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Shadow, storia della scuderia più losca di sempre

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C’era una volta un eroe di guerra ed ex agente della CIA a cui piacevano i motori. Era un tipo misterioso, parlava poco e viveva nell’ombra. Da brava spia aveva contatti ovunque e con il suo modo di fare sapeva convincere chiunque a fare ciò che voleva. È stato un attore principale nella nascita del motorismo sportivo in Giappone, ha fondato una delle scuderie più iconiche e rivoluzionarie del campionato CAN-AM ed è stato al centro della spy-story più clamorosa che si sia mai vista in F1 . No, non stiamo parlando del nuovo romanzo di John le Carré, ma del protagonista di questa nuova storia.

inquietanti vero?

Forse vi ricordate di un film uscito nel 1994, quando i supereroi erano solo Superman e Batman e la brigata degli Avenger cazzeggiava ancora sulla carta stampata. Questo film, intitolato “The Shadow”, parla di un ricco playboy che grazie al potere di “offuscare la mente altrui”, indossati un mantello e un cappello nero, vaga di notte per la città sconfiggendo il crimine.

Pochi sanno che questo personaggio ha radici ben più antiche, era infatti il protagonista di un radio-racconto poliziesco molto in voga negli USA degli anni 30, e che ha colpito in maniera talmente forte l’immaginazione di un bambino che questi che ne ha fatto il suo stile di vita diventando egli stesso “The Shadow”.

Il suo nome era Donald Nichols, per gli amici “Don”, e si può chiaramente affermare che la sua vita non è stata certo priva di emozioni.

il mitico Don con il cappello d’ordinanza

Nacque a Eldon, Missouri, il 23 novembre 1924. Era ancora un neonato quando già mostrò che aveva la pellaccia dura. Un giorno, mentre era in viaggio con sua madre, la loro auto fu presa in pieno un tornado e venne scaraventata in un bosco e praticamente fatta a pezzi. Purtroppo la madre ci rimise le penne ma lui miracolosamente rimase illeso.

Il padre, ingegnere aeronautico, a causa del suo lavoro non poteva occuparsi di lui e lo parcheggiò nella fattoria dei nonni. Don crebbe praticamente da orfano, si appassionò ai cavalli, alle auto e alla meccanica. Fu anche un discreto atleta, ma il suo era uno spirito inquieto. Si arruolò nell’esercito prima di terminare le superiori perché temeva che la guerra sarebbe finita e non voleva perdersela.

Addestrato come paracadutista, si qualificò per un’unità d’élite della famosa 101a divisione aviotrasportata. Fu uno dei primi a saltare in Normandia prima dell’alba del D-Day, 15 miglia dietro linee tedesche. Avete presente la serie Band of Brothers (se non lo avete mai visto fate 50 piegamenti per punizione e correte a rimediare)? Ecco!

Il suo compito era installare punti radio per favorire l’avanzata delle truppe alleate, ma poco dopo l’atterraggio venne ferito dall’artiglieria nemica. Ebbe appena il tempo di riprendersi e farsi prestare qualche cura medica che fu colpito nuovamente.

Per sua fortuna fu recuperato e curato. Una volta in piedi, invece di prendersi la sua bella Purple Heart e tornarsene a casa come qualunque mente sana avrebbe fatto, volle rimanere in Europa. Evidentemente odiava soffiare le candeline sulla torta e per non farsi mancare nulla partecipò sia all’operazione Market Garden che all’offensiva sulle Ardenne. Proprio nei pressi di SPA venne colpito da una raffica di mitragliatrice. Se la cavò perché i proiettili furono fermati dall’imbottitura e dai rifornimenti che teneva sotto la giacca.

Tornato a casa dopo la guerra si annoiava, quindi si arruolò per la guerra di Corea dove si guadagnò i gradi di capitano. Lì grazie alle sue doti di affabulatore, attirò l’attenzione dell’intelligence e successivamente della CIA, che lo volle come agente nell’emisfero orientale. Fece armi e bagagli e partì per il Giappone dove fece fallire parecchi affari “dei rossi” e il suo grado di loscaggine aumentò a dismisura.

Souvenir, novità, scherzetti… dura la vita della spia

Terminata, almeno ufficialmente, la sua carriera da agente segreto, Nichols rimase per un po’ nel paese del sol levante, per copertura mantenersi si mise ad importare le Excalibur, le oscene repliche della Mercedes SSK inizialmente costruite dalla Studebaker, dato che aveva la faccia come il culo si divertì a mostrarle sfacciatamente accanto ai modelli della stella atre punte al salone dell’auto di Osaka.

– bella, bella merd..

