L’uomo si fa sempre dei problemi su quale sia la lunghezza giusta e, in linea di massima, tende sempre a esagerare. Applicate questo concetto alla ferrovia e otterrete i treni americani. Un consiglio che si è già rivelato utile anni fa per un amico: se doveste essere in mezzo a un viaggio negli USA, avete fretta e vedete un passaggio a livello, beh spero che il vostro programma di viaggio abbia del margine. Parliamo di treni lunghi migliaia di metri composti da centinaia di vagoni e un numero spesso imbarazzante di locomotive.
– Il Tehachapi Loop, un tratto di ferrovia elicoidale lungo 1200 metri circa. Non contate i vagoni, non ci riuscirete –
Uno dei concetti di base di tutte le compagnie americane, che se non lo sapete sono tutte private e in alcuni casi solo sovvenzionate dal governo, è il risparmio. Dove si può fare un ponte o una galleria, è meglio fare un zig zag o un anello tanto la manodopera (cinese già all’epoca) o il ferro costano meno della dinamite.. che poi la dinamite serve ai pistoleri per far saltare la Banca di El Paso!
Quando nei primi anni del ‘900 i treni iniziarono ad essere lunghi e pesanti tipo le visite alle zie quando eravamo bambini (sia chiaro, io ho sempre risposto che volevo guidare i treni ed eccomi qua), l’unica soluzione era aggiungere locomotive al treno. Certo, più locomotive significava più equipaggi e più manutenzione e quindi più soldi da sborsare. Significava anche più difficolta nella condotta, maggior rischio di danni ai vagoni e in generale ritardi, intralcio al traffico etc etc. Non mentite, tanto lo so che avete provato ad agganciare tutti i vostri vagoni al trenino Lima per vedere cosa succedeva.
– Una scena classica dei tempi del vapore in tutto il mondo: una locomotiva “in spinta” a un pesante treno merci –
La difficoltà nel condurre un treno con più locomotive e più equipaggi sta nel “sincronizzarsi” nel controllo della marcia. Il metodo classico adottato più o meno da tutti nel mondo è quello del codice di “comandi” rappresentati da una combinazione precisa di suoni col fischio. Se però ci si trova in una linea di montagna magari con in mezzo una bella galleria la cosa si fa difficile. Si, non che di norma sia facile vista la sonorità tipica della cabina di una locomotiva a vapore.
Le locomotive crebbero in dimensione e potenza, meglio dire in “sforzo di trazione”. Già perché per una locomotiva la potenza assoluta dice poco, il concetto fondamentale è la forza che è in grado di trasferire al gancio. E’ un po’ il discorso della Punto GT col motore della Delta, sia chiaro i 600 HP li rispettiamo tutti ma sgommare in 5a a 200 km/h e restare murati lì serve a poco.
– Union Pacific 9000, 12 ruoti motrici e motore a 3 cilindri –
Partiamo dalle basi: in ferrovia l’attrito ruota – rotaia è poco favorevole ed in media rappresenta ¼ della massa che grava sulle ruote. Il concetto lo avete tutti ben chiaro da quando vi siete impantanati in camporella la prima volta con la Panda della mamma.
Basterebbe aggiungere massa aderente (nessuno vi crede quando dite che sulla Panda eravate in quattro, voi e tre amiche), ma c’è un limite di peso assiale anche per i treni. Così bisogna aggiungere più ruote, ma una locomotiva a vapore, per via del biellismo di trasmissione, deve avere le ruote motrici non sterzanti (e chi lo spiega alla Citroen). Quindi maggiore il numero di ruote motrici, maggiore il “passo rigido”: in pratica maggiore la distanza tra le due ruote estreme fisse al telaio, minore il raggio di curva in cui una locomotiva riesce a muoversi. Ovviamente ci sono degli accorgimenti che si possono prendere, ma la meccanica non va d’accordo con i miracoli o almeno diciamo che preferisce andare d’accordo con la fisica.
