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Racing games: dal cabinato al salotto – Parte 1: The 80’s

Noi di RollingSteel.it siamo un po’ nostalgici. Un buon motivo per rispolverare i nostri nebbiosi pomeriggi nelle peggiori sale giochi della città a cercare di limonare nascosti dietro a qualche cabinato dai colori fluo.

Correva il 1986 ed io, a Miami, agivo sotto copertura nella narcotici con il nome di William Pareo Behringer, era una di quelle notti in cui non mi andava di tornare a casa.

Le luci dei neon sgargianti si riflettevano sul parabrezza della mia De Tomaso Pantera GT5-S quando noto un’insegna “Arcade” su Collins Avenue; decido allora che il whiskey può aspettare. Parcheggio, entro nell’edificio e lo vedo, mi colpisce e mi rapisce.

Signore, Signori: Le Sale giochi, 200 lire per un’emozione.

Ma prima del cabinato, le sale giochi: fumoso regno incontrastato di noi giovani cresciuti tra gli anni ’80 e i primi ’90. Le sale giochi erano composte da persone di ogni sesso, età e risma (per non dimenticare l’immancabile bullo che qualche schiaffo random riusciva sempre a farlo atterrare), riunite insieme da record infranti e sgomitanti multiplayer. Per molti la sala giochi ha rappresentato un rito di passaggio fatto di prime volte senza genitori al fianco, di sigarette tossite (e spente sui posacene che erano inseriti di serie nei cabinati) di nascosto agli angoli e scolastiche seghe invernali. La nostra generazione ha passato giornate intere dentro le sale giochi.

Mi ricorderò sempre la prima sala giochi in cui entrai, per assurdo non era in una grossa città ma in un paesotto di montagna: all’esterno l’insegna a forma di stella aveva la dicitura “Ziggy Bar” ed illuminava il viottolo di un giallo pallido; una volta varcata la soglia si scendevano tre scalini, in un seminterrato tutto perlinato e, il Signore soltanto lo sa, la cappa di fumo di sigaretta che c’era. Era un buco buio e anche un po’ sozzo ma vedo ancora i cinque cabinati ed il flipper davanti a me. Non credo di aver avuto più di sei anni.
Oggi non c’è più.
Essendo comunque cresciuto in una sperduta provincia nebbiosa non posso vantare limoni in sala giochi come gli amici di città, al peggio potevo andare dietro al cimitero dove riceveva una coetanea. Tuttavia gli amici con cui andavo in arcade erano quelli che mi facevano scordare la figa e con cui disintegravo record su record.
Esisteva già il Neo-Geo ma di questo parleremo nel prossimo articolo.

Oltre a tutto questo, le sale giochi erano anche il posto dove erano presenti i videogiochi che non si potevano avere a casa e a regnare veramente erano i cabinati, dio quanto ho sognato di averne qualcuno in casa. I cabinati, che figata, scatoloni di legno truciolare o lamellare con dentro un tv, uno specchio e robe di circuiti che vomitano colori e suoni con cui interagire. Potevano essere delle forme più disparate a seconda del genere di gioco al proprio interno ma, siccome noi siamo stronzi, parleremo solo di quelli di auto.

Tengo a premettere che non sarà una classifica dei 10 migliori retro racing games bensì voglio farvi tornare indietro a quando i bulletti vi davano un calcio in culo scostandovi dal joystick e voi, scemi, rimanevate lì a guardarli giocare perchè tanto erano più bravi di voi e, per lo meno, non sprecavano il gettone.

Detto questo, i primi videogiochi di auto erano splendidi nella propria semplicità, con un’estetica quasi geroglifica che era di una chiarezza inequivocabile, con lo striscione grigio in mezzo e il verde o il beige ai lati, fine. Un po’ più di dettaglio era riservato alle auto che tutto sommato avevano dei tratti sufficientemente riconoscibili tipo fanalini posteriori e specchietti.

Eppure c’era una cosa che solo i games degli anni ’80 avevano e accomunava tutti i generi; quella cosa che ti faceva rimanere lì attaccato, ti faceva incazzare, sbraitare, spendere decine di migliaia di lire in gettoni: erano difficili. Cazzo com’erano difficili! Più eri bravo e più diventava complicato proseguire, un po’ come nella vita, solo che non avevi un divorzio alle spalle e due figli da mantenere.

È incredibile la trasmutazione che negli anni hanno subito le sale giochi: da luoghi colorati e allegri ai moderni antri, nascosti dietro tende di vergogna e popolate da ombre dannate, birraccia disperata tra le mani e suoni ipnotici che danno il ritmo alla pensione che se ne va.

Comunque, asciughiamo la lacrimuccia e, fatto il punto di cosa fossero le sale giochi e l’atmosfera che vi si respirava dentro, ci tocca prendere in mano (come al solito) il joystick e avventurarci sulle magiche strade a 8 bit degli anni ’80.

