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La forza del peso: il miracolo della Mini al Monte Carlo ’64.

“Simplify, then add lightness.”
– Colin Chapman –

Se non hai gambe in salita non vinci. Già, ma un conto sono le gambe che devono spingere i quasi 80 kg di Jan Ullrich sulla salita dell’Alpe d’Huez, un conto sono quelle che portarono in cima, elegante quanto un ballerino della Scala, i 57 kg del “Pirata”.

Al di là del fatto che una tappa alpina del Tour la vinci, oltre che con le gambe, soprattutto col cuore, i chili contano. E meno se ne contano e meglio è. In qualsiasi cosa. In qualsiasi cosa tranne che nei carri armati… lì più ce l’hai sei grosso e più sei forte. Ma qui non si parla né di Tour de France, né di carri armati (purtroppo).

Qui si parla del fatto che un ragazzino di prima media, sottopeso, con occhiali e lentiggini, stufo dei soliti bulletti delle superiori (di quelli con la giacca felpata della squadra di football del liceo) ha mandato al tappeto con un gancio alla mascella un quintale di muscoli palestrati e pompati in America.

Partiamo dalle basi: sua Maestà Ford, volenterosa di prendersi il rally di Monte Carlo prima di tutto il resto (come vedremo tra poco) diede al preparatore britannico Alan Mann Racing otto nuovissime Ford Falcon Sprint, con dentro alla pancia dei V8 americani da 4,7 litri (anzi, da 289 pollici cubici) capaci di sputare per terra oltre 250 cavalli vapore.

Chiariamo una cosa purtroppo importantissima sin da subito: cronometro alla mano, Montecarlo ’64 lo vinse la Falcon, guidata e navigata dagli svedesi Ljungfeldt Bo – Sager Fergus ma per la regola dell’handicap concesso alle vetture più piccole  la vittoria andò a Paddy Hopkirk sulla mitica 33 EJB, la Mini più famosa della storia. Come detto prima le vittorie si conquistano anche con il cuore, quindi la vittoria della Mini del 1964 è vera. Pura. Eterna.

Comunque, torniamo alla storia: negli anni ’60 il programma della Ford era quello di dimostrare al mondo intero la propria potenza. L’obiettivo era vincere TUTTO.

Due anni dopo Montecarlo ’64 il mondo vivrà l’epopea della prima vittoria a Le Mans degli americani, aprendo il poker ininterrotto di vittorie magiche della GT40 (la macchina più bella della storia dell’uomo, frutto di infiniti investimenti, incendi e bestemmie, n.d.r.) dal 1966 al 1969, per poi riconfermarsi nel ’75 e nell’80, per un totale di 6 vittorie (comunque briciole rispetto alle 19 dei tedeschi di Stoccarda). L’anno 1965 sarà quello del primo centro alla Indy 500, condiviso con gli inglesi della Lotus, ai quali Ford forniva e montava sulla L34 di Jim Clark il suo simbolico V8 da 4.2 litri, spinto fino ad arrivare a contare 425 equini vapore. L’anno dopo toccò a ad un’altra coppia made in U.K., Graham Hill e la scuderia Lola. L’anno dopo ancora Ford si imporrà (motoristicamente parlando) per la terza volta consecutiva sulla Coyote dell’americano Foyt.

E la Nascar? Parlando di americani non si può tralasciare il simbolo del Motorsport USA di Daytona Beach! Ford dominerà tutti gli anni sessanta (tranne nel ’61 e nel ’62) la Cup Series vincendo con una moltitudine di diversi piloti  ma sempre con il suo migliore amico “signor V8”.

– Ford Galaxie Nascar del 1963, pazzesca –

Oltre a tutto questo, il 1967 sarà testimone d’un altro splendido matrimonio, aprendo il periodo d’oro del più longevo motore da competizione della storia. Il titolo di campione del mondo di Formula 1 di quell’anno andava a Denny Hulme su Brabham-Repco ma la vera novità di quell’anno fu l’arrivo del prodotto meccanico perfetto, il Rolex dei motori da corsa, ovvero il Ford-Cosworth DFV (Double Four Valve) che diverrà oltre che il più longevo anche il motore più vincente nella storia della F1, masticandosi 155 vittorie e 10 titoli.