Lo sanno bene i russi che cercarono di far circolare una locomotiva a 7 assi accoppiati… e più o meno non si mosse dal deposito in cui fu costruita perché deragliava ovunque.
– Locomotiva prototipo russa AA20 –
Dovendo risolvere il problema a ogni costo, qualcuno pensò di dare credito a un progetto della seconda metà dell’800 di un certo Ingegner Mallet, uno svizzero. Non parlo né di ruote coi buchi, né di orologerie a cucù anche se in effetti si parla di meccanica abbastanza fine.
– La prima locomotiva Mallet –
Mallet concepisce la locomotiva articolata, che poi prenderà il suo nome: si può pronunciarlo alla francese “Malè”(mannaggialloro), si può pronunciarlo alla tedesca “Mallet” (telefunken), si può pronunciarlo all’americana “Malley”(???????????) ma in sostanza si parla di una locomotiva dove ci sono due motori a vapore: uno montato sul telaio fisso su cui sono posati cabina e caldaia; uno montato su un semi-telaio anteriore libero di ruotare rispetto al resto della locomotiva. Il motore posteriore è ad alta pressione, prende la fonte direttamente dalla caldaia, il motore anteriore funziona con il vapore di scarico di quello posteriore in una configurazione “compound” o “doppia espansione” e così si aumenta anche il rendimento termico generale. Certo, si devono prevedere condotti flessibili che reggano temperature di svariate centinaia di gradi, grandi pressioni (che su grandi sezioni non sono mai amichevoli) e tutta una gamma di sollecitazioni meccaniche.
Comunque la Mallet è una gran soluzione, tutte le compagnie che hanno reti ferroviarie complesse e pendenti ne realizzano di varie forme e pesi. Quella riconosciuta a livello mondiale come la più grande e più forte in termini di sforzo (quello buono di Yogurt, non quello cattivo di Lord Casco Nero) è la classe 3000 della compagnia Atchinson Topeka & Santa Fe, per gli amici “Santa Fe”. Quella dei pistoleri, bravi.
– Suà ferrosità la AT&SF 3000 –
Stiamo parlando di un aggeggio con ben 10 coppie di ruote motrici, la più grande locomotiva del mondo tra il 1911 e 1914. A piena potenza era in grado di erogare qualcosa come 496 kN di forza, 50 tonnellate se preferite. Per darvi un’idea: 50 tonnellate di forza o 50.000 kgf, tenendo conto di una resistenza all’avanzamento di un vagone ferroviario contenuta entro i 10 kgf/tonnellata di massa, si traduce nella capacità di muovere 5.000 tonnellate. Volendo usare un termine di confronto un po’ più familiare, tipo alla Jeremy Clarkson, equivale alla forza di avanzamento esercitata da 25.000 Reliant Robin (ammesso esistano tutte insieme e soprattutto non si cappottino da ferme).
Purtroppo il difetto di una locomotiva del genere era la velocità massima, che per via delle ruote di piccole dimensioni e soprattutto della caldaia che non generava sufficiente vapore, si fermava a meno di 20 km/h. Stiamo pure sempre parlando di 2.700 kW di potenza. In effetti c’è anche qualche altro fastidio di natura logistica: non è possibile ricoverarla in nessun deposito, né tantomeno girarla su una piattaforma girevole (li basta un triangolo, ma questa ve la spiego un’altra volta).
Non ci siamo, alle ferrovie americane serviva qualcos’altro, più veloce soprattutto. Ma siccome domanda e richiesta si sa ogni tanto non vanno molto d’accordo (un po’ come il mercato che chiede il “racing sound” e i costruttori mettono gli altoparlanti nella marmitta), nel 1916 la Baldwin Locomotives pensa di creare uno dei Frankenstein su ruote più famosi della storia.