Alto, magro e barbuto, Nichols sorprese i diffidenti giapponesi con il suo modo di fare. Si guadagnò la fama di essere quello giusto per portare a termine le cose impossibili. Le case giapponesi spesso ostracizzate o comunque senza contatti validi, si affidavano a lui quando erano in difficoltà. Tra le tante cose aiutò la Toyota a far arrivare le sospensioni Koni dall’Olanda per un’auto da corsa. Fu rivenditore di parti custom Mooneyes e poi divenne importatore di pneumatici, prima con Goodyear e poi con Firestone.

Era arrivato a contare così tanto che quando i giapponesi si misero in testa di importare le gare Nascar dagli Stati Uniti chiamarono lui per progettare e costruire un circuito adatto. Le parole Fuji International Speedway vi dicono nulla? Quante ore di Playstation avete passato su quel circuito? Beh dovete rendere grazie a Don Nichols se esiste.

ah quanti ricordi

La storia del Fuji Speedway inizia nei primi anni ’60, quando Nichols unì le forze dello Sports Car Club of Japan e della ricca azienda industriale Marubeni-Ida per costruire un circuito ovale ai piedi del Fuji. Gli investitori volevano il meglio e chi meglio dell’americano barbuto poteva farlo?

Il sito del futuro circuito si trovava lungo la costa, a circa 60 miglia a sud-ovest da Tokyo, praticamente alle pendici orientali dell’iconico Monte Fuji. Per il progetto Nichols fece arrivare dagli stati uniti Charlie Moneypenny (poteva avere un altro nome l’aiutante di una spia?): questo era un ingegnere civile che aveva progettato il Daytona Speedway per Bill France della NASCAR, così come il Talladega Superspeedway e altri grandi ovali sopraelevati nel paese delle stock car.

C’era un problema però, nessuno era mai stato sul sito di costruzione. Moneypenny era convinto di dover fare un semplice ovale su un terreno in piano e per avvantaggiarsi aveva già con se più di qualche progetto pronto. Arrivati sul posto però trovarono un terreno in forte pendenza, oltretutto in una zona soggetta a frequenti precipitazioni. E si sa che, come i Gremlins, le Nascar non vanno d’accordo con l’acqua. Bisognava quindi rivedere tutto il progetto.

A quel punto Charlie chiese a Don: “Puoi farti aiutare da un consulente?” Per tutta risposta egli disse: “Sì, conosco un “ragazzo” perfetto, stai tranquillo!”. Il ragazzo in questione era niente meno che Stirling Moss che per i giapponesi era pari a Dio.

 

“…e tu vorresti costruire un circuito li?”

Moss arrivò in Giappone e fu accolto come un eroe, di giorno seguiva il cantiere insieme a Don e la notte se la spassava sulle curve delle signorine allegre di Tokyo, d’altronde si era appena ritirato dalle corse e doveva pur sfogarsi.

Grazie alla consulenza di Moss il circuito prese vita. Disegnato da Nichols era lungo 5999 metri, veniva percorso in senso orario ed aveva il rettilineo di partenza lungo circa 1,5 km, seguito dalla velocissima curva sopraelevata Daiichi, in cui le vetture più potenti entravano a oltre 300 km/h dopo aver scollinato, una rischiosa combinazione di fattori che portava inevitabilmente a gravi incidenti, spesso fatali.

il tracciato nella sua forma originale

Fu proprio a causa di questi incidenti che la Daiichi nel 1974 venne esclusa dal tracciato, accorciandolo a poco più di 4350 metri. Il rettilineo fu collegato con un tornantino alla parte che portava alla curva 100R lasciandoci il circuito che abbiamo imparato a conoscere a menadito sui vari Gran Turismo.

Verso la fine degli anni ’60 Nichols, diventato molto ricco grazie ai suoi affari, lasciò il Giappone per trasferirsi con la famiglia in California. Sempre in cerca di nuove cose da fare un giorno incontrò un giovane ingegnere dalle idee poco convenzionali, tale Trevor Lee Harris.

Harris che cerca di capire dove sia quella strana vibrazione, tutto regolare

A quei tempi in America esistevano tre tipi di corse automobilistiche (i destruction derby e qualsiasi cosa fangosa dei Redneck non contano): la Nascar, la Indy e la giovane CAN-AM.

Proprio quest’ultima categoria aveva avuto un successo strepitoso ed era tecnologicamente più avanzata della F1. Si basava sul regolamento del Gruppo 7 della FIA, era il FIGHT CLUB dell’automobilismo, le sue regole erano: nessuna regola (e questo ce piace).

