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La breve e (poco) fulgida carriera delle moto turbo anni ‘80

Kurisu 750 Turbo
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Bene, iniziamo articolo

Guardate la foto di copertina dell’articolo: quanto ignorante devi essere per mandare in stampa un dépliant come questo? Voglio dire, la tua nuova moto stradale di punta, sullo sfondo un cielo minaccioso e un fulmine che la colpisce e illumina. Qual è il senso? Ovviamente, non c’è nessun senso, l’unica cosa che conta è essere tamarri e fare i gradassi. Dopotutto, sono gli anni ’80, e tra mullet e occhiali specchiati forse questo dépliant era anche il meno. Ma facciamo uno, anzi due passi indietro. Dagli anni ’80 passiamo ai ’70 e immergiamoci per un attimo nell’ambiente del motorsport di quel tempo per capire cosa stesse succedendo.

NOTA: qualora te la sia scordata o non la conoscessi, QUI puoi trovare la storia del turbo e di come fu fondamentale per vincere la Seconda guerra mondiale, non fare il pigro e studia!

– se le formazioni di B-17 potevano volare così in alto da mandare in crisi la caccia Nazi fu sopratutto grazie all’avvento dei nuovi turbocompressori sviluppati dalla General Electric e di cui questo eleganti aeroplani erano dotati –

Tutto nasce da un tale che si chiama Bernard Dudot. È laureato in ingegneria e di mestiere fa il dipendente alla Renault. Essendo ingegnere, però, non fa l’impiegato, né il centralinista o il contabile. Si occupa di motori, e anche di motori abbastanza interessanti. Per l’esattezza, motori da Formula 1. Una bella notte Bernie si sogna di ficcare un paio di turbocompressori dentro a uno di questi propulsori, così, tanto per vedere cosa succede. E come per magia, ecco che per la stagione 1977 Renault presenta la RS01, la prima auto da F1 sovralimentata (mediante turbocompressore azionato dai gas di scarico) di tutti i tempi. Se parliamo di sovralimentazione tramite compressori meccanici beh, qui dobbiamo tornare parecchio indietro fino all’Alfetta 158 ma è un’altra storia.

Torniamo a noi: 6 cilindri a V di 90° biturbo (una turbina Garrett per bancata), 1,5 litri e 500 cavalli a 11.000 giri con pressione di sovralimentazione di 1,8 bar, valore di potenza comparabile a quello delle colleghe con motori aspirati da 3 litri. Con la differenza che le F1 aspirate erano già tirate più o meno al limite, mentre la sovralimentazione era agli esordi e aveva enorme margine di sviluppo, come vedremo. La RS01 era sì potente e veloce, ma come tutti i motori turbo vecchia scuola soffriva di un terribile turbo lag che la rendeva difficile da gestire e poco efficace nei tratti più lenti e guidati dei circuiti. E non era nemmeno affidabile. In Renault si lavorò sodo, ma la stagione ’77 fu avara di soddisfazioni e nel ’78 non andò molto meglio. Per il 1979 però cambiarono un po’ di cose, tra cui le turbine Garrett che furono sostituite con delle KKK che soffrivano di minore ritardo. Fu il GP di Francia ’79 a segnare la svolta: Jean-Pierre Jabouille vinse a Digione e segnò il primo trionfo di una vettura turbo in Formula 1, in una domenica che passò alla storia in realtà per il mitologico duello Villeneuve-Arnoux per la seconda posizione.

Fu così, in quel primo di luglio 1979, che anche gli altri costruttori si convinsero definitivamente che quella del turbo poteva essere la strada giusta. Seguirono in breve Ferrari, già dall’80 con la 126 CK e poi C2, nell’83 la Brabham con la BT52 motorizzata Bmw M12/13 (un 4-in-linea da 1,5 litri, nella sua prima versione raggiungeva una potenza nell’ordine degli 800 cavalli con una pressione di sovralimentazione che superava i 3 bar; nel 1986 si parla di qualcosa come 1.300 cavalli a 5,5 bar in configurazione qualifica che qui ragazzi erano proprio fuori di testa) che vinse addirittura il mondiale con Nelson Piquet al volante. Questo del 1983 fu in effetti il primo titolo di F1 vinto da un’automobile turbo. La turbo-era non era solo iniziata, dopo appena tre o quattro anni era già al suo massimo splendore.