– La Triplex della Erie Railroad, se fosse nata oggi con un nome così la pubblicizzerebbe Mastrota –
Si diceva che servono più ruote motrici: detto fatto, nasce la Triplex. Ricorda molto il disegno del trenino che facevate all’asilo, con ruote motrici un po’ dappertutto. L’idea era buona, del resto il tender (il vagone di servizio con le scorte di combustibile per la locomotiva) era una massa da poter convertire in aderenza. La complessità però era esagerata, un po’ come quei fanali che per cambiare una lampadina H4 devi portare l’auto in officina a Cape Canaveral. La forza al gancio arrivò a 710 kN, esagerata anche per i termini odierni. Ma la velocità continuava ad essere scarsa e i suoi 8 km/h di velocità di lavoro facevano ridere perfino la vecchia “The Rocket” di Stevenson del 1820.
Per fortuna arrivano gli anni ’20 e si vedono i frutti della ricerca tecnologica che porteranno la LIMA (curioso che uno dei maggiori costruttori americani di locomotive si chiami come la nostra famosa e ormai cessata fabbrica di modellini) a concepire il concetto di “Superpower” ovvero le vere locomotive a vapore moderne: forni enormi, caldaie con pressioni di esercizio di oltre 20 bar, perfino i carrelli portanti che aiutano a scaricare il peso complessivo della locomotiva vengono dotati di motori a vapore detti “booster” che possono essere inseriti a bassa velocità per aumentare lo sforzo di trazione. Si possono creare caldaie in grado di sostenere qualsiasi consumo di vapore, quindi magicamente tutti i problemi visti negli anni ’10 con i primi mastodonti a più ruote magicamente spariscono come le emissioni delle centraline VAG… e non serve più pensare all’efficienza termica (cosa comune per gli americani), lentamente si perde anche il concetto dei pistoni a pressioni diverse.
Si apre un periodo in cui finalmente ogni compagnia può chiedere dei colossi secondo il proprio gusto.
Le compagnie dell’est che necessitano di muovere treni di massa immensa con vari tipi di minerali (il “diamante nero” in primis, che poi è l’antracite ‘gnuranti) vogliono locomotive possenti con velocità contenute. Sarebbero molte le varianti, ma di sicuro le prime da ricordare per importanza sono le locomotive della classe “A” (queste se prendevano l’Alce facevano “Gulash Gulash” come Tirzan) costruite “in casa” dalla Norfolk & Western nelle officine di Roanoke Virginia.
– N&W Classe A #1226 –
Parliamo di, 12 ruote motrici e 4 portanti, 560 kN di forza allo spunto e 5.000 HP a 70 km/h. Non male, ma la Cheasepeake & Ohio, oggi nota come CSX, pensò di poter fare di meglio e si fece realizzare da LIMA le “Allegheny” che prendevano il nome dai monti della Pennsylvania.
– Una Allegheny in versione “Virginian” all’opera con una tirata di carbone –
E credetemi, i monti li poteva spostare veramente: potenza massima registrata con carrozza dinamometrica pari a 7.500 HP, che le posiziona al gradino più alto di potenza tra tutte le locomotive a vapore al mondo; potenza continuativa di oltre 6.500 HP, ma uno sforzo ancora abbastanza contenuto con solo 490 kN.
A ovest invece c’era bisogno di spostare treni in fretta per attraversare il selvaggio west e varcare la famosa ferrovia transcontinentale. La Union Pacific, altro colosso ferroviario americano, stava ancora litigando con la classe 9000 a 12 ruote motrici su telaio rigido quando la ALCO American Locomotives Company (cazzuto, semplice ma cazzuto [cit.]) le propone un nuovo design articolato.
– La Challenger classe 3800 della Union Pacific –
Con la Challenger si inizia a ragionare: è una locomotiva da 110 km/h che nel contempo ha un discreto sforzo al gancio e il tutto si ottiene senza demolire i binari e raddrizzare le curve.
La vicina di casa Southern Pacific (la controparte nella costruzione della transcontinentale), che aveva il problema del valico della Sierra Nevada in California, contattò la Baldwin per chiederle di risolvere tutti insieme una valanga di noie in primis cercar di far convivere fumi di scarico, gallerie e personale che sfortunatamente doveva respirare ossigeno. Copiando una interessante idea ITALIANA (diciamocelo [cit.]), Baldwin concepì le “Cab Forward” che per voi non anglofoni (anglofagi?) significa “Cabina in avanti”.
