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Dalla RVF alla VTR SPW, Honda e le misteriose moto della 8 Ore di Suzuka

Honda RVF 750-RC

Ve lo ricordate Tourist Trophy? No, non la corsa su strada dell’isola di Man, pur degna di essere ricordata. Parlo del videogioco, quello uscito nel 2005 e partorito dalle stesse menti della mitologica saga Gran Turismo (ps: grazie per tutto Poliphony). Quel gioco era una gran figata e credo che ancora oggi a livello di fisica possa dire la sua contro i prodotti contemporanei. Ricordo bene il momento in cui venni a conoscenza della sua esistenza. Ero un ragazzetto piantato davanti alla tv a vedere chissà cosa quando uno spot di Tourist Trophy passò durante la pubblicità. (Ma da quando si fanno gli spot dei videogiochi di moto alla tv? Sarà stato Eurosport durante una qualche gara o qualcosa del genere.)

Corsi fuori: “Papà papà c’è un nuovo gioco di moto bellissimo fighissimo per la Play sarebbe veramente bello se potessi averlo anche io”. Proprio così, senza punteggiatura. Poco tempo dopo, non so dire se giorni, settimane o mesi, da bimbo fortunato quale ero mi ritrovai con la mia bella copia di Tourist Trophy per le mani e la mia PS2 Slim pronta a farla girare. Fu una gioia scoprire che parecchie delle piste arrivavano da Gran Turismo 2, con il quale ero cresciuto solo pochi anni prima. Mid-Field, Laguna Seca e Seattle, le mie preferite, ma poi anche le difficili Trial Mountain e Deep Forest, con le loro sconnessioni iper realistiche e i salti in stile road race vera.

Quel gioco era una gran figata. L’ho già scritto forse?

Non ricordo con cosa si iniziasse, forse con un merdoso modesto scooterone, per poi iniziare la scalata verso le superbike. Ricordo invece che mi davano gran soddisfazione le duemmezzo due tempi degli anni ‘90, agili ed equilibrate, tipo la Yamaha TZR e la Honda NSR. Mannaggia se l’avessi ancora per le mani andrei subito a farmi due pieghe a Suzuka con una di quelle.

Ma chi si ricorda quale fosse la moto più veloce di tutto il gioco? (o forse una delle più veloci dai, è funzionale al racconto)

Era lei, la Honda CBR 1000 RRW Fireblade Seven Stars, cioè niente meno che la replica della moto ufficiale con cui Honda correva nelle gare endurance. Quella W in fondo al nome mi ha sempre mandato fuori di testa, sta per Works, e cioè ufficiale. Un po’ tipo gli Skunk Works della Lockheed, gli affari più loschi di cui fuori si deve sapere poco o nulla se non quello che loro vogliono che tu sappia.

E l’unica cosa che io – noi – all’epoca sapevamo di questa CBR, è che era fottutamente veloce e che aveva vinto alla 8 Ore di Suzuka per due anni di fila, nel 2004 con la coppia Tohru Ukawa–Hitoyasu Izutsu e nel 2005 con ancora Ukawa affiancato da Ryūichi Kiyonari. Per chi non se li ricordasse, Ukawa era il compagno di squadra di Valentino Rossi in MotoGP nel 2002, Kiyonari invece è quel pazzo che passò alla storia più per quel giro in qualifica sotto l’acqua a Donington che per i suoi veri successi.

Insomma dicevamo della Fireblade Seven Stars. A proposito, se volete saperne di più sulla storia della Fireblade vi conviene andare a leggere qui. Quella livrea nera con stelle bianche in realtà non mi ha mai fatto diventare matto, l’ho sempre trovata un po’ arrogantella, come se volesse dire “noi abbiamo queste dannate stelle siamo i più fighi e voi no”, ma ha sempre e comunque esercitato il grande fascino della macchina vincente, imbattibile, la più vicina alla perfezione. E poi c’erano le tute in pelle dei piloti, grigio metallizzato, tanta roba.

