Dicembre 2006, esterno parcheggio scolastico ITI Primo Levi, consueta mattinata invernale pre-lezioni, gli studenti fanno le solite cose, alcune coppie si scambiano effusioni prima di entrare in classe, altri si fumano un’ultima paglia mentre ascoltano musica rigorosamente con le cuffie (all’epoca eri bello e dannato se non si sapeva cosa ascoltavi), qualcuno ha appena scoperto che ci sarà una verifica e tenta di cambiare la sua sorte tirando fuori i libri e ripassando qualcosa che presto confonderà, ma la maggior parte chiacchera e l’argomento è sempre e soltanto uno: motori. Motori a 2 tempi per l’esattezza, che siano montati sotto uno scooter o una moto cambia poco, l’importante è che non siano dei 50 cm3 o comunque non a “codice”, perchè lo status di un pilota/meccanico stava tutto nelle prestazioni del proprio mezzo a due ruote. Ci sentivamo molto delinquenti perché la Municipale, con la scusa di coordinare il traffico, aspettava i mezzi più elaborati per fermarli.
Ma tornando a quella mattina di dicembre, un rumore mai sentito prima inizia a manifestarsi nell’aria, qualcosa che sicuramente è lontano dai 50 cm3, qualcosa montato sicuramente su una moto o comunque un mezzo con le marce. Sale di giri come una furia, con un forte rumore di aspirazione e si appresta a rallentare prima del semaforo scolastico. Una piccola folla curiosa si raduna alla ringhiera in attesa di intravedre il mezzo.
“Sarà sicuramente il TM 125 Motard del ragazzo di agraria” afferma qualcuno. Ma il rumore è metallico, troppo metallico, un tipico suono di risonanza, quel tipo di risonanza che solo un motore raffreddato ad aria può fare. (Porsche docet) Ed eccolo fermarsi, con un’Arrow di derivazione Freccia C12 che quasi sfiora terra, due cerchi bianchi di cui il posteriore praticamente nero per l’olio da miscela che lo sporca irrimediabilmente ad ogni apertura del gas, una sella Yankee biposto e un carburatore laterale che potrebbe aspirare i bambini dal marciapiede e, sopratutto, uno strano telaio monotubo in un elegante british racing green, niente di più lontano da un maestoso TM Motard, è solo un vecchio Motron del 1992, il mio. Cosa era appena successo?
Per capire meglio, cominciamo dal principio.
Verso la prima metà degli anni 60, Oscar Belvederi, imprenditore della provincia di Bologna, ha un idea innovativa per immettere sul mercato un ciclomotore di fattura economica ma allo stesso tempo robusto, ovvero realizzando il telaio portante con un grosso tubo piegato che funge anche serbatoio carburante. Ad una estremità del tubo viene saldato il canotto per poter montare il comparto forcella anteriore, e all’altra estremità sono saldati gli attacchi per il sellino singolo tipo bicicletta e un telaietto che si ricongiunge alla parte centrale dove sono saldate altre due piastre attaccate a loro volta al tubo portante e su cui viene imbullonato il motore. Niente forcellone e sospensioni per il momento, non c’è nemmeno un motore con cambio di velocità, ma solo un motore monomarcia a pedali della Morini Franco Motori, con il suo piccolo 48 cm3 a 2 tempi in ghisa con testa in alluminio, alimentato da un carburatore Dell’orto SHA 14-12 accensione a puntine con bobina integrata a 6 volt, e una piccola marmitta a padella laterale. Funzionante con miscela 5%, sviluppava circa 1,5 cv, non proprio un fulmine di guerra. Il tutto viene completato da ruote a 16 pollici a raggi cromati, freni a tamburo per entrambi gli assi, un portapacchi, poggiapiedi tubolari, un bel manubrio cromato in stile custom, due semplici parafanghi del colore del telaio ed infine un comune reparto luci.Il signor Belvederi ha appena inventato il College.
Con questo mezzo non eccezionale nel complesso, si gettono le basi per l’unica tipologia di ciclomotore che poteva dare un’alternativa ai “soliti” scooter e sopratutto ai ciclomotori dell’epoca, che erano delle semplici biciclette ingrassate, con serbatoi e motori aggiunti in un secondo momento; dopotutto la linea di questo primordiale tubone, sebbene molto semplice, era anche molto snella.
Ma la storia del tubone non si può riassumere nel solo College, in quanto fu l’inizio di un fenomeno di clonazione incredibile, tant’è che nel giro di pochi anni decine e decine di marchi crearono la loro versione del suddetto mezzo, fino ad arrivare ad oltre cento, tra modelli e versioni, praticamente tutti uno la copia dell’altro, di base tutti evoluti con il College. Tutte queste evoluzioni portarono alla comparsa dei primi motori a quattro marce a pedale, ricordiamo i mitici Minarelli P4 e Morini UC4, tanto simili e tanto diversi, e all’introduzione delle sospensioni posteriori. Durante il periodo della piena evoluzione iniziarono ad essere sempre più ricercati.
