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Talbot Sunbeam Lotus, 9 quintali pericolosissimi.

Tutti quanti ricordiamo la Talbot per…

No, un momento.

Da capo.

Nessuno si ricorda della Talbot. E questo è un peccato, un vero peccato. Per rinfrescarvi la memoria e riportarvi a tempi in cui le macchine erano tante e varie e tutte diverse tra loro ed ognuna col suo bel caratterino, ecco che vi raccontiamo della Talbot Sunbeam Lotus. Così, stasera, guardandoci attorno al semaforo, potremo intristirci un po’ tutti assieme, mannaggia la globalizzazione ed il marketing e la gente che ci crede.

Quindi, eravamo rimasti alla:

Talbot Sunbeam Lotus

La nascita della Talbot Sunbeam Lotus è tutt’ora avvolta dal totale mistero. C’è chi dice sia stata concepita come esperimento per vedere se al pubblico europeo piacevano le auto sportive piccole a trazione posteriore e c’è chi dice sia stata creata appositamente per correre. Tuttavia, visto che mi piacciono le ignorantate, la versione ufficiale a cui voglio associarmi è questa:

Verso la fine degli anni settanta, quando la Talbot si chiamava ancora Chrysler e le auto inglesi perdevano pezzi per strada, un bel giorno un dirigente della divisione inglese della casa americana entrò nel reparto progettazione dicendo:

“Regaz, dobbiamo trovare un modo per far aumentare gli incidenti stradali nel Regno Unito, come facciamo?”

Dal fondo della stanza due ingegneri – che chiaramente volevano farsi licenziare per prendere la disoccupazione, dissero:

“Ma rega, se chiamassimo Chapman e gli facessimo mettere un 2.2 quattro cilindri 16 valvole aspirato da 155 cv sulla Sunbeam?”.

Il dirigente, strabiliato, invece che mandare quei due a cagare, accettò la proposta e chiamò Colin Chapman che, senza farselo ripetere mezza volta viva l’ignoranza, spedì a quei mattacchioni della Chrysler UK un paio di motori da corsa da montare sulla Sunbeam.

Capito? Motori Lotus su questa:

Ma prima di andare avanti, due righe su questo catrame pezzo di storia: la Chrysler Sunbeam (che diventò Talbot quando la Peugeot rilevò il marchio e che nacque per sostituire la ormai obsoleta Hillmann Imp) era una piccola utilitaria a tre volumi con motore in alluminio e trazione posteriore, in pratica una Porsche in miniatura. La Sunbeam condivideva con la Imp le piccole dimensioni, il motore e la trazione posteriore.  La base meccanica insomma era ottima ma non fu un modello molto fortunato per quanto riguarda le vendite. Per cercare di creare interesse, quindi,  fecero la stessa mossa fatta con la Imp: mandarla a correre. E mandare a correre una macchina significa creare una versione sportiva.

Ma con questa, forse – per fortuna cazzo! – esagerarono. Lì davanti, montato longitudinalmente c’è un motore rabbioso, che ha fame di giri come una 20enne ha fame di altre cose.

 

 

 

 

Di uscire con le amiche, maliziosi.

Ma torniamo alla Sunbeam valà. Pensi di poterla definire la Trueno europea, non solo per lo stesso segmento, meccanica, disposizione dei componenti, ma anche per la stessa natura corsaiola pura e pervertita, questa scatoletta è follia pura: le ruote posteriori non riescono a stare ferme un attimo, perché si trovano a spingere appena 940 kg per la versione stradale e poco meno per la versione da corsa. Le ultime versioni della Sunbeam Gruppo 2, arrivavano a oltre 230 CV.

Gruppo 2 come questa:

Avete letto bene. Duecentotrenta cavalli. Duecentotrenta cavalli su un telaio nato per farsi portare a spasso da 45 pony. Le uniche modifiche sono un rollbar, sedili e volante sportivo. Nient’altro: onore e grinta si conquistano, non si comprano.

Passo corto, peso ridotto, trazione posteriore e preparazione completa per competere nel Gruppo 2. Non c’è nulla da fare, in curva o sul dritto può prenderla a male, non vuole stare dritta e c’è solo un modo per rispondere a tono: improvvisare. Andate a vedere qualche passaggio dell’epoca e ve ne renderete conto. Questo ferro nel 1981, con al volante Toivonen e Guy Frequèlin (con accanto il fido navigatore Jean Todt, sì, quel Jean Todt),  battagliava contro le Audi Quattro, le Escort RS1600, le Ascona 400 e le 131 Abarth, portò a casa 6 podi di cui una vittoria in Argentina, e la vittoria finale nel mondiale costruttori di quell’anno (battendo 177 punti a 106 la Datsun).

Quando si parla di un’auto da corsa, per di più vincente come questa, è difficile andare oltre al palmarès ed ai risultati, ma, visto che sono un drogato di dettagli, di meccanica e di macchine da malati di mente, vediamola da vicino, questa iradiddio su ruote.

