Home / / Acciaio, velluto e moquette: cronaca di un viaggio di un’altra epoca

Acciaio, velluto e moquette: cronaca di un viaggio di un’altra epoca

Ci sono viaggi che si fanno per sbaglio, quasi senza volerlo. Tipo i quattro tizi delle cronache di Narnia che si ritrovano in un mondo magico entrando casualmente in un armadio. Ecco, una cosa del genere mi è capitata sabato scorsa. La nostra Narnia, però, è differente. Principalmente è fatta d’acciaio, ma ci sono anche legno pregiato, vinile e comoda fintapelle. Tanta ingegneria e molto buon gusto nel design e nelle livree.

Di ritorno da una festa di laurea a Vicenza, ho pensato bene di inserire una deviazione al mio solito, noioso, viaggio per Bologna via Padova. Ogni tot mesi la Fondazione FS apre al pubblico il DORS (Deposito Officina Rotabili Storici) di Milano, che ha sede nell’officina dell’ex Squadra Rialzo che, insieme a quello di Pistoia, è uno dei principali riferimenti per le attività di restauro filologico di locomotive, carrozze e treni completi storici.

Giusto per specificare che "Squadra Rialzo" non è un modo di dire.

C’è di più: con una certa frequenza, la stessa Fondazione (ma non sono gli unici) organizza un certo numero di viaggi su treni del genere, esperienze peraltro alla portata di tutte le tasche e occasioni imperdibili per vivere in prima persona certa ferraglia che avete visto tanti anni fa, se c’eravate, oppure solo nei film. Coincidenza, ce n’è uno Milano-Bologna apposta per me. Segno in agenda, compro il biglietto e mi organizzo.

Piombo a Milano Centrale la mattina e mi lascio alle spalle l’Italo EVO, in ritardo marcio ma non per colpa sua, consapevole che probabilmente sarà l’ultima traccia di modernità che vedrò nelle prossime 12 ore, a parte il mio cellulare. Non conosco la città e sono indeciso su come raggiungere il DORS. I volontari di StoricBus di La Spezia hanno portato qui alcuni dei loro autobus storici restaurati alla perfezione con cui fare servizio spola tra il deposito e le stazioni Centrale e Lambrate, ma è anche vero che non sono mai stato sui tram del capoluogo lombardo i quali, pure storici, sono tutt’ora in servizio regolare. Per par condicio decido di fare andata col tram e ritorno con l’autobus.

In anni e anni passati a studiare e informarmi riguardo ai treni, avevo completamente trascurato i suoi cugini urbani. Mi avevano detto che i tram di Milano erano vecchi, ma nella mia ignoranza mi aspettavo dei ferri degli anni Settanta…invece, mi viene incontro una vetturetta squadrata, con le porte di legno e un unico faro circolare. Salgo a bordo e capisco subito che mi trovo su un mezzo ben più datato. Tutto l’interno è letteralmente foderato in legno, comprese le panche longitudinali. Quel poco che c’è in cabina di guida (manetta e rubinetto del freno continuo) è tutto in metallo. Le validatrici contactless stridono alquanto con tutto l’ambiente, ma sono imprescindibili.

Nonostante l’età il veicolo sguscia per i vicoli senza fare una piega. Ogni asperità delle rotaie si percepisce a meraviglia, l’insonorizzazione è inesistente e il compressore dei freni da solo fa più casino di uno Stralis a freddo, ma ha anche dei difetti. Scopro che sto mettendo alla prova i miei timpani su una delle cosiddette ventotto, come le chiamano a Milano riferendosi all’anno di costruzione. Essendo dei tram sono prive di gran parte delle cose che si possono rompere in un autobus, sia esso termico o elettrico, e rappresentano un esempio di come la semplicità sia la via per l’eternità: particolarmente riuscite fin dall’origine e molto più semplici anche di un elettrotreno, circa 150 delle 600 vetture originariamente costruite circolano ancora senza lamentarsi, dopo aver visto una guerra mondiale, una dittatura, quattro repubbliche e qualche milione di chilometri.