OutRun.

Chi si ricorda Out Run? Era il gioco di tutti noi, non il primo racing game, non il migliore ma, sicuramente, il più vicino a chi era un appassionato di auto. Ammettiamolo, non è forse il sogno di tutti sedere su un Ferrari con un bel figone accanto? Non fare lo stronzetto radical chic, ti ho visto mentre stavi storcendo il naso: dieci Ave Maria e in ginocchio davanti a Don Francesco.

In più, se facevi il fiocco ad una palma, vedevi i passeggeri decollare fuori dall’auto che era sì un Testarossa ma un Testarossa cabrio e allora andavi dagli amici e raccontavi che Ammiocuggino aveva il Testarossa cabrio come Agnelli!

E giù che ti prendevano per il culo.

OutRun, uscito nel 1987, tuttavia era già un gioco parecchio avanti, con tanto di 4 stazioni radio tra cui scegliere ma, se vogliamo ringraziare un videogame per averci donato il miracolo della prospettiva, dobbiamo mandare una letterina a Turbo (bravissimi i creatori per aver dato un titolo originale a questo capolavoro), del 1981, che anche se non lo era veniva venerato come un gioco in 3D (santa prospettiva).

Turbo veniva distribuito in tre versioni, una col cabinato semplice con cui si giocava stando in piedi, una più piccola ed una megagalattica con tanto di sedile e scocca dentro cui calarsi.

In ogni versione c’erano il volante (assolutamente senza force feedback), una leva del cambio con cui scegliere tra marce alte e marce basse e un pedale dell’acceleratore. Per non farci mancare nulla, accanto al volante, Turbo ci proponeva le spie della temperatura dell’olio e del liquido refrigerante che non ho mai capito a cosa servissero.

Era una gran figata Turbo che però in realtà faceva schifo e l’unica ragione per cui è menzionato in quest’articolo è per la faccenda detta sopra che non mi ricordo io nemmeno qual’è.

Vogliamo fare come lo Chef Tony e spazzolare il tagliere facendo finire tutto nel buco del tavolo, coi bimbi del Biafra che ci guardano sconsolati?

Ok.

Il 1982 ha dato alla luce un titolo che ha cambiato le carte in tavola per tutti i giocatori “hardcore”: Pole Position, il primo videogame considerato un simulatore di guida.

Pole Position.

Beninteso, si tratta di rudimenti di simulazione ma, siccome parliamo dell’età del bronzo, il semplice fatto di poter partecipare ad una qualifica che determinasse il proprio posto in griglia è stato un game changer, abbinato anche al fatto che si corresse su un circuito realmente esistente, il Fuji Racetrack.
Mettiamoci anche che il cabinato era provvisto di postazione di guida e che in pista c’erano dei mega cartelloni Marlboro (perché ammettiamolo: il motorsport era meglio quando era sponsorizzato da alcool e sigarette) ed abbiamo IL primo prodotto racing a tutto tondo.


Pole Position, prodotto dalla Namco, girava con specifiche tecniche che oggi fanno veramente sorridere. Questo gioco ha cambiato le sorti dei nostri pomeriggi e delle nostre giornate grazie ad una risoluzione di 256×224 pixel (a 128 colori) e girava con una CPU a 3 MHz. Esatto, tre megahertz.

Tre MegaHertz per diventare il vero re della sala giochi. In questi locali oramai relegati nel passato era infatti presenta una sorta di gerarchia. Se eri forte, ma veramente forte eh, ad un gioco, potevi tranquillamente trovarti la folla attorno mentre ti esibivi nelle tue prodezze. È impossibile nascondere l’effetto “groupie” che era capace di generare l’essere il più forte ad un certo gioco. Non si contano le tipe conquistate a suon di best lap su Pole Position.

E gli altri??!??

Rega ci sono stati una valanga di giochi che all’epoca sbucavano come funghi, rimasti nel cuore degli appassionati con già un tot di capelli bianchi come anche so già che ci saranno gli omini sentenziosi (di cui abbiamo una diapositiva)

che mi diranno “eh ma non hai parlato di Pinco Pallino Racing!!1!11!”. Ragazzi miei, l’intento non è di fare una lezione di storia ma di riportarvi indietro ai tempi in cui ci si vestiva male (ma non malissimo) e le strade puzzavano di benzina e non di nafta.

Ci siete? Chiudete gli occhi e ricordate come si diventava scemi a cacciar giù il gettone dopo aver perso l’ennesima gara.

Sorridete che tornerò a rompervi i maroni per gli anni 90! Di seguito un paio di video da godervi mentre siete sulla tazza:

Articolo del 22 Novembre 2018 / a cura di Filippo Roccio

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