Questa CBR altro non era che la punta dell’iceberg della stirpe di cui vogliamo fare oggi la rassegna, quella delle più belle Honda ufficiali da endurance che hanno corso e vinto in patria, roba solo per veri impallinati di moto da corsa. Mezzacci che, come indicato da quella W alla fine del nome, hanno sempre avuto attorno un certo alone di mistero, almeno qui da noi, a dodici fusi orari di distanza da dove venivano e vengono progettate. Moto che con la serie avevano in comune solo il nome (a volte) e il numero di ruote. In realtà, fino al 1993 incluso, il regolamento in vigore era quello del campionato del mondo TT-F1 (questa è un’altra bella storia che un giorno vi racconteremo), in cui si correva con moto che erano delle specie di prototipi con un motore che ricordava da lontano uno preso dalla serie, mentre dal ’94 si corre con moto con fiche Superbike (si legge fish, è il documento sanzionato dalla FIM che determina in quali componenti e in che modo un mezzo può essere modificato per partecipare ad una determinata gara; non c’entra nulla con la pelush, mi dispiace).

La CB 900 del 1979

Ma partiamo dall’originale, la prima, quella del 1979. Che per assurdo in realtà non era nemmeno pilotata da un equipaggio di giapponesi ma dai due australiani Tony Hatton e Michael Cole (in effetti prima che un nipponico vincesse a Suzuka si dovette aspettare la quinta edizione, quella dell’82). La moto di Hatton e Cole era una CB 900, una semi carenata derivata almeno in teoria dalla CB 900 stradale che era una classica naked a quattro cilindri in linea frontemarcia raffreddata ad aria.

Le cose si fecero più losche nel 1981, quando Honda portò in pista la RS 1000, una sigla che come è noto non ha nulla a che fare con i modelli di produzione (ad esempio la RS 250 R era la moto da GP a due tempi ai tempi dei mondiali di Dani Pedrosa). Qui si rileva già una bella dose di ignoranza, sempre quattro cilindri in linea raffreddato ad aria e uno sguardo guercio con quel faro tondo giallo da un parte del cupolino e il numero 1 dall’altra. Leggenda vuole che l’unico strumento dietro la semi-carena fosse un contagiri con il minimo a 4.000 giri e che la potenza erogata fosse di 135 cavalli a circa 10.000 giri/min. Questa moto, con i colori di Honda France, vinse con la coppia statunitense Mike Baldwin-David Aldana.

La loschissima RS 1000 del 1981

Honda vinse a Suzuka anche nell’82 di nuovo con una CB 900, questa volta con un equipaggio giapponese formato da Shigeo Iijima e Shinji Hagiwara (spero di averli scritti giusti). Nell’84 il regolamento TT-F1 impose il tetto di 750 cc e così anche a Suzuka fu introdotto detto limite. In quell’anno vinse ancora Mike Baldwin assieme a un certo Fred Merkel, se non lo conoscete andate a studiare, sulla RS 750 R, un gran ferro del dio che nelle mani di Joey Dunlop aveva invece vinto il titolo mondiale TT-F1. Non so voi ma io con queste sigle e nomi mi sbrodolo veramente. Quello della settemmezzo era un motore derivato dalla VF 750 F stradale, quindi già un V4, che pare erogasse 132 cavalli in configurazione F1 e 120 in assetto endurance. Il telaio invece era una pregiata unità in alluminio, ispirata a quello delle 500 da gran premio.

La RS 750 R del 1984

La prima della stirpe RVF, quella del 1985 in livrea Rothmans

Nel 1985 cambiò la sigla ma non il risultato. Debuttò la prima RVF 750 in livrea Rothmans, pilotata da Wayne Gardner e Masaki Tokuno. Quella dell’85 fu la prima vera apparizione di Honda in veste 100% ufficiale, che iscrisse a Suzuka il Team HRC. La RVF si distingueva dalla RS per un telaio sempre in alluminio ma perimetrale a doppia trave; freni e sospensioni arrivavano invece direttamente dalla NSR 500 di Freddie Spencer. Il motore era un’evoluzione di quello della RS, preso dalla stradale VF ma elaborato con pistoni forgiati, bielle e valvole in titanio, carburatori maggiorati e altre croccantezze. Per la moto da endurance si parla di un peso di 160 kg a secco, contro i 152 della versione F1.