Scendo (letteralmente: tra il pavimento e la strada ci sarà mezzo metro) e mi dirigo a piedi verso il DORS. Una concessionaria locale ha approfittato dell’aria che tira per mettere in mostra due occasioni in vendita, una 1100/103 E e una 1500. Le osservo ammirato e proseguo verso il deposito.

Tralasceremo i particolari della visita per esigenze di spazio. Un tour completo richiederebbe almeno due giorni di tempo: non tanto per la quantità considerevole di mezzi in mostra, quanto per il successo di questo genere di eventi, che generano file chilometriche per visitare gli interni e le cabine dei rotabili. Parimenti, scrivere di tutti i mezzi richiederebbe un Di Brutto intero. L’Open Day ha sempre un successo incredibile, che testimonia la passione e l’interesse che c’è intorno al mondo delle ferrovie e l’esigenza che il patrimonio storico ferroviario venga valorizzato, restaurato e curato. I visitatori vanno dal macchinista di professione (che è fuori servizio ma viene lo stesso in divisa), al settantenne che vuole rivedere i treni su cui viaggiava da ragazzo, alla famiglia che ha scelto un sabato mattina alternativo all’Ikea, con tanto di bambini al seguito. Non sono gli stessi che scorrazzano urlando per i ristoranti: in qualche maniera sanno di trovarsi in un luogo che merita un certo rispetto e si dimostrano educati. I meno esperti si scambiano domande, i ferrovieri di professione o gli appassionati sono ben felici di rispondere. Tanto per dare nei numeri,in due giorni si totalizzano quasi 30.000 persone…

Osservo, leccandomi i baffi, la sagoma dell’ETR 252, l’Arlecchino, l’unico dei quattro esemplari superstiti, completamente restaurato nel 2021 e fresco di un’ulteriore revisione. Il problema è che per entrarci c’è una fila più lunga del convoglio. Aspetto che si accorci un po’ e poi decido di fare anch’io un giro nel treno più bello del mondo.

Vi prego, cercate di clonare le anime di Minoletti e Giò Ponti e mandatele a tenere qualche corso in Stellantis.

Riesco finalmente a visitare quel tripudio unico di lusso e buon gusto estetico (e il Settebello era ancora più curato e rifinito). Dai salottini panoramici alle estremità, alle ampie vetture ad ambiente unico con le poltrone rivestite in velluto, fino al bar la cui mobilia è tirata a lucido al punto di accecare, si respira una qualità costruttiva a cui non siamo più abituati. Una morbida moquette riveste tutto il pavimento, una sorta di fintapelle o vinile azzurrina le pareti verticali, e non c’è un singolo centimetro quadrato di plastica o lamiera a vista. Le lunghe plafoniere dell’illuminazione fungono da bocchette dell’impianto di climatizzazione, già presente alla nascita del treno. Il colore acceso delle poltrone varia da una vettura all’altra, da cui il soprannome. Il resto dei rivestimenti adotta discrete tinte pastello; il restauro è stato condotto con cura maniacale, persino la macchina del caffè sembra l’originale dell’epoca, coordinata coi mobili del bar. Addirittura, la scritta “S.S.B./SCMT” (ovviamente non presente alla costruzione del treno, visto che il celebre sistema di controllo è arrivato nel 2000) è realizzata con lo stesso font e colore di tutte le altre scritte presenti sul treno.

Saluto l’Arlecchino e mi dirigo verso la ben più “proletaria” Ale883 dell’omonima associazione con sede a Tirano. No, non è la vipera, ma ne deriva strettamente, e non è l’unica elettromotrice sviluppata a partire dal celebre ETR 200. In sostanza è la sua versione per medie distanze, condividendone persino i motori; la velocità massima è di 110 chilometri orari. Nonostante la vocazione “regionale” gli interni sono di una comodità degna di nota, con imbottiture alte una spanna e una chicca non comune: i vetri apribili a manovella come sulla Uno di vostro zio.

Potremmo andare avanti così per ore. Accanto alla 740.278 e alla 625.116, entrambe a vapore, c’è una E626, la prima locomotiva elettrica a corrente continua a 3000 V italiana, colei che ha inaugurato lo standard utilizzato ancora oggi su gran parte delle nostre linee. È esposto il treno presidenziale, quello che hanno usato prima i re, poi i capi di stato e pure i ministri, prima che gli aerei privati andassero di moda, ma è murato di gente. E poi, anche la E646 grigio/verde magnolia agganciata davanti è una bella presenza.