Si poteva sperimentare di tutto, fu li che apparvero i turbocompressori, l’effetto suolo, le ali, materiali come il titanio. Corsero auto “aspirapolvere” come le mitiche Chaparral o con 4 motori a due tempi (uno per ogni ruota) come la Mac’s It Special. Mostri da 1500 cv come le Porsche e le iconiche McLaren. Insomma era il paese dei balocchi dell’ingegneria automobilistica.

 

Tra una chiacchiera e l’altra Harris convinse Nichols che montare un grosso V8 Chevrolet Big Block nel telaio più piccolo e più basso possibile era la scelta migliore. Riducendo la superficie frontale del 35%, secondo lui, l’auto sarebbe stata velocissima nei rettilinei e vincente (peccato che ogni tanto bisogna pur girare). Fu così che si misero in affari e fondarono l’AVS, Advance Vehicle System. Il pensare fuori dagli schemi era una caratteristica molto apprezzata da Don, per lui o si vinceva alla grande o si perdeva alla grande, non c’erano mezze misure.

Normalmente nelle gare si cerca sempre di tener nascoste le proprie armi il più possibile, per non essere copiati e poter quindi sfruttare un eventuale vantaggio sugli avversari. Ma quando nel 1969 Nichols mise in cantiere l’auto per la stagione 1970 indovinate cosa fece? Non solo non la nascose a nessuno, ma ai primi giri di prova invitò addirittura la stampa! Fondamentalmente era un gran paraculo. Sapeva che quando non sei nessuno, specialmente nel mondo delle corse, c’è bisogno che la gente parli di te il più possibile. E ci riuscì alla grande!

 

Bassa, anzi bassissima (la carrozzeria nel punto più alto raggiunge a stento i 60 cm), la AVS MKI era un cuneo nero come la pece. Sembrava il frutto di una notte incestuosa tra un SR-71 e un fermaporta al centro del quale sbucava quello che sembrava un minaccioso cannone distruggi-avversari e che invece era un innovativo sistema di aspirazione.

 

 

Poggiava su 4 minuscole ruote da 8×10″ all’avantreno e 16×12″ al retrotreno che Nichols grazie ai sui agganci si era fatto costruire appositamente dalla Firestone e garantite per una velocità di 250 mph.

 

bha… se non so matti non li vogliamo

 

I freni erano outboard sulle ruote anteriori e inboard al posteriore per accentrare meglio le masse. Le sospensioni anteriori per via della mancanza di spazio erano particolarissime: avevano tre mini ammortizzatori, due tra i braccetti ed uno a frizione posto sotto la sospensione.

direttamente dall’ UCAS (Ufficio Complicazioni Affari Semplici)

Il motore, che insieme al cambio era la parte più convenzionale dell’auto, era un V8 Chevy Big Block da 7 litri e 600 cv con monoblocco in ghisa (non c’erano i soldi per uno in alluminio) e carter secco. Affogato nel telaio a malapena si vedeva. Il pilota era praticamente sdraiato e comandava l’auto con un piccolissimo volante, inclinato orizzontalmente più di quello di un Kässbohrer Setra. A causa dello scarsissimo spazio disponeva di due soli pedali pure loro praticamente orizzontali: freno e acceleratore.

il “comodissimo” posto guida

Il cambio Hewland a 4 marce veniva comandato da una frizione a leva, ma data la scomodità della cosa spesso e volentieri si cambiava “a sentimento” ovvero senza frizione. Un’altra caratteristica insolita erano i doppi radiatori acqua/olio posti dietro le ruote posteriori per rendere tutto più basso possibile.

l’assurdo volante orizzontale

Tutta l’aereodinamica era studiata in maniera innovativa, non c’erano ali (tutta l’auto si comportava come tale) e i flussi d’aria laterali venivano indirizzati in due pontoni posteriori che avevano al loro interno un’aletta mobile.

Le alette facevano parte di un sistema di aereofreni composto da due piccoli verticali nella parte anteriore e uno grande orizzontale nel posteriore. Si attivavano alla pressione del pedale del freno ma furono messe fuori legge da un cambio di regolamento prima che l’auto potesse scendere in pista.

resta di stucco è un barbatrucco!

Quando l’auto apparve sulla copertina della rivista Road&Track fece scalpore. Il prototipo era qualcosa di spaziale. A molti cadde letteralmente la mascella stile cartone animato. In effetti quell’auto sembrava uscita dalla Wacky Races o candidata per essere la nuova Batmobile.

L’auto si discostava tantissimo dalle altre CAN-AM, non solo nelle dimensioni, ma anche nelle forme. Nichols la definì un auto bidimensionale come un ombra. Fu anche per questo che la nuova scuderia si sarebbe chiamata Shadow e avrebbe avuto come simbolo quello di una spia con mantello e cappello.