– Una “Cab Forward” della serie AC-11, quasi la versione definitiva del progetto –
In pratica la locomotiva venne costruita per marciare “al rovescio” cioè col forno in avanti e il camino indietro. Era alimentata a olio combustibile, quindi il tender poteva restare tra la locomotiva e il treno. Le ruote motrici diventarono 16, 8 + 8 e dalla fine degli anni ’20 in poi ne vennero realizzate dodici serie di successo (cosa che in futuro ispirò Beautiful).
Le 16 ruote motrici erano una memoria delle prime Mallet degli anni ’10, che i tempi moderni fecero esprimere al massimo. In questa forma torniamo di nuovo a est con la Norfolk & Western: la sua classe “Y”, che venne via via migliorata e potenziata dalla serie Y2 fino alla Y6 (si lo so, aspettavate la Y10 Turbo con “eluiononeluieluiononeluicerrrtocheelui Signor Ezio”), vincerebbe la gara di tiro alla fune di Bomber tirandosi dietro l’olandesone, Rosco Dunn e tutta la nave bisca (e mezzo porto di Livorno, boia deh).
– Una Y6 della N&W, doppia libidine coi fiocchi –
Qui si toccò la mostruosità per eccellenza: basti pensare che la cilindrata complessiva dei due motori a vapore raggiungeva 884 litri che più o meno è il volume dell’abitacolo della FIAT 600. In più, con un abile trucco, i cilindri a bassa pressione potevano essere alimentati direttamente con il vapore della caldaia (ma il telaio frontale venne riempito di piombo tipo sparatoria gangster con la Tommy Gun) permettendo uno sforzo allo spunto oltre 700 kN.
Negli anni ’40 però, tutto questo ferro non era abbastanza. L’entrata in guerra degli stati uniti chiese uno sforzo industriale senza pari, le ferrovie vennero perfino precettate dall’esercito per muovere truppe e equipaggiamenti.
La Union Pacific, che si trovava a gestire uno degli assi principali per muovere immensi volumi dal Pacifico all’Atlantico e viceversa, si rese conto che le sue Challenger non erano abbastanza. Spesso perfino loro necessitavano di una locomotiva di rinforzo pena la divisione dei treni. Ci voleva qualcosa in più, quattro ruote motrici in più: la ALCO propose quindi di prendere la Challenger e di ingrandirla portando le ruote motrici a 16 e adeguando le altre specifiche della locomotiva per far sì che le prestazioni richieste fossero garantite. Il progetto non aveva un nome, non c’era tempo per deciderlo. In fretta e furia si preparò un prototipo che fu pronto nel 1941 e su quel prototipo un operaio scrisse col gesso un nome destinato a rimanere nella storia. Un nome che per i trenofili risuona come il nome delle attrici di Baywatch (solo che i trenofili mettono gli occhiali per altre ragioni). Due parole: Big Boy.
– La celebre foto della prima Big Boy con la scritta in gesso sul portello della camera a fumo –
La Big Boy diventerà un mito, anche perché la Union Pacific ne fece il proprio simbolo di supporto dello sforzo bellico. Le sue prestazioni erano comunque importanti e con circa 6.000 HP era in grado di raggiungere i 130 km/h. I suoi 600 kN di sforzo le permettevano di spuntare un treno di 1 miglio (1609 metri di vagoni) e la potenza complessiva era abbastanza per portarselo dietro fino a 65 km/h.
Per le sue dimensioni, non poteva essere usata se non tra i depositi di Cheyenne Wyoming e Ogden Utah. Una curiosità, Cheyenne aveva già un deposito la cui piattaforma girevole era stata dimensionata per tenere sopra una Challenger e avere un certo margine: la Big Boy era talmente lunga che vi stava sopra per un soffio restando a malapena contenuta con tutte le ruote ma lasciando a sbalzo il muso della locomotiva e la trave posteriore del tender.
