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Buell S1 “Double Face”, una cafè racer per celebrare la storia Harley

Dici Harley-Davidson e ti vengono in mente subito chopper in stile Easy Rider dalle lunghissime forcelle, o pesantissime bagger buone per macinare kilometri su kilometri sulle infinite strade americane.

Chi ha pensato ai mitici CHiPs Backer e Poncharello vada a malmenarsi con la chiave del 23 perché loro guidavano delle Kawasaki.

“Jon guarda! Eccone un altro che s’è sempre sbagliato!”

Raramente si pensa alle Harley in chiave sportiva e a ben vedere se ne intuisce il motivo:

“La struttura meccanica di una Harley-Davidson non è fatta per correre , lei non lo sa e corre lo stesso lei lo sa e infatti non corre un cazzo”

Certo dal 1957 esiste un modello chiamato Sportster che in teoria doveva essere il modello prestazionale della casa di Milwaukee. Sportivo lo è stato per molto tempo rispetto alla concorrenza, ma poi con l’avvento delle maxi giapponesi negli anni ’70 è diventato praticamente un fossile vivente.

la Sportster del 1986 diciamo che il concetto di sportività è ampiamente relativo

Ciclisticamente se confrontato alle moto nipponiche o italiane al posto del logo H-D dovrebbe avere sul serbatoio il marchio di qualche produttore di cancelli automatici. Tecnologicamente poi non c’è proprio confronto. Dove i giapponesi o gli italiani sono arrivati a fare raffinati pluricilindrici da oltre 200 cv e 14000 giri, il classicissimo V-twin raffreddato ad aria ha raggiunto in 70 anni la complessità ingegneristica di un protozoo.

Ma agli americani e a quasi tutti gli appartenenti alla cultura Harley piace così. Non gli importa di mettere le orecchie in terra ad ogni curva o potersi lanciare a velocità di curvatura su qualche pista. Vogliono il motorone grosso grosso, che vibra come un Caterpillar D8H, che borbotta mentre pulsa al minimo e ti sconquassa la cassa toracica (e i coglioni quando ti passano di notte sotto casa) urlando da quei tubi da stufa che in teoria si chiamerebbero silenziatori ogni volta che apri il gas. Avere un Harley è appartenere ad una famiglia, avere degli ideali, è uno stile di vita.

Un simpatico gruppo di tranquilli Harleysti che va ad un raduno

Anche se sono indissolubilmente legate al mondo delle moto Custom, dovete sapere che le Harley sportive sono esistite, poche ma ci sono state. Nuvolari agli esordi correva con una Harley e come non ricordare le mitiche regine del traverso: le XR-750 da flat track degli anni 70?

Vediamo se vi accorgete che cosa manca

Vogliamo parlare poi del tentativo di entrare nella Superbike?

Nel 1988 nel quartier generale della H-D si discuteva il progetto di una moto che potesse partecipare al campionato AMA Superbike, l’intenzione era dare una botta di rinnovamento sportivo ad un marchio imbalsamato nel settore custom-cruiser da troppo tempo. In più si voleva avvicinare la clientela europea e aprire a nuovi settori di mercato.

Ovviamente il mondo delle corse era cambiato da tempo, non si poteva competere con un bicilindrico ad aria vecchio come il cucco. C’era quindi la necessità di un progetto tutto nuovo. Dato che in H-D tutti erano a secco della materia la cosa più logica era affidarsi ad un partner esterno. Ma a Milwaukee la logica evidentemente non era di casa, e decisero di fare tutto da se.

Dato che certe cose non si imparano dalla mattina alla sera ci vollero ben 6 anni prima di vedere la più corsaiola H-D mai prodotta e nel 1994 fu presentata la VR 1000.

Si, ok ci avete provato…

Fu chiaro a tutti che in H-D non avevano mai fatto una moto del genere. Nel campionato correvano oggetti come la Ducati 916, la Honda RC45 e la Kawasaki ZX-7RR, moto con delle linee che ancora oggi fanno girare la testa, e loro tirano fuori una due ruote dalle linee tondeggianti che sembra più una tourer che una vera moto da corsa, mancano solo valigie e bauletto.

Per l’omologazione nel campionato AMA Superbike ne dovevano costruire almeno 50 esemplari e così fu.

Incredibile ma vero avrebbero corso tutte nello stesso campionato

Se da fuori si vedeva che era molto acerba, quello che c’era sotto non era nemmeno male. Il motore bicilindrico DOHC a V di 60°, che abbandonava il raffreddamento ad aria per un più efficace raffreddamento a liquido, era stato creato da zero. La potenza massima erogata era, nella versione stradale, di 116 cv e sulla bilancia l’ago segnava 175kg. Tanto per fare un riferimento la Ducati 916 sprigionava 112 cv e pesava 195 kg a secco.