I test al banco rivelano che “il cannone” dell’aspirazione è poco efficiente e per questo si passerà presto a dei più classici tromboncini. A sviluppare il prototipo, che nel frattempo non è più nero ma arancio, ci pensa George Follmer che trova un’auto tutto sommato a posto ma davvero troppo rigida, tanto che durante i test il pilota deve spesso fermarsi per far riposare la schiena. Per farsi perdonare Nichols inserirà nel contratto del pilota una fornitura a vita di Voltaren.

ma sto coso proprio in mezzo ai cogl..?

Tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970 furono effettuati i primi test in pista a Riverside e Laguna Seca con Parnelli Jones e George Follmer. Tra le modifiche più evidenti ci fu una nuova copertura dell’abitacolo, il volante orizzontale fu rialzato e assunse una posizione più canonica. A Laguna Seca fu montato un alettone posteriore per generare più carico. I flussi d’aria laterali risentivano della ridotta altezza e non facevano lavorare i pontoni e quindi non c’era deportanza.

L’auto in più soffre di surriscaldamenti cronici. Sia ai freni anteriori che al motore. Frenare con dischi grossi come piattini da caffè che oltretutto hanno pochissima aria disponibile non è il massimo, specialmente quando devi tenere a bada quasi 700 cv. Per questo sui cerchi anteriori vengono installati dei convogliatori per aiutare il raffreddamento dei freni. La soluzione risolve poco o niente, ma vince il premio accrocco dell’anno in quanto questi deflettori altro non erano che le ventole di raffreddamento della Chevrolet Corvair adattati alla bisogna.

Per le caldane del motore si provò prima a spostare i radiatori sull’ala posteriore e poi di inserirli all’interno di questa. Anche gli scarichi passarono dal basso all’alto e fu di nuovo rivista l’aspirazione.

è ora di rivedere il concetto di scarico grosso

Ora l’auto era totalmente diversa dal prototipo iniziale, sembrava un kart carrozzato, con un gigantesco motore attaccato alle spalle del pilota.

gemelle diverse

Purtroppo i fondi scarseggiano e la Shadow MK1 può partecipare solo a tre gare. Nelle prime due pur comportandosi bene in prova deve ritirarsi in gara a causa dei soliti problemi di raffreddamento.

La delusione per i due ritiri, fa capire al team che bisogna cambiare più di qualcosa. Harris rimette mano al progetto e modifica totalmente tutta la fluidodinamica, riportando i radiatori nelle fiancate con prese d’aria nella parte superiore e su tre livelli, dato che lo spazio rimane esiguo i radiatori di conseguenza devono essere sdoppiati.

L’auto si riappropria anche dell’originale colorazione nera e ora sembra una vera CAN-AM o per lo meno la sua caricatura specialmente quando si trova vicino a mostri come Mclaren e Lola

Portata in gara a Mid Ohio da Vic Elford si qualifica con il settimo tempo e in gara fa registrare buoni tempi prima di doversi ritirare per un problema ad una ruota. Le indicazioni sono buone e c’è speranza per le prossime gare. Però a causa di un incidente durante il trasferimento per la gara successiva, l’auto rimane distrutta e la stagione 1970 della Shadow finisce li.

Per la stagione 1971 qualche anima pia con un pò di sale in zucca suggerì a Nichols di lasciar perdere le stravaganti idee di Harris e di trovarsi un pollo da spennare uno sponsor finanziatore. Nichols, che scemo non era, licenziò Harris (che fece comunque una carriera degna di nota) lasciandolo alle sue stramberie.

uno dei folli progetti di Harris

Don assoldò quindi Peter Bryant che proveniva dall’Autocoast dove, dopo essere stato appiedato dalla HAAS, aveva creato un suo team e la rivoluzionaria Ti-22 (una monoscocca con telaio totalmente in titanio). Oltre a parecchie buone idee Bryant portò in dote alla Shadow un nuovo pilota: Jackie Oliver.

Come sponsor Don prese contatti con la UOP, un grosso produttore di benzine senza piombo bisognoso di dimostrare che la “verde” andava benissimo anche nelle competizioni. Il sodalizio con la Shadow fu così forte che durò per anni. Il benzinaio era contento e Don poteva spendere e spandere come voleva. Se ci fate caso poi la scritta UOP messa sottosopra sembra dON… un caso? Io non credo.

La Shadow MKII per la stagione 1971 è ben diversa da quella dell’anno prima, ora è più convenzionale anche se non abbandona del tutto la filosofia delle ridotte dimensioni. Le ruote passano da 10″ e 12″ a 12″ e 13″, rispettivamente all’anteriore e al posteriore e ora gli pneumatici vengono forniti da Good-Year. I freni sono tutti in-board per accentrare le masse.