Tra l’altro la storia del leggendario V8 Ford-Cosworth DFV è bellissima: all’epoca Ford non aveva un 3000 cc da portare in Formula Uno (come doveva essere da regolamento) ma aveva dei soldi da spendere. Tanti. Quindi la soluzione più semplice, dove quella di tutti gli altri era ingrandire e potenziare i propri motori, fu quella di spendere cento mila sterline (che dovrebbero corrispondere a circa un milione e seicentomila euro del 2020) per appiccicare insieme a 90° due motori FVA con 4 cilindri in linea da 1600 cc della Formula 2 ed ottenere così, guarda un pò, un’altro V8 da 3200 centimetri cubici. A questo punto il lavoro, molto più semplice, fu quello di rimpicciolire il nuovo DFV per portarlo a 3 litri. I cavalli? 400 nel ’67 per poi essere sviluppato ed arrivare ai 550 del 1983! Il DFV aprirà poi la strada alla storia Cosworth che ormai si insegna anche al catechismo.

Piccola nota. Quanto è bello appiccicare insieme più motori per fare il motorone anziché doverne progettare con mille smaronamenti uno più grosso da zero? Quanto? Tantissimo. È la cosa più bella.

Quindi: nella decade del lancio del Saturn V, gli States, oltre a conquistare la Luna, vedevano la loro figlia adorata di Detroit dominare l’intero mondo delle corse motoristiche su piste di qualsiasi natura e specie, tra prototipi, monoposto, dischi volanti, formule e chi più ne ha più ne metta. Il buon caro rally, tanto apprezzato nel vecchio continente, non poteva essere da meno.

Se in tutto questo perfino il Vecchio di Maranello dovette arrendersi alla strapotenza americana, come fare per battere l’immensa operazione da milioni di dollari di conquista del mondo della Ford? Ci voleva un motorone esagerato oppure la potenza di un razzo a propellente solido? No! Bastò portare la cilindrata della Cooper da 997 a 1.071 e i cavalli da 55 a 70 per mettere in ridicolo in mondovisione l’impero di Henry Ford II, il quale non aveva ancora ingurgitato l’amaro boccone che Enzo Ferrari gli infilò in bocca senza troppi complimenti l’anno prima quando mandò  affancul al diavolo tutta la formazione d’attacco della Ford volata fino in Italia per comprarsi la Ferrari.

– ande’ ben a caghèr tòt quant!” cit. – 

Arriviamo adesso alla Mini. La BMC (British Motor Corporation) si rese conto che quando nel 1956  inglesi , francesi e israeliani si presero a mazzate con gli egiziani per piantar le tende in quel del Canale di Suez aprendo le porte ad un possibile mega conflitto mondiale (forse l’unico per  in cui URSS e USA sarebbero stati dalla stessa parte), il prezzo della benzina andò alle stelle, favorendo così la vendita di piccole automobili, leggere e soprattutto dai bassi consumi. Le schifosissime utilitarie insomma.

Quindi Mr. Harriman, boss della BMC, alzò  il telefono e chiamò  un tale ingegnere inglese di origini greche, Alec Issigonis, dicendogli: “Bella ciccio… senti, questo è il problema: facci una macchina che sia figa da impazzire, che pesi poco, che costi ancora meno e che consumi ancora-ancora meno. Ah!…E vedi di ficcargli dentro il 4 cilindri che abbiamo avanzato dalla Austin A35 di due anni fa. Ma falla bene, perché ne dovremo produrre qualcosa come cinque milioni e mezzo di esemplari”.

E Issigonis: “Yes Zir! No problem.”

Nell’agosto del 1959 l’Inghilterra presentò al mondo intero la macchina più iconica, più rock, più punk e più royal della storia: la Mini-Minor Morris 850 (le Mini vennero vendute sia con il marchio Morris che con il marchio Austin).