Nell’86 altro successo del team HRC con Gardner e Sarron, a bordo di una RVF aggiornata con forcellone in alluminio monobraccio, soluzione adottata poco tempo dopo anche sulla nuova nata per il mondiale Superbike, la RC 30.

La RVF vinse ancora nell’89, ‘91 (equipaggio Doohan-Gardner ciao proprio) e ’92. Il ’93 fu l’ultimo anno del regolamento TT-F1, ma la vittoria alla 8 Ore andò alla Kawasaki di Scott Russell e Aaron Slight. Nel ’94 Honda mise in pista la moto che era stata approntata la per la Superbike, la RVF 750 RC 45, che fino al ’99 portò a Tokyo cinque successi con nomi tipo Slight, Doug Polen, Tadayuki Okada, Shinichi Itoh e Alex Barros. Sulle carene delle RC 45 si alternarono colori mitici come il bianco/rosso/blu HRC, addirittura senza main sponsor, poi il tondo Lucky Strike nel ’98 e ’99. Interessanti le dinamiche di quel ’99, quando iniziò a piovere durante la terza ora di gara e quasi tutti i team rientrarono a montare gomme rain. Non Alex Barros, che da vero duro qual era e quale è rimase in pista con le slick per assistere poco dopo ad un nuovo cambio di meteo che riportò il sole a splendere, dando al duo Honda un vantaggio decisivo da gestire fino alla vittoria.

L’ufficialissima RVF di Dominique Sarron, talmente ufficiale che non aveva bisogno di sponsor

Questo non vi diciamo neanche chi è che tanto si riconosce dallo stile (e dal casco) (e dal nome sulla tuta) (e da come sta seduto)

Il team Honda Lucky Strike del ’99, da sinistra Shinichi Ito, Tohru Ukawa, Tadayuki Okada e Alex Barros, che manici ragazzi

Colin Edwards sulla RC 45 Castrol, sempre nel 1999

Nel 2000 fu portata a Suzuka un’altra moto leggendaria, la VTR 1000 SPW condotta da una coppia niente male come Valentino Rossi e Colin Edwards. I due corsero assieme nel 2000 e nel 2001, prima con livrea Castrol come già faceva Edwards nel mondiale SBK e poi con colorazione rosso fluo Cabin, con cui vinsero al secondo tentativo assieme anche a Manabu Kamada.

La VTR portò a casa la bellezza di quattro vittorie di fila tra il 2000 e il 2003, anche grazie a Ukawa e Daijiro Kato che furono primi nel 2000. Nel 2002 invece vinse l’equipaggio Kato-Edwards sempre su VTR Cabin. Nel 2003 non vinse ma resta nella leggenda la VTR in livrea Seven Stars guidata da Nicky Hayden e Kiyonari, purtroppo fuori gara in seguito a una caduta di Hayden dopo essere partiti in pole.

La VTR di Daijiro Kato e Tohru Ukawa 

Clamoroso scatto ad un pit stop durante la 8 Ore del 2001 per la coppia Rossi-Edwards

La VTR Seven Stars di Nicky Hayden e Ryūichi Kiyonari

Nel 2004 la VTR su sostituita dalla CBR 1000 RRW Fireblade, moto da cui è scaturito tutto il racconto. Dopo quasi vent’anni Honda abbandonava il motore con architettura a V in favore del quattro in linea che è arrivato fino ai giorni nostri. Qui ci fermiamo perché il resto è storia relativamente recente, e l’alone di mistero di cui sopra misto a fascino e leggenda funziona molto meglio se parliamo di ferri vecchi degli anni che furono, di cui poco si sa e poco si saprà sempre, visto che anche l’onnipotente internet è assai avaro di informazioni.

Articolo del 4 Aprile 2023 / a cura di Carlo Pettinato

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