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Yamaha R7, un unicorno con le ruote

Yamaha R7

HAI PREORDINATO DI BRUTTO Volume Due? SONO RIMASTE ANCORA POCHE COPIE, DATTI UNA MOSSA!

È il 2001 e sei seduto davanti al pc a goderti la tua nuova scoperta. No, non la pelush, non in quel momento almeno. La tua nuova scoperta è in formato CD-ROM e sulla copertina è stampata a caratteri cubitali la scritta Superbike 2001. Dietro la detta scritta sta in piega una moto bianca e rossa con il numero 41 sul cupolino, il pilota ha in testa un bellissimo casco Arai con fiamme gialle e rosse e sembra guardare verso di te attraverso la visiera scura.

Dall’alto dei tuoi 12 anni d’età, tu di Superbike capisci da poco a niente e per cominciare il gioco ti sembra una buona idea scegliere come moto e pilota quelli in evidenza in copertina. Coi gomiti larghi sulla griglia della prima ‘gara veloce’ trovi nomi che per ora ti dicono poco ma che imparerai a conoscere, Carl Fogarty, Colin Edwards, Aaron Slight, Pierfrancesco Chili, Troy Corser e la smetto subito perché sennò potrei andare avanti fino alla fine dello schieramento.

Quello che capisci subito è però che il gioco è una gran figata. Quando ti lanci alla scoperta della modalità campionato scopri che i fine settimana di gara si articolano proprio come nella realtà, tra prove libere, qualifiche e la leggendaria Superpole (il giro secco per stabilire le prime 16 posizioni della griglia di partenza).

Poi ci sono la grafica, che è un netto passo avanti rispetto al vecchio Superbike 2000, e la fisica di gioco, che per la mia limitata esperienza che francamente si ferma un bel po’ di anni indietro è ancora oggi qualcosa di spettacolare. E poi, per chi abbia già fatto esperienza con il capitolo precedente della saga EA, ci sono varie moto nuove: la Bimota, che nel tuo mondo di dodicenne nemmeno hai mai sentito nominare ma che se preordini DI BRUTTO Volume Due imparerai ad amare, e la Honda che si è profondamente ammodernata almeno nell’aspetto estetico, che è l’unica cosa che ti interessa al momento, passando dalla RC45 alla VTR.

Però tu hai scelto lei, quella della copertina. Sei il samurai Noriyuki ‘Nitronori’ Haga e sotto le chiappe hai la Yamaha R7 ufficiale. Ti affezioni al personaggio e alla moto, così decidi di scoprire qualcosa in più. Ad esempio, come i tuoi beniamini abbiano figurato nel vero campionato Superbike della stagione conclusa, 2000, qualche mese prima.

Scopri che no, non hanno vinto, ma che ci sono andati abbastanza vicini piazzandosi secondi, alle spalle di Texas Tornado Colin Edwards e della debuttante Honda VTR 1000 SP-1. Però la storia della Yamaha R7 è interessante, come spesso accade con quegli unicorni dalla breve vita, rari e nati per vincere. Che però non hanno vinto, e nonostante ciò hanno fatto breccia nel cuore di chi in quegli anni seguiva le corse delle derivate di serie. Anche se, in effetti, definire la R7 come una derivata dalla serie è improprio.

La Yamaha R7 rientra infatti nella categoria delle famigerate homologation special: un mezzo, auto o moto che sia, prodotto e immesso sul mercato in un numero limitato di pezzi con l’unico obiettivo per il costruttore di ottenere l’omologazione per essere ammesso ad un determinato campionato.

Esempi eclatanti sono le auto da rally del gruppo B, il cui regolamento richiedeva la produzione di almeno 200 esemplari regolarmente in vendita. Per il mondiale Superbike il numero minimo era allora di 500 pezzi, e appena 500 furono le R7 prodotte. Di fatto, non era una moto di serie omologata per le corse, era piuttosto una moto da corsa omologata per la strada.

Il prezzo, in Italia, fu stabilito in 50.000.000 di lire, e pare che circa 50 sia stato anche il numero di esemplari acquistati nel nostro paese. La R7 arrivò ufficialmente nei saloni di fine anno del 1998 e andava a sostituire l’ormai antiquata YZF 750 R, modello impiegato in gara dal 1994 al 1998.