Il telaio è una monoscocca molto bassa. Si prolunga in avanti per incorporare gli attacchi delle sospensioni ed al posteriore il motore è adesso ancorato alla parte rialzata della monoscocca alle spalle del pilota. Le sospensioni sono dei più convenzionali triangoli sovrapposti con classico ammortizzatore. I serbatoi sono contenuti nei cassoni laterali alla ricerca di un centraggio delle masse e di un miglior baricentro.

Per la motorizzazione Nichols ha fatto spesa da Gary Knudson, ora motorista McLaren, acquistando i motori da lui ideati ai tempi in cui lavorava in Chaparral. Si tratta di V8 interamente in alluminio da 8,1 litri. Dato che Nichols voleva tutto made in USA li accoppiò ad un cambio Weismann a quattro rapporti.

chi non impazzisce per quei tromboncini?

L’auto sulla carta promette bene ma a causa di una scarsa messa a punto salta il primo appuntamento e sempre per la solita mancanza di affidabilità i risultati non sono mai quelli sperati. Le qualifiche di Jackye Oliver, molto spesso nelle prime tre file, mostrano comunque la bontà di fondo del progetto, quanto basta per spingere Nichols a far sviluppare l’auto per la stagione successiva.

Fino ad allora la CAN-AM era stato in pratica un monomarca McLaren, le altre scuderie erano più che altro comprimari. Nella stagione 1972 come un fulmine a ciel sereno arrivò la Porsche che scombussolò tutti gli equilibri con la sua turbopanzer V12 917/10 che alzando notevolmente l’asticella delle prestazioni cominciò a dar fastidio alle regine della serie.

l’arma perfetta per la Blitzkrieg

In casa Shadow la nuova MKIII è più che altro lo sviluppo di quella dell’anno precedente. Le linee sono meno spigolose e cresce ancora nelle dimensioni arrivando quasi al pari a quelle delle rivali. Grossa novità sono le ruote che ora adottano diametri di 15″ e 16″ adeguandosi alla concorrenza.

Ma i problemi di affidabilità rimanevano. Uno su tutti riguardava il cambio Weismann, alla fine Nichols rinunciò alla sua filosofia del proud made in USA e optò pragmaticamente per cambio Hewland britannico. Nell’ultima gara scende in pista anche una versione bi-turbo da 1000 cv a 6000 giri/min che si prenderà un bel 4 posto con Jackie Oliver.

notare i turbo a sbalzo

A fine stagione si contarono un paio di podi e qualche piazzamento, ma Nichols stava già guardando avanti e voleva fare il grande salto in F1. Per questo al posto di Bryant assunse l’ex BRM Tony Southgate (si lo stesso della Ferrari 333sp) per fargli disegnare sia le nuove CAN-AM che le F1 (di cui parleremo più avanti).

La stagione del 1973 si apre con una notizia shock, la McLaren non parteciperà e fornirà solo le sue auto agli altri team. La Shadows sarà quindi l’unica scuderia ufficiale a combattere contro i tedeschi che tanto per far capire che non c’è trippa per gatti schierano la 917/30 che in qualifica sradica l’asfalto con ben 1500 cv.

L’arrivo di Southgate nel team di Nichols porta una grande rivoluzione. La Dn2 è un taglio netto con il passato, di base è sempre una monoscocca a vasca larga che ingloba il supporto per motore e sospensioni, ma sfoggia un aerodinamica e soluzioni tutte nuove.

Se Bryant credeva ciecamente nel “piccolo è bello”, ora Southgate va in tutt’altra direzione tanto che la Dn2 sarà la vettura più ingombrante del lotto. I radiatori sono sdoppiati e posizionati con ampi sfoghi subito dietro le ruote anteriori. Sempre a livello aerodinamico le linee sinuose non riguardano solo il profilo, troviamo infatti un pronunciato muso a pala e fiancate bassissime che raccordano i generosi passaruota. La carrozzeria è così aderente al telaio che si è reso necessario far passare all’esterno alcune canalizzazioni.

ATTENZIONE! : le immagini che seguono sono sconsigliate ai deboli di cuore e a chi soffre di eiaculazione precoce

A livello meccanico le sospensioni riprendono quelle della Dn1 che milita in F1, con triangoli sovrapposti all’anteriore e bracci paralleli al posteriore per permettere il posizionamento dei dischi freno entrobordo posizionati all’uscita del cambio.

Tutti si aspettano la versione turbo, ma non essendo ancora disponibile, all’inizio in pista scenderà solo l’aspirata. Con i suoi 750 cv poco può fare contro le Porsche anche se un certo grado di affidabilità le consente più di qualche buon piazzamento.