– La Big Boy #4012 con un interminabile treno merci –
Il progresso che portò alla nascita di queste grandiose macchine le aspettava però al varco. Tutte, senza distinzione di tipologia, videro la loro fine entro la seconda metà degli anni ’50. A conti fatti, alcune di loro restarono in servizio meno di 20 anni e, tra tutte, le meno longeve furono proprio le Big Boy. Nel dopoguerra, il petrolio diventò un combustibile molto economico che rese le locomotive diesel molto più appetibili. Inoltre, avere una flotta di locomotive molto grosse e potenti ma costruite per lavori specifici risultava poco flessibile: il lavoro di una Mallet – ovvero tirare un treno pesantissimo a bassa velocità – poteva essere svolto con cinque locomotive diesel in trazione multipla. Tre di quelle locomotive avrebbero potuto tirare un treno merci più leggero e veloce, permettendo di impiegare le altre due in altri servizi. Triste è che molte locomotive non furono nemmeno preservate, perché la breve carriera evidentemente non aveva permesso di ripagarle e il rottame ferroviario con metallo di qualità è sempre stato valutato molto bene in tutto il mondo.
Tra le varie tipologie, le Big Boy sono quelle salvate in maggior numero e forse anche per quello il loro mito è stato più longevo ed è diventato internazionale. Per anni uno dei sogni perversi di svariati appassionati di ferrovie era quello di rivedere una Big Boy in azione, ma ovunque si poteva leggere “è praticamente impossibile” (un po’ come quando tutti aspettavamo una Punto Abarth 2000 4×4 derivata dalla S2000… fa ancora male…)
– Dettaglio della copertina di un DVD del 2001 … “It’s not likely” –
E invece la Union Pacific decide di far rizzare il sconvolgere il popolo ferroviario dichiarando che entro il 2019 una Big Boy celebrerà il 150° anniversario della ferrovia Transcontinentale, ma questa è un’altra storia.
Per noi italiani, il legame con le grosse articolate americane è da attribuirsi alla famosa casa di modellismo Rivarossi che nel tempo realizzò i modelli della Big Boy, della Challenger, della Allegheny e della Cab Forward e anche di altre famose locomotive e dei loro treni. Certo, per non far sfigurare le riproduzioni nazionali, si dovette ricorrere ad un trucco: mentre i modelli per il mercato italiano per scelta vennero realizzati in scala 1:80, i modelli per il mercato americano (che già negli anni ’60 aveva il culto della scala perfetta), venivano realizzati nella scala H0 o 1:87 (che poi per gli americani è 1:87.3). Chi tira fuori il righello?
Una piccola soddisfazione personale: averla vista! La Big Boy intendo. E in verità anche la Cab Forward. Non c’è foto che renda bene le dimensioni di questi giganti, ma qualche buono spunto c’è.
– Io vicino a sua ruotosità la Big Boy #4017 al museo di GreenBay Winsonsin –
– La mia manina pelosa da primate a confronto con il perno di manovella della biella motrice –
– Il forno con la bocca del caricatore meccanico (Stoker) in basso e i sifoni di surriscaldamento del vapore in alto –
– Altrettanto bellissima la Cab Forward #4294 presso il Museo ferroviario di Sacramento California –
Bellissimo articolo,godurioso,interessante è piacevole da leggere.non riesco a togliere il blocco notifiche se riuscite voi vi autorizzo.
Bellissimo racconto. Non c’entra molto, ma oggi mi sono rivisto “Runaway Train” (A 30 secondi dalla fine)
Pure io mentre scrivevo l’articolo, mi ero perso che fosse una sceneggiatura di Akira Kurosawa e in linea di massima non è nemmeno troppo stereotipato dal punto di vista ferroviario
Dalla prima foto non capisco se euro 5. o euro 6 🙂
super!