La nuova moto surclassava la vecchia YZF già ad un primo sguardo: proiettata nel nuovo millennio, era più snella, affilata, appuntita, tagliente. Finalmente qualcosa che fosse, almeno nell’aspetto estetico, all’altezza di sua maestà 916. Che poi c’era già la R1, con cui la sorellanza era palese, ma quest’ultima non poteva correre in SBK quindi facciamo finta che non ci fosse…

Il nome completo è YZF-R7 OW-02, in cui la leggendaria sigla OW indica i modelli progettati direttamente dal reparto corse. La R7 era quindi l’erede della OW-01, la FZR 750 R del 1989, anch’essa nata per la Superbike e per tentare di contrastare il duopolio Honda-Ducati. Già, perché se a fine anni ’80 davanti a tutti stavano costantemente RC30 e 851, un decennio più tardi la situazione non era molto diversa, con RC45 e 916 a spartirsi, anche se iniquamente, i mondiali.

Il regolamento Superbike di quel periodo imponeva per i motori a 4 cilindri una cilindrata massima di 750 cc, di fatto rispettata dai quattro costruttori giapponesi (Kawasaki ZX-7R, Honda RVF 750 RC45, Suzuki GSX-R 750), mentre per le bicilindriche il tetto era di 1.000 cc. Per questo motivo la R1, che era stata lanciata già una stagione prima (fu presentata a fine 1997), non poteva essere impiegata in gara.

La R7 come detto nasceva esattamente con l’obiettivo delle corse e vantava quindi diverse soluzioni più raffinate rispetto alla R1, anche se nella linea le due moto (anzi tre, nel 1998 arrivò anche la R6) erano evidentemente sorelle nonché anni luce avanti alla concorrenza delle tozze e goffe Honda-Suzuki-Kawasaki.

Il propulsore era un 4 cilindri DOHC (double over head camshaft = doppio albero a camme in testa) da 750 cc con 20 valvole (5 per cilindro ovviamente) in titanio, stesso materiale impiegato per le bielle, alesaggio e corsa rispettivamente di 72 e 46 mm e pistoni stampati con uno sboronissimo disegno a ‘fiore’ proprio per via delle 5 valvole.

Oltre alla cilindrata, un’altra grossa differenza rispetto alla R1 era il sistema di alimentazione: la prima R1 era notoriamente a carburatori, mentre la R7 presentava quattro copri farfallati con una batteria di 8 iniettori.

La R7 sarà anche nata per le corse e tutto quello che volete ma i dati del banco, anche visti all’epoca, facevano veramente piangere: 106 cavalli a 11.000 giri, quando la sorellina R6 ne erogava 118 e la sorellona R1 150. Com’è ‘sta storia?! Suvvia, c’è il trucco. Si trattava proprio di un trucco di Yamaha, che castrò fortemente il 4 cilindri per superare più agilmente le sempre più stringenti normative antinquinamento che andavano via via nascendo nei paesi europei.

È chiaro che il potenziale fosse ben altro. E in effetti, con il costo irrisorio di qualche milioncino di lire in più, d’altro canto se puoi spenderne 50 probabilmente puoi spenderne anche 55 o 60, ci si portava a casa un kit ufficiale Yamaha per riportarla a potenza piena. Questo kit era composto da una nuova pompa benzina e da una centralina che attivava tutti e 8 gli iniettori, invece dei soli 4 utilizzati per i testi omologativi. Così facendo la bestiola arrivava fino a 14.000 giri e ad una trentina di cavalli in più. Già meglio.

A livello ciclistico la R7 si basava su un telaio perimetrale in alluminio Deltabox ll verniciato di nero come sulle YZR da GP (figo duro) molto più rigido rispetto a quello della R1, abbinato ad un comparto sospensioni estremamente raffinato forte di forcella rovesciata da 43 mm e monoammortizzatore Öhlins entrambi completamente regolabili (precarico, freno in compressione ed estensione) che neanche in gioielleria.

L’impianto frenante prevedeva due dischi anteriori da 320 mm con pinze a quattro pistoncini. Poi serbatoio da ben 23 litri, così capiente per prestarsi senza ulteriori modifiche all’impiego nell’endurance, fatto dimostrato anche dal bocchettone di rifornimento in alluminio già predisposto per l’inserimento del doppio innesto rapido, e una serie di altri dettagli come carene, porta targa e fanale posteriore a sgancio rapido. Peso complessivo dichiarato di 176 kg a secco.

Abbiamo parlato del kit per riportare la R7 a potenza piena, ma si dà il caso che di kit ce ne fosse un altro, più invasivo, costoso e decisamente più interessante. Questo secondo misterioso pacchetto altro non era che quello offerto ai team privati che volessero schierare una moto nel mondiale Superbike.

Conteneva parti come sistema di scarico racing completo, radiatore maggiorato, air-box specifico, guarnizione della testa ribassata, pompa benzina dedicata e nuovi parametri per la centralina, cornetti di aspirazione, una cascata di ingranaggi del cambio (a sei marce) rapportata per la pista, pinze freno anteriori Nissin a 6 (sei) pistoncini, cerchi Marchesini, ammortizzatore di sterzo Öhlins e tante altre croccantezze.