Partiamo dal fatto che questa Sunbeam mi fa impazzire perché fa parte di quella categoria di macchine che hanno una brutta reputazione. Dicono che sia imprevedibile e nervosa, la descrivono quasi come uno schizofrenico insieme di metallo e cavi. Questa è la tipica ragazza per bene, tutta casaechiesa, improvvisamente diventata impossibile e tremenda non appena iniziato a frequentare i giri meno raccomandabili della zona.

Guardandola non le dareste mille lire, ma è proprio qui che vi frega: non è di certo la macchina più raffinata del mondo, non è l’elegante signorina che portereste ad una cena di gala. Questa, se la portate fuori a cena e la perdete di vista un attimo, la ritrovate ubriaca impegnata a fare a botte e rovesciare le aiuole in giardino. Forse sto esagerando, ma non sono poi così lontano dalla realtà. Dai guardatela bene, è in tutto e per tutto un’auto da corsa ed è piena di dettagli da andare giù di testa, uno su tutti è questo pulsante:

Quale? questo qui:

Questo bottone, messo sulla pedana poggiapiedi destra serve, in gara, per fare gli abbaglianti ed è a disposizione del navigatore che, oltre a dare indicazioni e pregare per la propria incolumità, deve anche pensare a far scansare chiunque si piazzi in mezzo alla prova speciale. Sono questi dettagli che mi fanno amare le auto da corsa, in particolar modo le vecchie, dure e pure, auto da corsa.

Guardate quei fari supplementari, non vorrei essere un alce sul suo folle percorso. Gli interni sono un tripudio di tubi e dettagli da sbavo. Il volante Lotus, il comando per la ripartizione dei freni, le cinture di sicurezza, la ruota di scorta, tutto urla a gran voce la fame di vittoria e di velocità e di uccidere che questa macchina sbatte in faccia a chi la guarda e la osserva.

Ma è aprendo il cofano che la faccenda diventa pericolosa e che bisogna avere a portata di mano i fazzoletti. Il 4 cilindri in linea da 2174 cc montato in posizione anteriore longitudinale è alimentato da 2 carburatori doppio corpo Dell’Orto che fanno tanto scooter elaborato ma che in realtà sono delle piccole opere d’arte di alluminio ricavato dal pieno. Altra caratteristica che i più attenti noteranno è che il motore è montato con un particolare angolo di inclinazione, il che rende particolarmente fragile ed inaffidabile questa piccola mina antiuomo con le ruote. La parte alta della testata soffre infatti di problemi di surriscaldamento (a causa della sua posizione il liquido di raffreddamento circola male il quel punto) e questo ha spesso portato a numerosi ritiri ed anche oggi questa macchina, utilizzata nei vari rally storici, è una bestia da trattare con i guantini, pena costose riparazioni. Lo sanno tutti che questa Talbot esplodeva ogni volta che era martedì. Sempre se non vi eravate ammazzati la sera prima facendo gli imbecilli per strada.

Ed è proprio il motore il protagonista della faccenda, col suo caratterino poco raccomandabile. Passati i 3000 giri, da spento e apatico, si scrolla di dosso la polvere e sfoga tutta la sua potenza traccanando broda manco fosse birra attraverso i due grandi Dell’Orto da 45, rendendo tutto più rischioso e appassionante. E sovrasterzante:

Se amate il rischio e le sfide impossibili sarà lei la vostra accompagnatrice speciale di sventure e scorribande, ma ricordate: questa Lotus non perdona, neanche dopo anni di relazione, quando siete sempre sull’attenti che farla incazzare è un attimo. E poi la sua linea, che ricorda da vicino una macchina fatta con i lego tanto è squadrata e spigolosa, è un vero riassunto del design automobilistico degli anni ’70. Anzi, del peggior design anni ’70, tanto è  brutta e anonima forte sta scatola. Ma sapete una cosa? chissenefrega, in movimento è talmente attiva da farvi sentire vivi per la prima volta. Ci si concentra sempre e solo su come ci sente, su quanto si ha paura e su quanto si deve lottare con lei per portare a casa la pellaccia (sempre se non si rompe prima).

Chi sceglie macchine così è meglio che si tenga lontano dalla brave ragazze, potreste rovinarle l’esistenza. È veramente speciale e fuori dal contesto. Fuori dal contesto come la situazione che si è creata nel fotografare quest’auto.

Non smetterò mai di ringraziare il caro proprietario col quale abbiamo raggiunto il luogo delle sgommate dello shooting percorrendo 30 e passa km con questo ferro come se fosse una normale auto da tutti i giorni (anche se, causa rapporti corti la massima velocità raggiunta sono stati i 110 km/h in autostrada). Ci siamo andati in giro di sabato mattina e dovevate vedere le facce della gente. Sembrava di essere su di un’astronave, in mezzo alla monotonia ed alla noiosa normalità delle auto che circolano quotidianamente, questa piccola rumorosa e appariscente palla di colore ha veramente attirato su di sè una quantità di sguardi spesso riservati ad altre auto.