Non fu molto diverso l’andazzo nel mondo dei rally. L’ultimo campionato del mondo vinto da un’auto aspirata fu, come in F1, quello del 1982, quando salirono sul tetto del mondo Walter piede pesantuccio Röhrl navigato da Christian Geistdörfer e la loro Opel Ascona 400. Nell’83 arrivò sua maestà Audi Quattro A2 (5 cilindri in linea turbo con quel suono dispari che levatevi proprio) che con l’equipaggio Mikkola-Hertz portò a casa quattro vittorie e il mondiale. Anche qui, in breve, partì la corsa alle super potenze, che arrivarono nell’86 a sforare ampiamente i 500 cavalli con auto come la stessa Audi Quattro nella sua versione ‘Panzer’ S1, la Peugeot 205 T16 Evo2, la Lancia Delta S4 e la Ford RS200. Poi il Gruppo B a fine ’86 fu bandito ma questa è un’altra storia. Dall’87 la massima serie si corse con vetture di Gruppo A, poi WRC e oggi Rally1 che, a parte rarissime eccezioni (M3 E30 sbavo fortissimo), erano e rimangono turbo.

Come si è capito, gli anni ’80 sono stati gli anni del turbo. F1 turbo, auto da rally turbo, Fiat Uno Turbo, moto turbo… moto turbo?

Ebbene, TUTTI furono contagiati dalla turbomania, anche i costruttori di moto, su tutti, i quattro colossi giapponesi. La prima fu Honda, sì, quella del dépliant zarro con il fulmine.

A Tokyo ovviamente si lavora e si lavorava anche in campo automobilistico e quindi un occhio dall’altra parte della barricata lo si butta sempre (anche se forse lo spunto non arrivò proprio da lì, come scopriremo a breve), ed ecco che per primi se ne uscirono con una moto sovralimentata. Pensarono bene di non mettere in piedi un progetto ex novo, per fortuna, ma di turbizzare un modello già esistente. La scelta ricadde sulla CX 500, una sport touring lanciata nel 1977 mossa da un bicilindrico a V di 80° trasversale in stile Guzzi che erogava la bellezza di 50 cavalli. Era per l’esattezza il 1980 quando la CX 500 Turbo veniva presentata, con la turbina incastonata nel mezzo della V poi evoluta in 650 due anni più tardi. 82 cavalli per la 500 ma ben 100 a 8.000 giri e circa 100 Nm ad appena 4.500 giri per la 650. La guida era tutto un programma, un lag che quando il turbo entrava bisognava farsi il segno della croce coadiuvato (coadiuvato il lag, nell’intento di ucciderti s’intende) da una ciclistica che 100 cavalli bastavano e avanzavano per portarla al limite.

Le altre case giapponesi seguirono di lì a breve. Nell’81 Yamaha lancio la bruttissima XJ 650 Seca Turbo e Suzuki la ben più gradevole XN85 Turbo che assomigliava e non poco alla mitica Katana. La Yamaha fu in effetti la seconda ad arrivare dopo la Honda, il motore era un classico quattro in linea raffreddato ad aria, doppio albero a camme in testa, 653 cc condiviso con la XJ 650 aspirata. La Turbo era sovralimentata tramite una turbina Mitsubishi che portava la potenza dai 71 cv della sorella a 90 cavalli a 9000 giri. Si parla di un aggravio di peso rispetto alla versione aspirata di circa 30 kg, una cosa folle che per molti versi vanificava l’aggiunta di potenza. L’accelerazione da fermo era sostanzialmente uguale a quella della XJ standard, la Turbo veniva fuori meglio in tema di velocità massima dove sfiorava i 210 chilometri l’ora. Ad ogni modo, dopo sole due stagioni uscì di produzione, rimpiazzata dalla XJ 900 ovviamente aspirata che con i suoi 853 cc e quasi 100 cavalli l’aveva bellamente sorpassata non solo come cubatura ma anche in quanto a prestazioni.