Ad inizio anni ’70 i tuboni erano un tripudio di luccichii e cromature, potevano essere adatti a qualsiasi esigenza, alcuni erano molto semplici, altri avevano una vocazione custom o addirittura militare, vedasi il Testi Cricket e Militar, il primo una sorta di Harley Davidson in miniatura per i ragazzi che avevano visto Easy Rider e non potevano aspettare i 18 anni per una vera custom;
il secondo invece era uno degli esperimenti più assurdi mai visti nel campo di questi ciclomotori: un tubone verniciato con una bella livrea verde militare, con serbatoio aggiuntivo, vari portapacchi marmitta, manubrio alto per vellietà enduriste e sopratutto, udite udite, riduttore come nei fuori strada. Esatto, avete capito bene, aveva una doppia catena con due pignoni e due corone, e un leva specifica per poter passare da un rapporto all’altro in base alle esigenze, e come gran finale, per non farsi mancare nulla, poteva essere dotato di sci laterali per essere utilizzato anche con neve profonda.
Col passare degli anni il fenomeno è sempre in aumento ed evoluzione, anche se non si riesce a porre rimedio a un grave difetto che accompagnerà qualsiasi tubone mai prodotto: l’autonomia. Eh si, perchè qualsiasi modello di qualsiasi anno poteva contare su un serbatoio che andava da 2,5 a 3,5 litri di benzina, e anche se consumavano molto poco, avere oltre 100 km di autonomia era quasi un miraggio.
Questo non fermò le vendite e l’evoluzione, ed alla fine degli anni ’70 un tubone poteva avere già i doppi ammortizzatori Marzocchi a gas inclinati a 45 gradi, forcelle idrauliche anteriori con serbatoi esterni della CO.ST.A, il freno a disco anteriore della Grimeca, strumentazione completa di contachilometri e contagiri della CEV, cerchi in lega sempre Grimeca e tanto altro, iniziando ad avere una connotazione quasi sportiva. Inoltre si evolsero anche i motori, ed arrivano i primi gruppi termici ad abbondante alettatura radiale e non, famosi i Minarelli Compact System ed i Morini TurboStar (nato ben prima del omonimo Iveco).
Comunque non mancano esperimenti per diversificare a prima vista i telai e riconoscere a colpo d’occhio i vari marchi, tipo il Cambridge Cobra della MZV con le due protuberanze sul tubo portante che ricordavano un cobra, o il Negrini Harvard riconoscibile per il piccolo scatolato saldato sopra la parte anteriore del tubo, dove si immetteva la benzina. Anche la Gilera, tentò un suo “esperimento”, mettendo in commercio CB1 che aveva un telaio tubolare doppio e il serbatorio nel centro del telaio, ma non fu il successo sperato. Altro tubone molto particolare era l’Oxford della Peripoli, non particolarmente evoluto come sovrastrutture o motore (aveva un semplice Morini T4), ma particolare perchè il telaio era ovale invece che tondo il che lo rendeva davvero bello rispetto alla concorrenza. C’era anche chi invece preferiva dedicarsi alla meccanica pura come la Motron, creando il Motron SV3, un ciclomotore dotato dalla fabbrica del Minarelli P6, ovvero con 6 marce, un motore capace ancora di creare emozioni uniche nelle giuste mani , che meriterebbe un articolo a sè stante.
Ma fra tutti come non ricordare il più famoso dei tuboni?
Ovviamente si parla del Malaguti Fifty, prodotto per oltre 20 anni in numerevoli versioni, partendo dal primo del 1975 e passando per i modelli più esclusivi, come il BSF (non è un pratica sessuale, vuol dire Black Special Fifty) nell’iconica livrea nero e oro, oppure il più classico e forse mainstream modello TOP, prodotto a partire dalla metà degli anni ’80 con il classico monoammortizzatore posteriore a leverismi (KTM levati proprio) e il motore Morini GSA raffreddato a liquido prima e poi con il Morini G30, con cui si introduceva l’aspirazione lamellare a carter. Il Fifty Top diventò una piccola icona tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, grazie sopratutto ad un estetica estremamente evoluta, con una carenatura completa di tipo motociclistico, colorazioni degne delle migliori moto sportive e sopratutto ottime prestazioni, se non fosse stato per il cambio a tre rapporti… Già, perché nel 1988 un’assurda legge italiana impose che tutti i ciclomotori di nuova produzione avessero al massimo tre rapporti. Per i fanatici dei Fifty Top non era un problema, in quanto si poteva acquistare l’ingranaggio della quarta marcia, smontare il pignone della catena, il coperchio sottostante, e inserire l’ingranaggio mancante. Sebbene il Morini G30 fosse l’unico a prestarsi a questa modifica, essendo progettato per andare bene anche a tre rapporti, ma anche con l’up grade, tra la seconda e la terza marcia tendeva un po’ a “morire”.Esisteva anche il G30 con la rapportatura giusta, montato sulle Malaguti RST precedenti alla legge, parliamo del santo graal degli appassionati Fifty.