Non c’è S3, non c’è TT, a dire il vero non c’è proprio niente là fuori che possa far divertire e possa insegnare ad amare le auto, quelle vere, come queste piccole perle di follia anni ’70 e ’80. È così che si fanno le auto diobò. Piccole, leggere, potenti e con una meccanica messa e girata dal lato giusto. Ma nonostante questo, lei fu l’ultima. Con la Sunbeam, infatti, morì definitivamente la categoria delle piccole utilitarie e trazione posteriore, lasciando  un vuoto incolmabile dentro tutti noi appassionati. Vuoto successivamente riempito dalle folli compatte a trazione anteriore ma, come si suol dire, questa è un’altra storia (che arriverà a brev..i.e.).

Piccola nota finale per i più malati di voi.

La Talbot Sunbeam delle foto è stata preparata in origine per le gare in salita dal Garage Borghi di Milano negli anni ’80. All’anteriore abbiamo pinze freni Lockeed cp 2361 a 4 pompanti su dischi 250 mm autoventilanti e dietro i tamburi sono stati sostituiti con dischi da 230 mm e pinze a 2 pompanti. All’interno abbiamo un ripartitore di frenata anteriore/posteriore, un freno a mano idraulico ed un roll bar integrale. Sotto al cofano, tenuto fermo da quattro sganci rapidi, c’è una barra duomi e sotto al motore è presenta una slitta per proteggerlo. Doppia pompa benzina, impianto di estinzione, cinture 4 punti e sedili Sabelt completano l’opera.


Non ci è dato sapere in che modo il motore fu preparato all’epoca, sicuramente venne sostituito l’albero a cammes e e venne effettuata una nuova taratura dei 2 carburatori originali Dell’Orto DHLA 45E. Successivamente all’acquisto, visto che non si è mai abbastanza racing, sono stati allargati i parafanghi secondo le specifiche gruppo 2. Sono stati montati pneumatici 205/60/13 al posto degli 185/70/13 che erano presenti prima. Le molle posteriori sono state ribassate e rinforzate con ammortizzatori regolabili e gli ammortizzatori anteriori originali sono stati modificati in altezza e taratura. I bracci anteriori sono regolabili con avantreno su uniball, è stato rinforzato il fissaggio della scatola e bracci sterzo. Scarico completo in acciaio inox, frizione in rame (da piedini di fata), coppia conica corta 8/35 (originale 9/35), estintore brandeggiabile, pedane in alluminio goffrato, 4 fendinebbia supplementari e livrea da corsa.

Ora ci manca solo la sigaretta di rito.

 

Articolo scritto a sei mani da me (Lorenzo Moro) con il preziosissimo aiuto di Mattia Limonta e Luca Maini che sono due infuocati male di vecchie macchine da rally, grazie!
Articolo del 22 Novembre 2017 / a cura di Il direttore

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  • Paolo Cacciotto (aka Giuseppe Tubi)

    45 pony? Ti sei dimenticato della 1.6 Ti da 100 horses. Io l’ho avuta e non era per niente ferma, per i ragazzi dei primi anni 80. Anche lei due carburatori doppio corpo e trazione posteriore.
    Correva anche lei nei rally, mi si disse assieme alle golf, con qualche vantaggio in discesa grazie alla trazione posteriore.
    Per me fu la macchina da tutti i giorni e ne ho un buon ricordo.
    Ciao!

  • Giancarlo Capra

    Dal 1992 ne ho una S! che adoro e confermo il carattere scorbutico. In accelerazione se trovi sotto le ruote un’imperfezione dell’asfalto rischi di girarti. Però l’accelerazione è da razzo, ai tempi su quattroruote (1981) lo 0 a 100Km/h lo faceva in 6,9 secondi. Ricordo un ragazzino con tipa al semaforo che dalla sua Peugeot 205 1900 Gittii mi guardava come si guarda un poveraccio con un catorcio. Al verde, dopo i primi 10 mt (causa fumo dalle mie gomme), l’ho polverizzato. Al semaforo successivo, lui a bocca spalancata tipo paresi e la tipa in crisi da panico! Con lei mi sono innamorato del marchio Lotus, riuscendo a prendermi una splendida Elise S1 111s gold leaf. Mi manca tanto la Omega Lotus (sorellona anabolizzata della Sunbeam) ma ormai ho perso il momento giusto per l’acquisto.

  • Massimo Borrelli

    Avevo un Ti gruppo 2. Un conoscente ruppe il motore della sua Lotus in una speciale e la fiche era scaduta così mi accaparrai tutta la meccanica per 1 milione di lire (!): AP lookheed a 4 pompanti avanti e a 2 dietro, differenziale Salisbury 80%, sterzo diretto da 2,1/4 sx-dx e placca di rinforzo per il ponte posteriore, assetto Koni e molle posteriori a due configurazioni da rally o salita. Carburatori ritarati e filtri da corsa. Era una pulce impazzita che saltava da una curva all’altra, lo sterzo serviva solo a contrastare il retrotreno che fungeva da parte direzionale. Fu sequestrata e rottamata d’ufficio mentre ero all’estero. Quanto mi manca!

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