Ma l'ignoranza che trasuda questo aggeggio è impareggiabile

Sono presenti i soci del “Gruppo 835 – Vapore Vivo” che hanno portato il modellismo a uno stadio estremo. Mentre i comuni mortali come il sottoscritto devono scomodare un paio di cerchie angeliche per pulire l’aerografo senza rimetterci l’ago, questi ragazzi realizzano in maniera del tutto artigianale, con nient’altro che disegni e foto dell’epoca, delle repliche funzionanti in una scala piuttosto grande di locomotive elettriche e a vapore, pesanti attorno al quintale e sufficientemente potenti da trainare piccoli vagoncini in grado di ospitare una persona seduta a cavalcioni. Il punto è che quelle a vapore sono a vapore per davvero, con tanto di riproduzione della pala per caricare il carbone nel focolare.

Quando la tecnica incontra la fantasia, l’uomo dà il meglio di sé. Ma intanto si è fatto tardi e a una certa la priorità diventa una: StoricBus. Devo vedere se c’è qualcuno che mi dà uno strappo in stazione su uno degli 8 autobus storici. Magari non proprio l’InBus, non perché mi stia sulle balle, ma perché ci sono andato a scuola da studente (sono passati solo 4 anni, ma il parco circolante della SVT era ancora leggermente vintage) ed è sempre bello provare qualcosa di nuovo.

Sono fortunato e mi capita il pezzo forte: un Fiat 306/3 extraurbano carrozzato Cameri del 1977. Si può dire che sia il primo vero autobus prodotto dalla Fiat, poiché tutti i modelli precedenti erano realizzati sui telai dei camion, con le complicazioni del caso (tipo il motore anteriore).

Del 682 mantiene comunque la, per così dire, power unit: cambio a quattro marce con riduttore, entrambi non sincronizzati, e motore 6 cilindri aspirato, qui ribaltato su un fianco (“a sogliola”) per consentirne la sistemazione sotto al pavimento. Dedichiamo questo breve video “seconda lunga-terza corta” realizzato a bordo a coloro che “oh mio dio, il cambio manuale è troppo scomodo”, nonché, ancora una volta e con affetto, agli automobilisti d’oltreoceano. Complimenti al tizio che sdoppietta tranquillamente in centro a Milano dove la gente fa già fatica a guidare una Smart.

Arrivo finalmente in stazione a gustarmi il piatto forte. Il Rapido Meneghino, così la Fondazione FS ha denominato il treno il cui biglietto avevo acquistato con un anticipo che manco il concerto degli Oasis, è lì che aspetta le 16.40 per partire. La E656.439 in testa ha preso il posto della E444R.046 dell’andata, con la R che sta per Riqualificazione (o Ribollita, secondo alcuni), ai tempi ammiraglia della flotta locomotive delle FS. È più lenta, certo, ma ha una potenza di tutto rispetto, una stazza di 120 tonnellate ed è l’ultimo baluardo della lunga dinastia delle locomotive reostatiche italiane. Ultracollaudate e affidabili, la Fondazione ne ha restaurate diverse e spesso le utilizza come macchine da lavoro per il traino di altro materiale da sistemare (famosissima quella foto a Bologna Centrale quando una di esse trasferì mezzo ETR 401 Pendolino, il primo esemplare della lunga dinastia).

Alla nostra amica .439 spetta invece il compito di riportarmi a Bologna al traino di tre vetture Gran Comfort e due tipo TEE. Ebbene, se avete viaggiato su un Intercity (anche moderno) le prime le conoscete, perché sono rimaste le stesse, aggiornate negli arredamenti e nelle livree. Nascono da subito omologate per i 200 km/h e dunque hanno sempre svolto il loro lavoro di vetture per treni rapidi senza far sentire il bisogno di qualcosa di più moderno. Le tre protagoniste del nostro viaggio, invece, vestono ancora la livrea e l’arredamento originale. Sono di prima classe, con poltrone reclinabili in tre file per lungo, tavolini estraibili, pavimento in moquette e le pareti rivestite in simil-legno. Anche qui si riprende l’andazzo che abbiamo visto a bordo dell’Arlecchino. Solo il tizio che ha disegnato il volantino del freno di stanzionamento incassato e integrato nella parete è da premio Compasso d’Oro.

