meglio delle tue capacità e per non infastidirla con la tua volgarità da maschio in preda ad una tempesta di ormoni. Rispetto ad una moto di oggi, la 916 è semplice e schietta: la strumentazione è tutta lì, con un contagiri piazzato in mezzo e il tachimetro a fianco, in secondo piano, perché si è autoinvitato assieme alla targa e alle frecce; niente antifurto, niente sensori, niente TFT, giusto l’interruttore generale e il pulsante di avviamento.

Tiri la frizione, verifichi la folle con il piede sinistro e la spia verde, un filino di gas, pollice sullo starter ed ecco che inizia il balletto fra motorino di avviamento e frizione a secco. Non so le altre, ma la mia la devo far girare un po’ alta per un minuto d’orologio, darle tre o quattro sgasate e solo allora si posiziona correttamente al minimo, perché altrimenti si spegne e poi può capitare che la batteria non abbia voglia di fare il lavoro da capo…

Fin dai primi metri, ti accorgi che ti costringe a tenere le braccia piuttosto chiuse, il corpo il più possibile allungato sul serbatoio, le gambe rannicchiate. Se un missile avesse la sella (ed è capitato), probabilmente la posizione da assumere sarebbe la stessa. I viaggi di 500 km al mare con la 996 quando avevo vent’anni sono un lontano ricordo con contorno di fantascienza. Ai bassi, il bicilindrico è nervoso, chiede giri e lavoro di frizione, cosa che, specie nel traffico, è una vera e propria tortura, perché la leva è durissima; ma non appena la strada si libera e le curve si fanno ampie e veloci, l’intera moto sembra prendere un grande respiro e bramare di buttarcisi in mezzo.

A quel punto, il motore diventa improvvisamente fluido e collaborativo, le vibrazioni sempre presenti ma gratificanti, l’apertura del gas un evento. Alla prima curva, hai la conferma che la 916 non intende portarti a spasso come un peso morto: se la vuoi guidare, ti devi dare da fare. Restare fisso sulla sella servirà solo a farti allargare la traiettoria e subire passivamente il lavoro di una ciclistica fatta per mordere la corda in un solo modo: con il corpo del pilota posizionato esattamente dove dovrebbe essere. Quindi, chiappa interna alla curva fuori dalla sella, ginocchio che punta l’asfalto, giù le spalle e giù la testa.

Se un missile avesse la sella, probabilmente la posizione da assumere sarebbe la stessa.

Impostare una curva con lei è un po’ come seguire il profilo di un goniometro con la matita. Vedi la curva, prepari il corpo e poi c’è un istante in cui lei sembra sentirla, perché inizia a piegare quasi da sola, come richiamata verso il punto di corda da un elastico invisibile. A metà della curva, scopri che tutto è stato progettato per quell’istante: da panca di legno prestata al mototurismo, la 916 ritorna ad essere una moto da corsa e tutto il corpo ritrova la posizione ideale, con le gambe piegate quanto basta, l’avambraccio disteso lungo il serbatoio, coscia e ginocchio che sfiorano l’asfalto e la testa rivolta verso l’uscita. Giunto alla corda, non ti resta che aprire gradatamente ma con decisione il gas, innescando la fase d’uscita che si svolge in modo quasi speculare all’ingresso, senza scompensi, senza trasferimenti di carico o alleggerimenti dell’avantreno. Una curva dalla pulizia commovente.

Rispetto ad una moto moderna di pari cilindrata, i 114 cv a 9000 giri/min della 916 non sono nulla e una “banale” Multistrada le passa sopra le orecchie con il passeggero e il tris di valigie pieno. Ma, vuoi perché le moto di oggi sono anche fin troppo potenti, vuoi perché la coppia di 9,5 Kgm a 8500 giri erogata da un bicilindrico è sempre gratificante, guidare una 916 oggi è favoloso come lo era nel 1994. Forse, ti accorgi che gli anni sono passati più che altro a causa della potenza dell’impianto frenante con dischi flottanti da 320 mm, che all’epoca era una bella bestia ma che ora, rispetto ad un impianto frenante moderno, che inchioda solleticandolo con un dito, richiede una certa forza per ottenere una risposta comunque inferiore. Ma è solo questione di abitudine.