Lunga 3 metri, larga neanche uno e mezzo, 6 quintali di peso e 34 cv alla ruota. Culo basso sulla strada e design alieno. In realtà la Mini dovevano comprarla solo le casalinghe per facilità di guida ed economicità, ma in un nano-secondo divenne oggetto di culto e appena qualche rock star del momento si fece paparazzare strafatta in mezzo a Londra con una Mini tutti ne vollero una. Tutti.

L’anno seguente un pistaiolo a caso di nome John Cooper comprese il potenziale della creatura partorita da Issigonis. Decise quindi di metterci il becco e di prepararne una versione da lanciare sul mercato nel 1961 in mille esemplari d’accordo con Mister Harriman.

La cilindrata venne portata a 997 cc esatti, allungando la corsa da 68,3 a 81,3 mm e riducendo l’alesaggio da 62,9 a 62,4 mm. Poi bastò pasticciare un po’ con il carburatore, montandone uno a doppio corpo e ingrandire le valvole di aspirazione per far inghiottire ai 4 cilindri una maggior quantità d’aria. Compressione aumentata da 8.3:1 a 9.0:1 ed ecco ben 55 cavalli. Aggiungere freni a disco anteriori e assetto tuned e il gioco è fatto.

Eccola. Eccola lì! La prima MINI COOPER!

E dai va bene, ok, ci siamo. È nata la prima utilitaria tamarra della storia per andare a fare le leve nei piazzali fuori dai pub di Birmingham.

– “Fate vedere agli sbirri come si fanno i freni a mano a Birmingham!” –

Comunque da lì a far vincere alla Mini un Rally di Montecarlo c’era ancora parecchio lavoro da fare.

Alla Mini Cooper andava ancora aggiunto sul bagagliaio una “S”. E quella “S” voleva dire tutto. Qualsiasi componente della Mini Cooper venne ottimizzato, venne fatto un lavoro degno di un orologiaio di Ginevra. Dal 4 cilindri in linea della BMC venne tirata fuori ogni lacrima, ogni forza, ogni goccia d’anima. Da 997 a 1.071 centimetri cubici, da 55 a 70 cavalli a 6.200 giri al minuto. 160 all’ora a tavoletta e 13 secondi per fare da zero a cento. Per l’epoca, un missile terra-terra.

Sia chiaro a tutti, ma proprio a tutti, anche agli avvocati col Carrera parcheggiato in doppia fila che si credono piloti da corsa sulla Torino-Milano, fare i centosessanta dentro alla Mini vuol dire essere un uomo dentro al midollo d’ogni osso.

Ora, se dovessimo ascoltare la versione di un qualunque americano saremmo costretti a sorbirci per ore la cantilena della storia dell’handicap eccetera eccetera eccetera. Balle.

Nella prima speciale di Montecarlo ’64 tra Saint-Didier e Mont-Main la Cooper S di Paddy Hopkirk buscò in 23 chilometri solo 16 secondi dalla Falcon di Bo, che ricordiamo per dovere di cronaca, aveva più o meno sotto al cofano 200 cavalli in più (una stalla intera).

Il fatto da sottolineare è che se la Mini fosse arrivata ultima e l’avessero fatta vincere per la regola dell’handicap allora gli americani avrebbero avuto anche ragione ma la 33EJB prese sì 16 secondi dalla Falcon nella prima speciale, ma finendo la tappa seconda e non a fondo classifica, umiliando macchine tipo la Mercedes 300 SE e questo gap minimo lo tenne per tutta la durata della corsa.