Le ultime due vetture sono quelle che un tempo venivano utilizzate per i servizi Trans Europ Express, TEE appunto. Si tratta degli antenati dei moderni Eurocity in un’epoca in cui il treno sembrava spacciato di fronte alla concorrenza martellante dei jet. Non potevano competervi in termini di tempo, specie allora che il concetto di Alta Velocità era diverso dall’attuale; quindi lo facevano attraverso il comfort e la praticità. La praticità di caricare quanto bagaglio si voleva senza fare la fila per il check-in e di usufruire dei controlli doganali a bordo, evitando ulteriori rotture di coglioni attese alla dogana, per strada o in aeroporto che fosse. Ricordatevi che all’accordo di Schengen mancavano ancora una ventina d’anni. Quanto al comfort, non si sa cosa dire. Trovare un difetto a queste vetture è difficile. Anzitutto, non ero mai salito in vita mia in un treno con gli scompartimenti. La trovo una sistemazione piacevole, riservata. Ogni vano ha il suo finestrino con tendine elettriche (manco un’Audi A8!) e comandi dedicati per luce, climatizzazione e addirittura volume per l’altoparlante degli annunci. In tutto questo, sono sicuro d’aver sentito più di qualcuno lamentarsi che mancavano le prese di corrente, come se negli anni ’70 ce ne fosse stato bisogno. Già è tanto se avevano la lavatrice in casa.

Mi siedo al mio posto sulla vettura n. 5, sprofondo nella poltrona e aspetto che il treno parta. Non riesco però a fare a meno di notare che la temperatura è altina, per essere il pomeriggio del 5 ottobre. Ecco trovato un difetto: è l’inizio dell’era dei finestrini fissi. Poco dopo sbuca nel mio scompartimento il capotreno che ci dice: “queste due [vetture] hanno dato un po’ di problemi all’andata, c’era il riscaldamento impazzito, andate pure nelle prime, tanto c’è posto”. In effetti mi era sembrato di aver visto un dromedario svenuto dal caldo da qualche parte. Saluto le due TEE, mi piazzo in una delle Gran Comfort e osservo Milano che sparisce dal finestrino.

Viaggi del genere vanno davvero affrontati calandosi nella parte di un passeggero dell’epoca, senza le moderne pretese in fatto di velocità. La 656 raggiunge i 150 km/h, una velocità oggi da regionale, e un viaggio Milano-Bologna prende il suo tempo, circa tre ore abbondanti, quando, grazie al limite che in alcuni tratti della linea raggiunge i 230, anche solo un Intercity ci mette di meno. Ci si mette comodi, si aspetta, si chiacchiera. A contribuire al tempo di percorrenza ci sono le tracce orarie probabilmente calcolate a vantaggio di sicurezza, perché si arriva sempre alle stazioni intermedie con quei 5-10 minuti di anticipo; ne consegue che arriviamo alle 19.36 spaccate a Bologna, dove il nostro viaggio giunge al termine.

Scambio due parole con il personale di bordo, poi scendo e mi apposto per vedere se c’è modo di gettare un occhio nella cabina di guida del Caimano. Ma il vecchio locomotore non ha tempo da perdere, deve filare in deposito; il capotreno e il suo assistente sganciano la prima carrozza, poi il segnale passa a via libera, parte la ventola dei reostati a manetta e i 12 motori ruggiscono tutti insieme. Sono a collettori, fanno un rumore del tutto diverso rispetto agli asincroni trifase dei treni odierni. Erano i tempi in cui riuscivano a fare perfino dei motori elettrici con un bel sound.

La locomotiva scompare nell’oscurità; le dico addio, esco dall’armadio, torno nel 2024 e vado nel piazzale ad aspettare un autobus ibrido.

Articolo del 9 Ottobre 2024 / a cura di Francesco Menara

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

  • Paolo

    il Caimano…..che dire…il locomotore italiano più bello di sempre.
    però anche la Tartaruga è bella.

Altre cose da leggere