Non so a voi, ma a me piacciono le moto con il faro tondo.
Naturalmente ci sono delle eccezioni che riguardano principalmente le supersportive, tipo la 916, ma per me una moto è “a forma di moto” se ha il faro tondo davanti.
Quindi faccio molta fatica ad apprezzare tutta la roba a forma di Mazinga che si vede negli ultimi anni, così come non tollero le strumentazioni digitali. Per me l’ago del contagiri che frulla impazzito è insostituibile.
La verità è che sono un po’ reazionario quando si parla di due ruote e certe innovazioni proprio non le capisco, tipo il quick shifter.
Ovviamente è utile e funzionale, ti fa andare più forte e bla bla bla. Ma per me il gusto di guidare la moto è anche avere la frizione in mano, essere padrone della meccanica e diventare tutt’uno con lei. Una volta una ragazza che era venuta a fare un giro con me – una volta si diceva “zavorrina” ma oggi immagino che non si possa più dire – mi disse quanto era affascinata da tutta questa gestualità, dalla coordinazione necessaria per fare un cambio marcia come si deve.
Gas chiuso, frizione pelata, punta del piede su, frizione via e gas aperto.
Tutto in una frazione di secondo.
In effetti a pensarci bene è proprio una ficata.
Ma torniamo alla verdona che vedete in queste foto e che velocizza le mie giornate ormai dal 2019, nello specifico da giugno. Ero rimasto a piedi da qualche mese perché qualche pezzodimer mascalzone si era portato via la mia Tracer 900, la prima serie, quella con il forcellone corto, che era più imbizzarrita di Varenne dopo aver inseminato dieci manichini al giorno senza vedere una cavalla vera (che brutta fine, dopo essere stato il cavallo più vincente della storia).
Problemi equini a parte, la Tracer 900 era venuta dopo una TDM 900 e dunque era ora di cambiare genere. Per qualche settimana sono stato un po’ in crisi e poi un giorno, tutto a un tratto ho avuto un’illuminazione, quasi un’epifania!
La mia nuova moto sarebbe stata lei, la Kawasaki Z900 RS Cafè, con il suo look anni Settanta, quel verde incofondibile e un bel quattro cilindri.
Dopo una rapida ricerca ne trovai una a Milano (io vivo a Roma), una rara Km.0 ancora imballata nella cassa con cui era arrivata da Akashi. Il prezzo era assai allettante e andai subito a prenderla, chiedendo al concessionario di farmela già trovare con un bel terminale di scarico. Appena ritirata e messa in moto chiesi di togliere il Db killer, visto che il rumore era praticamente lo stesso dello scarico di serie. Il viaggio per riportarla a casa fu uno strazio: caldo tremendo sulla A1 e il rodaggio da rispettare. Inoltre c’era qualcosa che non mi tornava a livello di suono…
Piccolo inciso: per me un certo livello di frastuono è fondamentale, sulle auto ma soprattutto sulle moto. Dal cinquantino in poi non ho mai avuto un mezzo con lo scarico originale.
Insomma arrivo a casa dopo 6 ore di autostrada, mi sgranchisco le gambe e guardo sotto al motore. Orrore! Qualcuno ha messo una scatola di scarpe dopo i collettori! Ah no… è il catalizzatore dell’Euro 4.
Dopo un attimo di scoramento chiamo la concessionaria Kawasaki di Roma e ordino anche i collettori Leovince. “Lo prendo il catalizzatore sportivo?” mi chiede il titolare “Ma no, a che serve…” rispondo io. I risultato potete vederlo qui sotto.
Una volta liberata la respirazione del 4 cilindri ho iniziato ad apprezzare questa moto in tutte le sue sfaccettature. È un mezzo di una versatilità incredibile: agile in città, divertente sulle strade di montagna e volendo anche in pista (ci torneremo tra poco). Ci si può anche andare un po’ in due, ma serve un po’ di spirito di sacrificio perché lo spazio a disposizione non è molto. Tutto questo senza dimenticare quanto è bella!