All’inizio degli anni 90 un nuovo avversiario è entrato in scena, un avversario che non lascia scampo all’anziano, seppur evoluto, tubone. Entra in scena lo scooter, nuovo mezzo che riesce a coniugare la comodità del cambio a variazione continua con le prestazioni di un mezzo a marce, dotato di un accessorio sconosciuto fino a pochi anni prima: un portaoggetti ampio.
Niente più strade, ma cantine e stalle per i tuboni, rei dell’assenza di un portaoggetti abbastanza capiente per l’olio e colpevoli di una modesta autonomia, mentre il mondo cambia e le colonnine di miscela vengonono rimosse dai distributori.
Quindi finisce tutto qui?
A questi strani ciclomotori rimane la loro vita parallela, fatta di elaborazioni e personalizzazioni, che continua ancora oggi, sempre in quei garage dove la passione per il motore due tempi non si ferma mai. Oscar Belvederi, parafrasando Lord Alexander Heskett nel film Rush: “non avrebbe mai immaginato che inventando quello strano ciclomotore si sarebbe impossessato della nostra immaginazione e dei nostri sogni” . Questi motori infatti, erano nati per essere elaborati: Minarelli P4/P6 e i successivi RV3/4 e DL3/4, i vari K6 o MR6, già all’epoca estramamente rari, i Morini con i vari UC4/T4/GS. La stessa Minarelli produceva i gruppi termici più potenti, motori di 80 cm3 con potenze abbondantemente sopra i 15 cv (vox populi 20, ma mi piace stare dalla parte dei bottoni), che dovevano essere alimentati da carburatori Dell’orto di 28 mm (Mikuni e Keihin ancora non si conoscevano), con accensioni a rotore interno Motoplat ed espansioni di ogni tipo artigianali e non.
C’erano anche delle chicche come il raffreddamento ad acqua della sola camera di scoppio che usava il manubrio come radiatore, oppure le frizioni a denti dritti, usata più per il rumore che produceva che per i vantaggi effettivi. Inoltre va ricordato lo storico 80 Polini, anch’esso ottimo gruppo termico che dichiavara un potenza 13,6 cv, oppure il 60 della Simonini, azienda che oltre a produrre le famose espansioni aveva ideato un’elaborazione di 60 cm3 che andava incredibilmente forte per avere un cilindrata così esigua, anche se aveva qualche problema di affidabilità.
Tutti questi pezzi, pensati esclusivamente per campionati velocità o cross, spesso venivano montati sui tuboni perchè i blocchi motore erano gli stessi o facilmente adattabili e decisamente molto più economici rispetto alle varie enduro. Tali elaborazioni avevano “effetti indesiderati” perchè nè i freni nè le sospensioni erano assolutamente adatti a quelli potenze, i telai tendevano a piegare la culla motore o addirittura il forcellone e le piastre porta motore si crepavano.
La ricetta classica per l’elaborazione più semplice, e anche la più utilizzata era la classica “19 e marmitta”, perchè a differenza di tanti ciclomotori più moderni, le termiche dei vari tuboni supportavano tranquillamente carburatori di 19 con buone espansioni, incrementando radicalmente le prestazioni, senza compromettere troppo l’affidabilità, ma portando il mezzo alla soglia dei 100 km/h (magari con qualche piccola rivisitazione del cilindro). Così ragazzi che facevano fare la preparazione “base” dello scooter dai meccanici (gruppo termico 70 in ghisa, carburatore 19, marmitta a espansione e variatore), prendevano la paga da questi cinquantini…
Oltre la preparazione tecnica esisteva anche quella estetica, con pezzi aftermarket di ogni genere. Decine di marchi avevano creato la propria linea accessori, partendo dalle semplici selle biposto (le famose giuliari Yankee, o le Nisa Camel), passando al manubrio stretto della Tommaselli, ribattezzato in certi ambienti come “suicidio”, perchè rendeva il mezzo inguidabile, sopratutto se elaborato. Citiamo anche altre chincaglierie di dubbio gusto, come serbatoi aggiuntivi da fascettare al tubo, portapacchi/schienali, portaborse laterali e chi più ne ha più ne metta.