A portare finalmente in pista la versione turbo è l’esordiente James Hunt. L’auto monta un V8 Chevy da 8.1 litri sovralimentato da due turbine che al banco fa registrare la bellezza di 1200 cv a 6000 giri/min. Sarebbe perfetto se non si rompesse solo a guardarlo, oltretutto in pista l’auto le prende pure dalla sorella aspirata. Il telaio si mostra inadeguato allo scorbutico motore e lo stesso Hunt, felice di non dover più guidare un’auto che tenta di ucciderti ad ogni curva, lascia volentieri il posto a Vic Elford .

La 917/30 con Mark Donohue fa man bassa e porta facilmente a Stoccarda la stagione 1973. Don Nichols è tutt’altro che abbattuto, pur se le sue auto arrivano doppiate (spesso anche 2 volte), sa che qualcosa sta per cambiare e crede ancora di poter dire la sua nel campionato.

sua maestà la 917/30

Nel 1974 per adeguarsi alla crisi globale del petrolio anche in CAN-AM vengono introdotti limiti di consumo che mettono fuorigioco i mostruosi motori turbo. Tanti costruttori emigrano nella neonata Formula 5000 e la Porsche volge la sua attenzione al campionato silhouettes, abbandonando quindi gli sviluppi per la 917/30, che senza l’assistenza ufficiale diventa un gigante con i piedi d’argilla.

Se gli altri piangono, costretti a correre con auto vecchie di un paio di anni, l’unico ad essere felice è il patron della Shadow. Virtualmente senza concorrenza, già si sfrega le mani e mette in campo la sua nuova DN4.

Studiando pregi e difetti della DN2, Southgate cala in pista un auto eccellente che passa di poco i 700kg, di cui 55 sono per il telaio e 200 per il V8 con tutta la componentistica. Un ottimo risultato.

Più che dalla DN2 molto è stato imparato dalla DN3 di F1, passo e carreggiata anteriore sono molto simili. Il motore dato l’addio al turbo, è un big-block V8 Chevrolet da 8,1 litri full-alu preparato da Reynolds e rivisto poi in casa Shadow. Piazzato nel telaio con funzione semi-portante è accoppiato ad un cambio Hewland LG600 con differenziale autobloccante. La sua potenza è inizialmente 720 cv ma presto verrà portata a 750 cv… appena 350 in meno del V12 Porsche. A fermare il tutto ci pensa un impianto frenante Lockheed, come per la Dn3.

La carrozzeria nelle linee richiama molto la DN2, ma è stata oggetto di molte attenzioni. Ora ha un disegno più morbido, grazie al posizionamento dei radiatori lateralmente e dietro il roll-bar si è potuto disegnare un muso molto basso. Il “cucchiaio” molto pronunciato garantisce un livello di carico aerodinamico perfetto per compensare quello generato dalla grossa ala posteriore, che sfruttando al limite il regolamento ora è larga ben 2 metri.

L’auto ha raggiunto anche un affidabilità degna di tale nome, è prestante e in pratica non ha rivali. L’unica minaccia alla conquista del titolo viene incredibilmente dall’interno del Team. I due piloti Jackye Oliver (in Shadow dalla prima ora) e George Follmer (di provenienza Porsche) se le daranno infatti per tutta la stagione, tipo Hamilton e Rosberg (o capitan findus Bottas se volete) rischiando di compromettere il risultato finale.

Follmer si riteneva il più veloce ma il team pare favorisse Oliver. Alla fine delle 5 sole gare previste per questo campionato, Oliver si laurea campione e porta alla Shadow il titolo tanto atteso (vabbè hanno in pratica corso da sole, ti piace vincere facile eh? Ta-tarà -tararà!).

Vista anche la situazione interna del Team, con i due piloti che vengono alle mani ogni volta che si incontrano, Don Nichols organizza lo Shadow Challenge che si disputa a Watkins Glen in concomitanza con il Gran Premio di Formula 1. Si tratta di una gara uno-contro-uno tra i piloti Shadow con un grosso premio finale.

chi arriva ultimo ce l’ha piccolo!

A giocarsi i 10.000 $ in palio ci sono le tre Shadow Dn4 che hanno dominato la stagione. La sfida sarà tra Jackie Oliver, Campione in carica, George Follmer ed un incredulo Jean Pierre Jarier su quello che per tutta la stagione è stato il muletto del Team.

In realtà il proprietario del Team voleva un duello tra le Dn4 e le Dn3 di F1, ma dato che non si trovava un pilota libero ci si dovette accontentare. Oliver cicca la partenza e alla fine la spunterà Follmer che finalmente contento di aver dimostrato chi è il più veloce della squadra si intasca i 10.000 bigliettoni.