Terza in ordine cronologico, appena dopo Yamaha, fu la Suzuki XN85 Turbo. Si basava meccanicamente sulla GS650, ma da questa si distaccava per alcune scelte estetiche e aggiornamenti tecnici. La carena era in effetti ispirata a quella della Katana, la ruota anteriore era da 16 come le moto del mondiale, la forcella aveva un sistema anti-dive, il manubrio era in realtà due semi manubri, all’epoca rari, e l’alimentazione era a iniezione elettronica. Il turbo era un compressore IHI e l’85 del nome è niente altro che il numero di cavalli erogati a 8000 giri, la coppia era di 76 Nm a 6500 giri. Il turbo era posizionato in modo poco strategico, sopra la scatola del cambio e quindi dietro ai quattro cilindri, in tal modo il raffreddamento dello stesso era a dir poco inefficace e i gas di scarico dovevano fare parecchia strada prima di arrivare a muovere la girante. I numeri di vendita della XN fecero di sicuro piangere qualcuno dei capoccia laggiù ad Hamamatsu: si parla di poco più di 1000 pezzi venduti.

Ultima ma non per importanza Kawasaki. Ad Akashi ci misero un paio di stagioni in più a finalizzare il progetto. La GPz 750 Turbo (questo nome più di altri me lo fa venire barzotto) era stata presentata a fine ’81 assieme alle altre, ma per vederla su strada servì attendere fino al 1983. In effetti, il progetto Kawasaki era di gran lunga il più maturo del lotto. 112 cavalli (+34 rispetto alla versione aspirata) erano mediamente una ventina più delle rivali. Era nettamente la più avanzata e prestazionale e, cosa non da poco, non soffriva di turbo lag, cosa che, ancor più che con un automobile, su una moto destabilizza e rende decisamente poco armoniosa la guida. Tuttavia non era un mostro di affidabilità e il prezzo era importante; tra l’aprile dell’1983 e fine 1985, quando uscì di produzione, se ne vendettero 5940, contro le oltre 7000 Honda CX circolanti. Il punto della questione, che determinò la disfatta anche di Kawasaki nonostante la GPz Turbo fosse una buona moto, era che arrivò tardi, quando le altre moto sovralimentate avevano già dimostrato di essere un flop e il mercato si era drasticamente raffreddato nei confronti di questa novità. Il fenomeno era in esaurimento, e le prestazioni della GPz non bastarono a rivitalizzarlo. Certo, Kawasaki non si accontentò e ci riprovò parecchi anni più tardi con la H2 (storia recente), ma anche questa è un’altra storia.

Ad onor del vero, la primissima moto turbo di ‘serie’ (pseudo) non fu nemmeno la CX 500. Nel 1976 la filiale americana di Kawasaki si trovava tra i piedi un bel lotto di fiammanti Z1R appena presentate e già demolite dalla stampa internazionale per una ciclistica che si dice fosse imbarazzante. Per tentare di correre ai ripari e rendere interessanti queste Z1R decisero di prenderne 250 esemplari e dotarli di turbocompressore (pare addirittura con il benestare dei vertici di Akashi) chiamandola Z1RTC, un feticismo dell’allora direttore di Kawasaki USA che era anche titolare della Turbo Cycle Company. Tirarono fuori da quel quattro cilindri in linea qualcosa come 130 cavalli contro i poco più di 80 della versione standard, ma il risultato fu di mettere ancor più in crisi la ciclistica e di dar vita ad una moto del tutto inguidabile. In definitiva, un flop sopra un altro flop. Abbiamo deciso di parlarne separatamente perché di fatto non era una moto progettata da Kawasaki né tantomeno un prodotto realmente di serie.

Al salone di Colonia del 1980 apparve anche un prototipo di Bmw sovralimentata che però non vide mai la luce. Si chiamava Futuro, era spinta da un classico bicilindrico boxer da 800 cc sovralimentato con turbina KKK con appena 75 cavalli e aveva circa questa forma qui.