Anche la ciclistica era abbastanza raffinata e contava un telaio a doppio trave bello robusto, un forcellone scatolato, sospensioni Öhlins di alto livello. La leggerissima fibra di carbonio era il materiale scelto per fare le carene.

il bicilindrico della VR 1000

Potenzialmente era ottima, ma non basta avere il meglio del meglio, bisogna anche saperlo combinare bene, altrimenti si fanno solo disastri. Anche qui infatti si fece notare l’assenza totale di esperienza nel settore. La gestione delle masse, la distribuzione dei pesi e le quote di progetto ne facevano un ottima stradale ma tra i cordoli mostrava tutti i suoi limiti.

Gli errori progettuali non sparirono neanche usando gli accorgimenti per farla correre in pista e oltre alla limitata capacità di elaborazione meccanica scontava anche un’elettronica anni luce indietro a quella delle moto europee e giapponesi. Come si dice: un cesso pure se lo dipingi d’oro, sempre un cesso rimane.

Per questo il progetto iniziale di partire dal campionato AMA e poi fare il grande salto nel mondiale si spense miseramente. Qualcuno in pista la portò pure, ma i risultati erano sempre da bassa classifica. Il tutto, costato una barca di soldi, si concluse con la vendita dei 50 esemplari prodotti e in casa H-D non si parlò più di campionati o moto da pista.

una parte delle stradali destinate alla vendita

Poi però le cose sono cambiate e oggi se vogliamo vedere una Harley che corre in circuito possiamo farci sanguinare gli occhi guardando il campionato americano baggers (roba che una corsa di levigatrici a nastro è molto più appassionante).

Ma non tutto andò perduto, il motore per esempio venne usato anni dopo, rivisto e sviluppato in collaborazione con Porsche, per la rivoluzionaria V-Rod.

Ma andiamo al dunque:

Dietro al progetto di questa unità c’è una persona che ha sempre cercato di rendere sportive le Harley-Davidson. Il soggetto in questione si chiama Erik di nome e Buell di cognome. Una volta laureatosi in ingegneria entra a lavorare come progettista presso la Harley-Davidson. È anche un assiduo frequentatore delle piste e una volta lasciato il lavoro fonda, nel 1983, la sua casa motociclistica con l’intento di costruire moto sportive spinte dal bicilindrico a V dei suoi ex datori di lavoro.

Erik Buell accanto ad una delle sue creazioni, la XB9-R

Nel 1985 vedrà la luce la RR 1000 Battlewin, una supercarenata (tipo una BMW K1 in salsa yankee per intenderci) da 180 kg spinta dal motore della Sportster 1000. A vederla oggi fa ampiamente cagare quasi tenerezza, ma è figlia dei suoi anni e all’epoca era davvero un pezzo pregiato.

Moto ad alto effetto Falqui

Nel 1993 la H-D vista l’opportunità di fare moto sportive senza rimetterci troppo la faccia, decise che la Buell doveva essere sua e si prese il 49% del pacchetto, e poco più in la pure il resto. Lasciando ad Erik un misero 2%.

Proprio nel 1993 al di qua dell’oceano successe un evento epocale: Ducati presenta la Monster. Emblema delle moto Naked, il ducatone diventa subito un best-seller del mercato, dando vita nuova ad un settore che va alla grande ancora oggi.

Forse sarà stato proprio il successo della bicilindrica italiana a spingere Erik (di nuovo con le tasche gonfie di dollari) a creare una naked tutta sua per combattere ad armi pari con Ducati e giapponesi varie. Nasce così la Buell S1 Lighting.

Quando la creò decise che la sua moto doveva essere più di una Monster e infatti si disse:

“ La Monster è maneggevole? La mia lo sarà di più!”

“La Monster ha stile? La mia ne avrà di più!”

“La Monster si rompe spesso? La mia lo farà ancora di più!”

notare l’airbox grosso come una borsa Krauser

Qualcuno forse ancora ricorda la copertina di Motociclismo del Dicembre 1996. Proprio li sopra veniva presentata al mercato italiano la nuova creatura made in USA. Un concentrato di arroganza e scomodità, di ignoranza e brutte intenzioni come pochi se ne erano mai visti. Solo ferro, ghisa e zero elettronica.

La moto è cortissima (il passo è 2 cm più corto di quello di un Monster), Il possente motore 1200 (e per fortuna lo chiamano small block) si prende tutta la scena, seduto sopra una trasmissione grossa come una utilitaria e appeso ad uno striminzito telaio tubolare sul quale campeggia il serbatoio e a cui fa compagnia un corto codone da streetfighter. Un segno distintivo delle Buell sono lo scarico e il mono ammortizzatore posti sotto il cambio per accentrare le masse. La S1 denuncia alla bilancia 180 kg, di cui 150 solo di motore e cambio.

Si vede il mono?