A Laguna Seca Nichols ha la possibilità di poter riproporre il challenge che aveva avuto un certo successo di pubblico. Stavolta riesce a mettere in pista il duello tra le CAN-AM e le F1. Sulle vetture gruppo 7 ci saranno i soliti Oliver e Follmer, sulle F1 Jarier e l’emergente Hunt che era già stato in Shadow con la DN2. La gara è molto combattuta e tra sorpassi testacoda e sportellate varie alla fine la spunta Jarier, davanti a Hunt con Follmer e Oliver ad inseguire.

Il pubblico è felice, Nichols s’imbosca contento un bel pò di quattrini e con il titolo in tasca saluta la CAN-AM, dove ormai non è rimasto più nessuno, per dedicarsi esclusivamente alla F1.

La storia della Shadow in F1 per quanto lunga, vi corse dal 1973 al 1980, non è stata brillante come nel campionato CAN-AM. Erano anni in cui ti bastava avere un buon progettista che tirasse fuori un telaio valido, poi compravi un Ford DFV, ti assicuravi una discreta fornitura di gomme, ingaggiavi un pilota esordiente magari bravo e grazie a qualche munifico sponsor potevi entrare nel circus. Ma la Formula Uno si sa, non è un gioco per bambini. È un campionato in cui non puoi improvvisare e la concorrenza è spietata. I mostri sacri come Ferrari, Lotus, McLaren e Brabham agli altri lasciano solo le briciole.

Le nere Shadow di Nichols, quasi tutte frutto di Southgate non hanno l’originalità delle Can Am e pur mostrando prestazioni interessanti navigando a metà classifica, collezionano più ritiri che punti. A parte una rocambolesca vittoria con Alan Jones in Austria nel 1977, vengono per lo più ricordate tristemente per uno dei più cruenti incidenti della storia della F1, quello di Kyalami sempre nel 1977 in cui perse la vita Tom Pryce (e un commissario).

Un’altra cosa però che molti ricordano della Shadow in F1 fu una spy story che quella che ci fu tra Ferrari e McLaren al confronto è roba da Forum.

Dal 1976 il team Shadow non ha più il supporto dello storico sponsor UOP e sopravvive anche grazie ai soldi portati dall’imprenditore partenopeo Franco Ambrosio, detto “‘O Re del Grano” inteso come cereale. Fondatore della Italgrani e capo di un impero mondiale nell’esportazione di cereali, oltre ai tanti quattrini aveva portato in dote anche il promettentissimo Riccardo Patrese.

Al termine del 1977 l’ambizioso uomo d’affari provò a fare “il pacco” a Nichols. Voleva una squadra tutta sua e finanziò la nascita di un nuovo team che avrebbe dovuto avere sede nel bel paese e chiamarsi Ambrosio Racing Team.

Facendogli annusare un bel pò di quattrini D’ambrosio si portò via dalla Shadow oltre a Riccardo Patrese anche Alan Rees, team principal, Jackie Oliver, ex pilota e ora manager del team, Dave Wass, ex tecnico e soprattutto Tony Southgate, ex progettista. Il neonato team restò in Inghilterra a Milton Keynes e prese il nome di Arrows Grand Prix International. Il nome Arrows è proprio dato dall’unione delle iniziali dei loro cognomi.

Era una squadra così fenomenale che impiegò il tempo record di 53 giorni per realizzare la prima monoposto della nuova scuderia: La Arrows FA1.

la Arrows Fa1

Nichols masticava amaro, alla fuga dei suoi uomini già aveva addrizzato le antenne e sguinzagliato i suoi cani. I suoi sospetti divennero certezze quando vide al debutto la FA1 e soprattutto quando nel Gran premio del Sudafrica, Patrese percorre in testa ben 36 giri prima di doversi ritirare per avarie al motore. Al secondo appuntamento a Long Beach poi, la Arrows conquista i primi punti mondiali, con Patrese sesto al traguardo.

Don era uno che pochi ricordano nei paddock, era praticamente invisibile, si vedeva poco (ma era sempre li) e parlava ancora meno. Ma grazie all’esperienza maturata nei servizi segreti aveva una vastissima rete di contatti e informatori. Aveva capito che c’era del marcio sotto e raccolte le sue informazioni mise in atto la sua rappresaglia.

Denunciò la Arrows per violazione della proprietà intellettuale. Secondo lui la FA1 era un plagio della Shadow DN9.

la Shadow DN9

Le indagini svelarono che Nichols non si sbagliava affatto (cioè volevano fregare uno della CIA hahahah): in pratica Southgate e Rees prima di licenziarsi dalla Shadow, con la scusa di portarsi via le proprie cose, erano passati negli uffici californiani prendendosi pure i disegni della vettura che avevano progettato poco tempo prima.