Sui tornanti angusti e infami delle strade alpine del sud della Francia, che fosse giorno o che fosse notte, la piccola Cooper si dimostrò non solo molto più efficiente dei potentissimi barconi americani ma anche più delle collaudate berline europee come la Saab 96 Sport con motore 2 tempi. La Mini sui suoi piccoli cerchi da 10” e trazione anteriore era incazzata nera e letteralmente volava dove le altre macchine dovevano controllare la loro potenza per non finire a rotoloni direttamente nel Mediterraneo partendo dal Col de Turini. Parlare della Cooper contro la Ford Falcon Sprint è un po’ come far menare sullo stesso ring il mastodontico Mike “Iron” Tyson e quel dannato grillo saltellante di Mayweather.

Quindi, gira che ti rigira, piglia qualche secondo in più nelle speciali da motore, guadagnane degli altri nelle speciali guidate ed ecco che la numero 37 di Paddy ti arriva in fondo al Rally di Monte Carlo del 1964 con 17 secondi di svantaggio dallo svedese prestato all’America Bo Ljungfeldt. Cronometro, carta e penna alla mano, calcola e ricalcola e con 2.152,1 punti di penalità John Cooper ha scolpito a caratteri cubitali nella nuda roccia della Provence-Alpes-Côte d’Azur la storia, vincendo il rally dei rally.

Il 1964, ci pensate? Nel millenovecentosessantaquattro uno prende una scatoletta di sardine e contro ogni pronostico, ragionamento matematico, ragionamento fisico, ragionamento automobilistico, religioso, filosofico, motoristico, vince il rally di Monte Carlo. Non il rally del vattelappésca, dico proprio il Monte Carlo! È come se il Crotone vincesse la Champions!

Un po’  come se oggi uno pigliasse una Smart, trafficasse un po’ ed andasse a fare il mazzo alle WRC da 380 cavalli. Stessa cosa. Possibile? NO.

Ma nel ’64, con le basette, i pantaloni a zampa, le mani sporche d’olio e ascoltando nel giradischi “Oh Pretty Woman” di Roy Orbison potevi fare quel cavolo che ti pareva. E se non vincere a Montecarlo, quasi.

A conti fatti, la Mini è un po’ come quella storia che ormai abbiamo già sentito tutti del calabrone che non ha la struttura alare adatta al volo, ma il calabrone che è scemo non lo sa e vola lo stesso. La Ford si presentava alla partenza del Rally di Monte Carlo del 1964 con le idee ben chiare su cosa fare, con una mega squadra di mega piloti, mega ingegneri, mega motori e mega valige piene di dollari.

La Ford si era mossa da casa per vincere, non per partecipare, sapendo benissimo come si fa per vincere…

in BMC invece… no.

Quelli si sono accontentati di creare un mezzo miracolo di automobile e affidare la preparazione della vettura da rally ad un ragazzotto qualunque, dimostrando che un pizzico d’ingegno, un po’ di furbizia e una buona botta de culo a volte sono mille volte meglio di una cascata di soldi.

Un po’ come rollingsteel, nato 5 anni fa per gioco e che fra qualche giorno se ne uscirà con DI BRUTTO Volume Zero, la versione cartacea di tutte le figate che quotidianamente trovate su questo sito. Iscriviti subito QUI, DI BRUTTO uscirà ufficialmente il 15/09 ma per gli iscritti alla mailing list potrebbe esserci una sorpresa…

 

Articolo di Federico Postuma. Se anche tu vuoi vedere il tuo articolo pubblicato su RS puoi scrivere a info@rollingsteel.it ma, ti prego, segui queste semplici regole.

Articolo del 7 Settembre 2021 / a cura di La redazione

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  • Paolo Ghezzi

    Il mondiale F1 del 1967 lo vinse hulme con la brabham repco.
    Comunque complimenti per il sito

    • Grazie mille Paolo per l’appunto, abbiamo corretto.

  • Davide

    Nelle foto in bianco e nero della 33EJB sembra di vedere uno di quei paradossi spazio/temporali che girano su internet. Cosa è quella ventosa sul parabrezza? Una go-pro? Ovviamente penso sia un cronometro o qualcosa di simile 🙂

  • dario

    davide a me sembra il navigatore Tom-Tom da 3,5 pollici che avevo fino a qualche anno fa!!!

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