Il motore sembra quello dello Sportster ma è stato profondamente rivisto: nuovi pistoni e accensione, testate ed alberi a camme che permettono 80 cv alla ruota. Pochi? Forse si per chi è abituato alle stradali race-wannabe, ma più che sufficienti per divertirsi tra una curva e l’altra. Tra l’altro è un motore che con qualche accorgimento ha un tiro infinito che Lapo levate proprio!

“Forse ho aperto troppo!”

Se poi 80cv e uno stile così (che può accompagnare solo) non vi bastano, c’è sempre l’aftermarket, il mondo Harley vive soprattutto di questo. Esistono milioni di pezzi per potersi cucire addosso la propria moto, dipende solo da quanto è gonfio il vostro portafogli. Motori, trasmissioni, scarichi, pezzi speciali, accessori… tutto si può modificare per crearsi la special a propria immagine e somiglianza.

Se non siete pratici con il fai da te potete sempre rivolgervi ad uno specialista. Non c’è nemmeno bisogno di andare negli USA.

– potete farlo QUI

Il mondo dei customizzatori oramai conta molte affermate realtà anche qui in Italia, una di queste è la GDesign di Giacomo Galbiati e proprio una Buell S1 è alla base della loro ultima creazione.

Trovata la moto donatrice, alla GDesign si sono messi al lavoro per tirare fuori una Cafè Racer ispirata alle corse Endurance degli anni 70.

Innanzitutto si è partiti dallo schema dei colori. Rimasto folgorato dalla livrea originale della VR 1000, Galbiati ha deciso che la moto sarebbe stata per metà arancio e per metà nera, e da qui il suo nome “Double Face”. Tutto il resto, la linea, i colori e gli strepitosi scarichi affiancati uno sull’altro che corrono lungo il lato destro della moto ricordano la mitica Harley XRTT da corsa degli anni ’70, ad oggi una delle moto più belle e famose (e ricercate dai collezionisti) della casa di Milwaukee.

Essendo la S1 una naked pura, c’era bisogno di una semi-carenatura poco invasiva ma che le desse un certo carattere. Per questo scopo è stata recuperata e adattata la carena di una Benelli 500 demolita. Il serbatoio originale è stato coperto da una cover in vetroresina che riprende il disegno di quello di una Ducati Super Sport 750 degli anni 80, modificato però nella parte posteriore per dargli una curva più morbida.

– se riconoscete questo sfondo vuol dire che avete il magazine giusto in casa –

A posto del codone adesso troviamo una seduta monoposto, che ospita il sellino in pelle firmato L.R. Leather, è uno stampo in vetroresina derivato da moto endurance riadattato per questo progetto.

Il frontale con doppio faro vuole ricordare le gare endurance in notturna, e in effetti a guardarla dalla parte arancio viene subito in mente la Laverda 750 SFC Endurance.

Il telaio non è stato toccato, è stato giusto riposizionato il radiatore dell’olio sotto la carena, modifica che migliora il raffreddamento del motore.

Il motore ha subito un leggero tuning ricevendo una centralina Dynojet (nascosta dietro alla fiancatina in pelle) e un nuovo scarico Supertrapp di una XR 1200 bendato con fasciatura anticalore. Ovviamente eliminato anche l’antiestetico airbox originale e al suo posto ecco un filtro aria in spugna.

Tutto questo ha regalato qualche cavallo, ma soprattutto migliorato l’erogazione del bicilindrico, rendendo la “Double Face” un vero toro scalpitante da dover domare con i nuovi semi manubri Tommaselli. In aiuto alla troppa foga del pilota c’è un nuovo impianto frenante potenziato con doppio disco su misura e pinze freno Discacciati.

Tutte le luci della moto sono ora a LED ad eccezione dell’abbagliante giallo. Infine i cerchioni originali sono stati verniciati con un grigio effetto cromo, la strumentazione di serie è stata montata su un supporto realizzato ad hoc con finitura “bouchonné”, e sul manubrio troviamo (unica concessione moderna insieme ai fari a LED) un porta cellulare con presa USB.

Il risultato è di grande effetto e di certo è uno dei migliori omaggi creati per celebrare la storia di Harley Davidson ed Erik Buell, un visionario che sa pensare fuori dagli schemi e che riuscì a vedere nel bicilindrico Harley una vena sportiva.

Articolo del 9 Giugno 2022 / a cura di Roberto Orsini

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  • Flavio

    Vado a comprare la chiave del 23, perche anche io mi sono sempre sbagliato!!!e poi siete brutte persone: non potete minare le mie sicurezze alla soglia dei 40:D

  • Alessandro Lironi

    Comunque a me la cassapanca del filtro aria originale è sempre piaciuta. La S1 in versione white lighting è pura poesia. Ai tempi la volevo prendere poi il cuore è rimasto per l’aquila lariana ed ho comprato un Guzzi V11, naturalmente pompato di motore e cicli8

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