Ad incastrarli ancor di più ci fu il fatto che da alcune perquisizioni si scoprì che alcuni pezzi montati sulla Arrows erano addirittura marchiati Shadow!

L’alta corte riconobbe l’Arrows colpevole, infliggendogli una multa da 500.000 dollari e condannandola a distruggere le due auto costruite, che però si salvarono perché vennero date a Nichols come parziale riconoscimento per i danni subiti.

Questo è quanto, la seduta è tolta

Per la serie piove sempre sul bagnato, Franco Ambrosio finì in manette (e dopo un po’ fece pure una brutta fine), coinvolto in problemi con la giustizia per via di poco chiare manovre finanziarie e coinvolgimenti nell’inchiesta di Tangentopoli. La Arrows si ritrovò così pure senza sponsor e senza soldi.

Il colpo mise in ginocchio la scuderia, ma Southgate e soci riuscirono in un solo mese a disegnare una nuova monoposto, stavolta tutta loro, la A1, che conquistò pure un quarto posto nel Gran Premio del Canada. Però date le vicende giudiziarie dalla FIA non vennero assegnati alla scuderia i bonus spettanti.

E la Shadow? Purtroppo per la scuderia di Don era cominciato il declino e l’attività chiuse i battenti nel 1980 cedendo tutto alla Theodore Racing. Tra i tanti piloti che hanno corso con la Shadow ricordiamo Regazzoni, Patrese ed Elio de Angelis.

Nichols si ritirò dal motorsport, sparendo dalla circolazione. Aveva sempre tenuto tutte le sue auto, che conservava in un grosso magazzino. Diceva che era il suo fondo pensione, ogni tanto se aveva bisogno di soldi ne vendeva qualcuna. È scomparso nel 2017 a 92 anni e sua figlia oggi si occupa di mantenerne vivo il ricordo.

Se dal suo modo di apparire poteva sembrare un tipo burbero, Nichols era invece una persona molto generosa e sempre pronta a scherzare. Vi raccontiamo un aneddoto divertente: conscio che le sue auto avrebbero attirato le lamentele degli altri team per via delle soluzioni estreme adottate, fece stampare il modulo qui sotto che distribuì alle altre scuderie per facilitargli il lavoro:

Le Shadow CAN-AM rimarranno sempre nel cuore degli appassionati e fanno sempre spettacolo quando vengono mostrate nei vari eventi.

Articolo del 13 Settembre 2022 / a cura di Roberto Orsini

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  • Elio

    Grazie per la magnifica storia della Shadow,la conoscevo solo per il periodo in F1,non conoscevo tutto il resto.Bravo e grazie per il tuo impegno a divulgare.

    • Roberto Orsini

      La cosa più bella del sapere le cose è proprio questa: farne dono agli altri 🙂

      • Giovanni Negri

        Vivendo in California da febbraio 1964, ho seguito lo sviluppo corse CAN-Am e religiosamente seguito le esibizioni sia a Riverside, Santa Barbara, Laguna secca.
        Fui presente in ottobre 8-13 -1974 a laguna seca
        Per la penultima corsa della formula 5000
        Con la Lola 330 che affittata da jerry Entin e Sid Taylor con pilota Garcia Vegas , auto vincente posseduta da
        Jody Sheckter. Ho una vivida memoria del duello Jean Pier & Folmer.
        Ringrazio per l’assoluto interessante e dettagliato articolo, del momento storico.

  • Matteo

    Ottimo articolo!
    Qualcuno sa spiegare come mai i tromboncini di altezze e inclinazioni differenti? Grazie

    • Roberto Orsini

      Le lunghezze differenti servono ad ottimizzare la risposta del motore come farebbe un sistema di fasatura variabile. Le varie inclinazioni credo sia più per un problema di ingombro della parte svasata..

  • Filippo

    Fantastico racconto.
    La storia è già incredibile, ma raccontata in modo così brillante diventa una favola del motorsport.
    Le foto illustrano al pieno l’atmosfera USA anni ’70.
    Grazie e complimenti.

  • Daniele

    Complimenti per il bellissimo articolo, ben scritto e divertente

  • Michele

    Da grande estimatore del lavoro di Don Nichols e dell’epoca d’oro della Can-Am non posso che farvi i complimenti per questo interessantissimo articolo! Finalmente un lavoro chiaro ed esaustivo. Grazie di cuore.

  • Francesco Sergi

    Un racconto appassionante. Immagini da “distacco mandibolare”. La Shadow UOP nera era da urlo. Bellissima.

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