A questo punto bisogna parlare un po’ di storia, perché c’è stato un periodo ben preciso in cui le moto hanno cambiato faccia e forma, a partire dal quale nulla è più rimasto come prima. Nel 1969 la Honda CB Four è stata la prima a riscrivere le regole, dopodiché sono sbarcate tutte le sue “colleghe” dal Sol Levante. Tra queste c’è la Kawasaki Z1, che quando arrivò sul mercato nel 1972, con i suoi 900 cc e 82 CV, era semplicemente la moto più potente del mondo. Un modello che ebbe un successo cristallino, fatto di 115.000 unità vendute, e che negli anni è diventato una leggenda. La Z 900 RS Cafè è ispirata proprio a lei e, se non vi piace il cupolino, c’è anche la Z900 RS che è nuda e con il manubrio largo.
Io ho scelto quella con il cupolino senza dubitare nemmeno per un secondo, proprio per le sue forme da cafè racer, una definizione che mi è sempre piaciuta e che rimanda a un passato molto più vero ed emozionante del presente. Ad ogni modo questa verdona è anche insospettabilmente comoda, perché la triangolazione sella-pedane-manubrio non è estrema. Il busto è leggermente caricato in avanti, quel che basta per contrastare l’aria restando in posizione eretta anche a 120/130 km/h e per avere un po’ di peso sull’avantreno, per sentire la ruota anteriore quando il ritmo sale. A proposito di peso, la scheda tecnica dice 190 kg a secco, anche senza cose esotiche tipo il telaio in alluminio.
A livello tecnico è una moto molto concreta, senza soluzioni clamorose che ispirano i discorsi da bar, ma con una genetica racing da vera Kawasaki: la forcella a steli rovesciati è completamente regolabile e basta chiudere un po’ la compressione per avere sostegno anche nelle staccate più cattive. Il motore è molto pastoso, si può scendere anche sotto i 2.000 giri in sesta senza un sussulto e poi aprire tutto. In configurazione originale l’allungo non è la sua dote migliore, visto che a 9.000 giri la festa è già finita, ma è bastato fare una bella mappa per fargli ritrovare il vigore perduto, come potete vedere dei grafici qui sotto.
Ad ogni modo 110 CV bastano e avanzano per divertirsi, anche perché a un certo punto bisogna anche frenare. L’impianto è ottimo e con le pasticche racing è ancora meglio. Queste ultime le ho installate apposta per portare la Z a Valleunga, durante i Metzeler Days del 2021, dove avevo provato le M9 RR, ovvero delle gomme un sportive stradali bimescola. Di quella giornata ho un ricordo bellissimo, perché la verdona era stata facile e molto divertente. Alla fine il problema principale erano le pedane basse e soprattutto il cavalletto, che toccava nelle pieghe a sinistra. In ogni caso, con tutte queste limitazioni, prima di fare la mappa, con gli specchietti e anche il portapacchi (si lo so…poi l’ho tolto infatti), la Z si è fatta rispettare e ha staccato un bel 2’05.175 come giro più veloce (se non ci credete, c’è la stampata qui sotto).
In conclusione, per me rimane una moto eccezionale e con uno stile intramontabile, che se i tempi dovessero farsi più duri è perfetto anche per gli scippi.
Penso che non la venderò mai, allo stesso modo della sua coinquilina…
Il fatto è che entrambe, a modo loro, sono perfette così. A parte dei piccoli ritocchi qua e là a livello di meccanica, che non guastano mai, sono due mezzi che rappresentato il meglio di un’epoca. Il riassunto perfetto di una certa tipologia di moto (la stradale stiolosa, divertente e polivalente) e di auto (la coupé a trazione posteriore tutta da guidare e a un prezzo accettabile).
Abbiamo finito? No! Ricordati di preordinare il nuovo DI BRUTTO Volume 6 che non ne sono rimasti così tanti.
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Non è un articolo, è poesia motociclistica di alto livello.
C’è l’ho!
Moto super, confermo che in molti la scambiano per moto d’epoca e che in ancora di più si girano a guardarla.
Il limite sono che per anagrafica e dimensioni mie, la porto come un pensionato.
PS.
Nota per autore: se conosci un buon posto a Milano o dintorni per sistemare assetto in modo coerente con mio peso e dimensioni ti sarò molto grato