Devi resettare, ritornare ad affidarti solo al controllo di trazione che hai nel polso e ascoltare un motore che comunica con quell’acceleratore senza alcun filtro elettronico, regalandoti una erogazione incredibilmente pulita se paragonata ai modelli più recenti del bicilindrico di Borgo Panigale. Moto non più giovani come la Ducati 916 insegnano che la potenza non è tutto, lo stesso Tamburini l’ha sempre sostenuto; Massimo ci ha lasciato troppo presto mentre ci affacciavamo su un’epoca di sportive da 200 cv e oltre che nessuno può sfruttare su strada e che pochi sanno sfruttare in pista. Guidare la 916 oggi è capire che con la potenza giusta per la guida stradale ti diverti forse anche di più, perché puoi concentrarti sulle traiettorie, sulla frenata, assaporando il suo modo di comunicare e aprendo il gas senza filtri sapendo che un eccesso di fiducia in te stesso difficilmente porterà ad un high side.

Non è solo questione di provare l’ebbrezza di guidare una youngtimer tanto apprezzata e famosa, è proprio che si tratta di una moto ben progettata che gratifica sempre, anche quando vibra e strappa troppo e scalda e ti regala quei momenti esaltanti come lasciarti per strada per colpa del regolatore di tensione. Erano gli anni di “Ducati soldi buttati“? Forse, se avevi i paraocchi e la guardavi solo dal punto di vista dell’affidabilità, perché, per tutto il resto, non c’era storia.

La Ducati 916 è stata ed è una moto bellissima ma non è una tutto fumo e niente arrosto, non era mica una fighetta: nelle corse, ha vinto appena ha messo le ruote in pista, con il buon Carl Fogarty sulla SP, mondiale nel 1994 e 1995, nel 1996 con Corser e di nuovo con Foggy nel 1998 e 1999 in versione 996. Come diceva quella vecchia pubblicità della Porsche? “Ora, onestamente, hai trascorso la tua gioventù a sognare di possedere un giorno una Nissan o una Mitsubishi?“.

Motociclisticamente parlando, sognavate una Ducati 916 o una Honda CBR 900… (o una VTR)?

Ehi ehi, dove diavolo stai scappando? Avete saputo della news? Dai, quella secondo cui a breve uscirà il magazine cartaceo di Rollingsteel! Si chiamerà DI BRUTTO, arriverà dopo l’estate e sarà un fantastico viaggio di immagini, parole e colori, DI BRUTTO sarà una pillola concentrata di RS, del suo stile, del suo modo di essere e di vivere questa passione – quella per i motori, siano essi di auto, moto, treno o aereo.

Cliccate il banner qui sotto e iscrivetevi alla newsletter, scelta utile per rimanere aggiornati sull’uscita del Volume Zero, scelta obbligata perché DI BRUTTO uscirà in tiratura limitata. DI BRUTTO, pochi numeri, tanto tutto gas

Articolo del 30 Luglio 2021 / a cura di Davide Saporiti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

  • Michele

    Questo è Amore!! Articolo vivo e stupendo, grazie!

    • Luca

      Complimenti x l’articolo, veramente notevole
      sempre più fiero di avere una 916 in garage!!!.

  • Igor Giorcelli

    Sarà perché sono un amante delle Ducati (in particolare quelle un po’ ruspanti), ma questo è sicuramente uno degli articoli a tema motoristico più belli che abbia mai letto, qui su Rollingsteel o da qualunque altra parte, trasuda amore e passione da ogni frase. Grazie!

Altre cose da leggere