Al di là di questi, che sono fatti, attorno alle moto turbo giapponesi aleggia una leggenda che ha origine a casa nostra, Bologna, Italia. Per la precisione nello stabilimento Moto Morini. Qui lavorava un signore che si chiama Franco Lambertini, una specie di genio dei motori che già attorno alla metà degli anni ’70, quindi almeno quattro anni prima dell’arrivo di Honda, si era inventato di ficcare un turbocompressore dentro una motocicletta. Morini non è mai stata una casa da grandi numeri, non poteva permettersi di progettare un motore nuovo ogni tre per due, e per tentare di stare al passo con le maxi giapponesi decise di vitaminizzare la propria 500. Fu così che iniziò la storia della Morini 500 Turbo.

Pare fosse addirittura il ’76 quando Lambertini installò una turbina KKK sul bicilindrico da mezzo litro di cui disponeva: i risultati in termini di potenza furono subito promettenti, arrivò a circa 80 cavalli che era la potenza raggiunta dalle 750 o 1000 aspirate di quel periodo. La KKK era però troppo grossa e il ritardo di risposta del turbo era inaccettabile, così Lambertini si mise a studiare per trovare una soluzione più efficace. Pare che nel corso delle ricerche si imbatté, ad una fiera di mezzi agricoli, in una piccola turbina a marchio IHI importata in Italia per uno scopo sicuramente lontano dal sovralimentare una moto da strada. Secondo la leggenda, Lambertini riuscì a mettersi in contatto con il fabbricante della detta turbina, giapponese, per cercare di farsi fornire un prodotto messo a punto per le esigenze Morini. Illustrò le specifiche che la turbina avrebbe dovuto avere, ma a quel punto dal Giappone non ricevette più notizie. Nessuno seppe più nulla da IHI, se non che, nell’80, quando Honda lanciò la CX 500 Turbo, questa era spinta da una turbina IHI progettata esattamente secondo le specifiche di Lambertini.

Ma per la casa italiana, oltre al danno, la beffa. Nel 1981, al salone di Milano, venne ufficialmente presentata la Moto Morini 500 Turbo. Una carenata esteticamente al passo coi tempi, tecnicamente avanzata e apparentemente ben funzionante, promettente. Peccato che non vide mai la luce per un motivo assolutamente assurdo, pare a causa dell’esorbitante cifra richiesta per realizzare gli stampi delle carene.

Ora, questa storia di Lambertini, IHI e la Honda è leggenda, ma se c’è del vero, ecco che potremmo addirittura far risalire a casa Morini la smania per le moto turbo di inizio anni ’80. Honda fu sì la prima ad arrivare sul mercato con un prodotto finito, ma se l’idea fu suggerita da qualcuno in casa IHI, che per puro caso aveva parlato con qualcuno di Morini… a chi diamo il merito?

NOTA FINALE: A proposito di Morini sovralimentate, nel corso dell’estate 2023 il nostro mitico direttore è stato sul Sacro sale di Bonneville (QUI il video della sua avventura) dove ha fatto la conoscenza di Amy, una ragazza proveniente da Los Angeles con la sua Morini treemmezzo sovralimentata mediante compressore meccanico, beccatevi qualche scatto di quel colpo di fulmine quell’incontro fortunato. Se vi piace (la moto), potete seguirla qui -> https://www.instagram.com/mighty_morini/

Articolo del 14 Novembre 2023 / a cura di Carlo Pettinato

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  • Stefano C.

    Mille volte meglio aver scritto Turbo sulla marmitta piuttosto che Akrapovich.

  • Alessandro

    La sovralimentazione con compressore meccanico della Morini 3½ di Amy sembra la soluzione ragionevole. Mi chiedo perché le Case costruttrici non hanno tentato per le moto la via del compressore volumetrico: non ha lo stesso rendimento di un turbocompressore né l’appeal che la parola “Turbo” possedeva nei gloriosi ’80 però regala coppia fin dai bassi regimi (specie a paragone delle turbine anni ’80) e ha il pregio di lasciarsi guidare esattamente come un aspirato, privo di turbo-lag.

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