Le cifre in gioco qui erano ben altre, si parla di 39.000.000 di lire per un kit che rendeva la R7 una moto di fatto pronto-mondiale e che portava i cavalli a circa 170, ma tutto sommato era destinato strettamente a chi girare in pista lo faceva di mestiere e quindi possiamo dire che ci sta.

Tornando a parlare di gare e piloti, la R7 venne impiegata dal team ufficiale Yamaha per due sole stagioni, 1999 e 2000, e i risultati non furono all’altezza del blasone di cui oggi gode la moto. Come spesso accade, anche i mezzi più sfigati nel tempo acquistano un’aura quasi mitologica che li rivaluta agli occhi dei posteri (la sigla NR vi dice niente?).

Il pilota di punta fu come anticipato Noriyuki Haga, che militava tra le file Yamaha al mondiale SBK dal 1998. Nitronori aveva dimostrato di saperci fare con le derivate di serie, ottenendo grandi risultati nelle gare che correva come wild card sul circuito di Sugo (chi se lo ricorda con quello scollino mozzafiato sul rettifilo del traguardo?) in Giappone. Già nel ’97 era arrivato 2° in gara 1 e 1° in gara 2, mentre nel ’98 aveva portato a casa cinque vittorie di manche e vari altri podi. Sembrava quindi l’uomo giusto per accompagnare al debutto la OW-02.

E in effetti, lui e il compagno di squadra Vittoriano Guareschi erano decisamente ok, era la moto a non essere all’altezza della concorrenza. Il miglior risultato in quel ’99 fu sì una vittoria di manche, ma fu appunto solo una, seguita da un solo altro piazzamento sul podio. Furono invece ben sette gli zeri tra guasti e cadute del giapponese. A fine campionato Haga fu 7° con 196 punti mentre Guareschi fu 10° con 99 punti e un terzo posto come momento più alto.

La R7 di Nitronori Haga

La R7 di Vittoriano Guareschi

Per il 2000 il reparto corse di Iwata e la squadra interna coordinata da Belgarda si riorganizzarono con l’obiettivo, questa volta per davvero, del titolo mondiale e le cose andarono decisamente meglio. Nitronori portò in casa Yamaha quattro vittorie parziali e altri sette podi che gli valsero l’anticipato secondo posto nella classifica finale alle spalle di Colin Edwards.

Le cose non furono in realtà così semplici, perché di mezzo ci fu la spinosa questione della squalifica di Haga in seguito ad un test antidoping. Senza squalifica i successi di manche sarebbero stati certamente almeno 5 (gli fu cancellato quello in gara 2 a Kyalami subito dopo il controllo) e fu inoltre bandito dalle gare per un mese ma solo a fine stagione, saltò quindi l’ultimo round a Brands Hatch, dopo che i risultati dei test erano stati convalidati dopo ricorsi, contro ricorsi e appelli vari.

Haga perse il titolo per 65 punti, contando che gliene furono tolti certamente 25 per il Sudafrica e realisticamente almeno una trentina in Gran Bretagna. Secondo questo conto spannometrico le lunghezze a separarlo da Edwards sarebbero state comunque 10, ma si sa che quando si arriva all’ultimo round con il mondiale ancora aperto entrano in gioco anche altre variabili. Ma con i se e con i ma non s’è mai fatta la storia, e l’unico fatto è che Haga e la R7 furono secondi.

A fine 2000 la carriera sportiva della R7 si concluse, almeno quella in forma ufficiale. La OW-02 continuò ad essere venduta e impiegata da alcuni team privati fino al 2002, mentre dal 2003 furono ammesse le 1.000 a quattro cilindri e ci fu finalmente campo libero per la R1. Questa raggiunse l’agognato obiettivo del mondiale, costruttori nel 2007 grazie ai risultati ancora di Haga e poi Corser, e piloti nel 2009 con Ben Spies, ma è un’altra storia. Quanto al nostro amato Samurai, ben prima di tornare in Superbike con Yamaha, nel 2001 fu dirottato in 500 dove corse con la YZR senza grandi risultati, nel 2002 tornò in Superbike ma con l’Aprilia RSV Mille, nel 2003 tornò ancora in MotoGP con la RS Cube… ma, come nel più consueto dei casi, questa è un’altra storia.

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Articolo del 14 Ottobre 2022 / a cura di Carlo Pettinato

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  • william

    gran ferro all’epoca, ma tanti ragazzini si sono fatti male con la R1 , perlomeno nella mia zona, troppi cavalli

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