Ed oggi? Oggi i tuboni si godono la pensione come mezzi “storici”, a volte originalissimi, a volte molto elaborati, a volte lucidati come fossero delle moto di pregio assoluto oppure usati per fare i salti in campagna, oggi come allora. Anche se per me il loro ruolo è e rimane quello di essere il primo mezzo di evasione dell’adoloscente, il mezzo che ti portava da un capo all’altra della città il sabato sera per fare i primi “danni” da ragazzi, il primo mezzo che ti permetteva di raggiungere la ragazza conosciuta per caso la sera prima, il il primo mezzo che ti permetteva di fare “fuga” da scuola, andando ad esplorare luoghi lontani. Oggi, all’alba dei trentatrè anni, dopo una decina di auto e quattro moto, posso dire con certezza che l’unico mezzo che mi pento di aver venduto è il Motron che avevo a quindici anni. Spesso dubito che gli adolescenti di oggi comprenderanno mai cosa voleva dire questo tipo di libertà, visto che anche gli scooter hanno perso la battaglia della modernità, venendo soppiantiati da mezzi che non hanno lontanamente il fascino dei loro antenati.
Ma oggi mi trovo a scrivere questo articolo perché qualche mese fa, ad un incrocio vicino alla mia vecchia scuola, un suono familiare ha attirato la mia attenzione, un suono bello, tintinnante, che solo un due tempi non originale riesce a fare. Era un ragazzo su un vecchio Atala Master, ben preparato. Forse c’è ancora speranza. Visto che ci siamo vi lascio con la foto del protagonista e di come si presenteva all’epoca del fattaccio. Pensate che il divertimento VERO doveva ancora iniziare…
Ora avete capito perchè il primo amore non si scorda mai?
Testo di Davide Bettelli
Per le foto si ringrazia il forum “Mondo 50”
in effetti io ho dovuto saldare parecchi “fazzoletti” di acciai agli attacchi del motore. io ricordi carburatori “bing” mi pare dei km. e la frenata alla Lourdes
dei KTM volevo dire
articolo meraviglioso, aspetto con ansia quello sul minarelli p6
E il cimatti “gringo”
quando sento queste storie un altra canzone che mi viene sempre in mente è Chicco e spillo di Bersani, che tempi ragazzi.. che tempi…
Manca, se vogliamo, un riferimento al canto del cigno del settore: Gilera Bullit e Fifty Top Evolution.
Altra chicca é il fifty prototipo del 2004, esemplare manichino UNICO recuperato e reso funzionante da un ormai non più ragazzo di Ozzano. Favoloso. Sarebbe bello un bel articolo anche su quei due mezzi super speciali che erano il bullit e l’evoluzione.
Speravo che quest’ articolo non finisse più.
Ovviamente anch’io ho iniziato la mia avventura su 2 ruote con un tubone, il principe di tutti i tuboni, il Fifty.
Leggendo queste righe e guardando la foto del Fifty rosso, mi è tornata alla mente quando accompagnavo a casa la mia prima ragazza… Come si stringeva a me per non cadere dalla sella… Quanti nomi che mi dava, e quanti limoni… Ahahahah
Sei una Leggenda uomo…come l’articolo sui Tubi (non quelli che pensate voi..).
Dall’alto del mio Tuareg 50 (Di originale c’era….non mi ricordo..forse il telaio) il Fifty era visto come un giochino..ma non lo era affatto! Tralasciando i vari Cobra dell’epoca (che con banco a 6 marce e magari un 34 di carburatore dava la paga a parecchi 125), e’ stato un mito in tutti i sensi. Dai..quando hai tempo e voglia…fai la storia dei “Mitici C” della Cagiva..ne viene fuori un grande articolo! PS: Se poi alla fine ci butti qualcosa anche della mia Mito 1* Serie rossam che scorrazzava alle rotonde della Barca, Mazzini e al Macello…forse se la ricordano ancora..buahahaha!
Che tempi! Da quattordicenne -ok, anche prima…- ho ereditato un CB1 che mio padre comprò di seconda mano nei primi anni ‘80. Lui lo usava anche per andare in montagna a cercar funghi. Quindi motore 80cc, carburatore da 18 e marmittone modello “sveglia dei morti”. Ma senza cambiare i rapporti, a lui interessava che si arrampicasse come uno stambecco.
Era una libidine: aveva lo scatto di un dragster, buttavi dentro le 4 marce in un amen – peraltro al contrario, si scalava in su e si saliva in giù! Poi a 50-55 all’ora si piantava, ma quando lo usavo io a metà anni ‘90 dava ancora paga al semaforo a tutti gli scooter del quartiere. Rosso, con sellino ricoperto di jeans, scaldava come la sala macchine del Titanic, risaldato più volte per via dei salti in montagna.
Era una meraviglia assoluta!
Conservo ancora gelosamente nel garage il mio MZV Cobra rosso, con lo scarico da 80 e il resto tutto originale…anche le gomme…ogni tanto lo accendo e con un paio di colpi si mette in moto…che bei ricordi